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«La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza» (1). Il teologo Hans Urs von Balthasar è stato tra i primi a cogliere la rottura che si è consumata in età contemporanea e a indicarne la portata. Sono passati sessant’anni dalla pubblicazione del suo Schau der Gestalt (La percezione della forma, primo di sette volumi di Gloria. Una estetica teologica) e, da allora, come non mai, la bruttezza è dilagata nel mondo senza che si vi siano state né diagnosi né risposte adeguate. E senza che, ancor meno, sia maturata una consapevolezza condivisa circa la posta in gioco.
Sulla portata di questo vuoto la posizione di Balthasar è radicale: «In un mondo senza bellezza […], in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perso la sua forza di attrazione […]» (2). Si può condividere o meno una simile affermazione, ma difficilmente si può contestare il fatto che molti nel mondo attuale, la bellezza, non sono «in grado di vederla» e, ancor meno, di praticarla come modo «di intendersi».
Balthasar, lo si è visto, mette in relazione la caduta della bellezza con l’affermarsi del «moderno mondo degli interessi». In questa convinzione, e in generale nell’ampio scavo sul tema della bellezza del teologo svizzero, non si può non cogliere un’eco delle tesi che Fëdor Dostoevskij già novant’anni prima, nel 1871-72, aveva avanzato ne I demoni. Lo scrittore russo lo aveva fatto a modo suo: mettendole in bocca a Stepàn Trofímovič Verchovenskij, una figura di intellettuale della vecchia generazione amante dell’Occidente, tanto campato in aria quanto privo di credito. Come non bastasse, nel romanzo le parole pronunciate da Verchovenskij in una conferenza suscitano una vivace reazione di dissenso nell’uditorio: un artificio antiretorico scelto da Dostoevskij per lasciare al lettore piena libertà di giudizio. Ecco le tesi: «È accaduto soltanto una cosa: uno spostamento di scopi, la sostituzione di una bellezza con un’altra! Tutto il malinteso non è che nel dubbio se sia più bello Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio. […] Ma sapete, sapete voi che senza l’inglese l’umanità può ancora vivere, può vivere senza la Germania, può vivere anche troppo facilmente senza i russi, può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe vivere, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo? Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non sussisterebbe un momento senza la bellezza, – lo sapete, voi che ridete? – diventerebbe una volgarità e non inventereste più un chiodo!» (3).
In tutta evidenza, Balthasar condivide queste affermazioni. Non solo: egli è anche pienamente convinto che «il mondo sarà salvato dalla bellezza» (4) (enunciazione avanzata da Dostoevskij ne L’idiota, anche in questo caso con un accorgimento antiretorico: è l’ateo Ippolít a riferire di averla sentita proferire dal principe Myskin, protagonista del romanzo, figura di grande bontà e di elevato spessore spirituale quanto priva di senso pratico). Non può d’altro canto essere trascurato che a fare da ponte fra Dostoevskij e Balthasar è la profonda convinzione di entrambi che la via della bellezza sia la strada per avvicinare il Divino, con la figura di Cristo vista come l’incarnazione stessa della Bellezza suprema e come guida.
Anche limitandoci, sulla scorta di Giambattista Vico, alla «bellezza civile» (5) – una bellezza in cui rifulgono le virtù individuali e quelle legate alla convivenza – le questioni poste da Dostoevskij e da Balthasar mantengono tutta la loro urgenza. Osservate dal punto di vista della bellezza, le trasformazioni dell’ambiente fisico prodotte dall’azione antropica negli ultimi due secoli, a saperle interpretare, dicono molto delle acquisizioni e delle perdite su tre fronti: 1) gli equilibri e le bellezze naturali; 2) la qualità civile delle relazioni; 3) l’idea di umano.
Certo: permangono, e si sono anzi accresciute, le difficoltà di pervenire a valutazioni condivise. In tema di bellezza, col procedere dell’età contemporanea, la Babele delle interpretazioni si è infatti moltiplicata in modo esponenziale. Questo, però, non può costituire motivo per arrendersi al disorientamento e al senso di impotenza che dilagano. Né può farci disarmare di fronte al degrado del gusto, tutt’uno con il regredire concomitante della capacità di discernere e dell’abitudine ad argomentare e a dialogare; una regressione ora favorita dai social, dove il proliferare di prese di posizione improntate a onnipotenza, tanto apodittiche quanto sterili, allontana ancor più la prospettiva di un’intesa, la quale può venire solo da un senso della misura e da una condivisa disponibilità al dialogo.
La Babele è cresciuta in modo parallelo e intrecciato con il dilagare di un malinteso senso di libertà. In fatto di architettura e disegno urbano, ciò ha concorso a favorire la caduta d’interesse per la «bellezza d’assieme» e l’imperversare di esibizioni narcisistiche. L’habitat umano è stato sommerso da interventi contraddistinti, per usare le parole di Balthasar, da cupidità e tristezza. E questo a scapito del «gusto vivissimo della civica e civile e cittadinesca convivenza conversativa» (6) di cui è ampia traccia non solo a Bologna (a cui le parole appena citate di Riccardo Bacchelli sono riferite) ma nella stragrande parte delle città storiche europee.
Come invertire la rotta? Nella trasformazione/conservazione dell’ambiente fisico occorre tornare alla bellezza come modo «di intendersi» (Balthasar) facendone il lievito per il conseguimento della migliore convivenza civile. Ma una simile prospettiva può essere praticata solo se, in fatto di habitat e di bellezza civile, si verifica una rivoluzione nelle coscienze (una rivoluzione non meno necessaria di quella che sta venendo avanti in campo ecologico).
Quale contributo può venire dalla sfera del diritto? A questa domanda vuole rispondere Bellezza. Per un sistema nazionale, il roseo librino che Maria Agostina Cabiddu, professore ordinario di diritto pubblico presso il Politecnico di Milano e costituzionalista, ha pubblicato nel 2021 per i tipi di Doppiavoce (Napoli).
La densa argomentazione di Cabiddu prende le mosse dal nesso che intercorre fra due compiti primari della Repubblica indicati nella Costituzione Italiana (art. 9): la promozione dello «sviluppo della cultura» e la tutela del «paesaggio e [del] patrimonio storico e artistico della Nazione». Nella crescita culturale degli individui e della società, rimarca l’autrice, gli aspetti immateriali e quelli materiali sono gli uni necessari agli altri: un rapporto di reciproco nutrimento, ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 118/1990. Vale la pena riportarne un passaggio: «lo Stato deve curare la formazione culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale. In particolare, lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che sono testimonianza materiale di essa ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti obiettivi sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale; deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa».
In questo solco, Cabiddu si schiera per un concetto di tutela non ristretto alla mera conservazione ma inteso come valorizzazione attiva dei beni culturali, obiettivo conseguibile in una cooperazione fra soggetti pubblici e privati, nel rispetto della libertà della cultura: «L’equilibrio fra il ruolo attivo delle istituzioni pubbliche e la libertà della cultura, mai definitivamente raggiunto in uno Stato democratico, risulta perciò affidato al pluralismo dei diversi attori culturali, spettando semmai ai pubblici poteri il compito di sostenere, volta per volta, quelle espressioni della vita culturale che, affidate alla proprie forze, rischierebbero di non affermarsi o di scomparire» (p. 17). Grazie soprattutto all’art. 5 della Costituzione, lo Stato – ricorda la giurista – «non si esaurisce nell’organizzazione dello Stato-apparato […] ma si estende all’articolazione complessiva degli enti pubblici territoriali (Regioni, Province e Comuni) e funzionali in connessione coi loro fini istituzionali, nonché all’insieme dei soggetti di cui la Repubblica si compone come ordinamento dei cittadini». Ne è conseguita una distribuzione di competenze e poteri ispirata ai «principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» (p. 19) a cui ha corrisposto «una variegata tipologia di strumenti giuridici: conservativi e promozionali, repressivi e incentivanti, dissuasivi e premiali» (p. 20).
Tutto a posto, dunque? Se si guarda a come nel Bel Paese i vari livelli di governo della Cosa pubblica hanno interpretato l’attribuzione di compiti in fatto di beni culturali, la risposta è negativa. A livello nazionale, ricorda l’autrice, si è fatta strada la «visione del patrimonio culturale come bancomat dal quale attingere ogni qual volta ci sia bisogno di risorse da destinare ad altro». Il caso più eclatante è l’istituzione (con la legge 15 giugno, n. 112, del 2002) «della Patrimonio dello Stato s.p.a., il cui oggetto sociale coniuga(va) in modo non convincente, valorizzazione, gestione e alienazione del patrimonio dello Stato in stretto rapporto con la Infrastrutture s.p.a.» (p. 45), dove la prima s.p.a. era ed è concepita come una struttura funzionale al reperimento di risorse per la seconda. Ma il quadro, viene da aggiungere, non migliora se si guarda agli enti pubblici territoriali. In diversi casi, con la scusante di dover sanare bilanci in rosso, gli enti locali hanno intrapreso la strada della svendita del patrimonio culturale pubblico: un’ampia costellazione di episodi sta a dimostrare come alla “vicinanza” ai beni da tutelare non abbia affatto corrisposto un presidio adeguato.
Dopo aver dichiarato di aderire a «una concezione del patrimonio culturale e del paesaggio come complesso organico (di opere, musei, archivi, biblioteche, città, paesaggi) strettamente legato al territorio e alla comunità che vi è insediata» (p. 20), Cabiddu compie una disamina dei modi di concepire il «patrimonio culturale» che hanno improntato lo sviluppo del quadro legislativo italiano.
Una pietra miliare sono le conclusioni a cui è pervenuta nel 1967 la Commissione d’indagine istituita dalla legge 26 aprile 1964, n. 310 e presieduta da Francesco Franceschini. In particolare, nella Dichiarazione I, venivano precisati i beni meritori di tutela da parte dello Stato, ovvero: «i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà» (7). La definizione verrà recepita nella legislazione solo trent’anni dopo con il d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che estende ulteriormente i confini dei beni culturali al «patrimonio demoetnoantropologico» includendo non solo “cose” ma anche attività (p. 27). A questo punto, però, rimarca Cabiddu, si è registrata una convergenza sulla necessità di «porre un argine all’eccessiva dilatazione del concetto [di patrimonio culturale] e al rischio del dissolvimento della materia nella totalità della vita sociale». Si è così tornati «a privilegiare il profilo materiale [con] dettagliati elenchi di “cose” rientranti nei singoli sottosettori del patrimonio» (ivi); una linea puntualmente accolta nel 2004 dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Una tale restrizione è stata evidentemente mossa da valutazioni circa l’effettiva praticabilità della tutela. Resta tuttavia il dubbio se la riduzione alle “cose” non finisca per creare problemi su altri versanti. È difficile tutelare le “cose” se non si pone attenzione ai sistemi di relazione: relazioni tra le “cose”, tra queste e i modi d’uso e, ancora le relazioni interpersonali su cui poggia il valore delle “cose” stesse. Senza tali legami i beni materiali non solo non potrebbero esplicare tutto il loro potenziale culturale, ma sarebbero in pericolo. Basti pensare, per fare un esempio, alle cosiddette “città d’arte”, spesso ridotte a gusci vuoti a causa dei processi di allontanamento degli abitanti scalzati dall’affermarsi della monocultura turistica. Senza un’azione di contrasto a tali processi, la tutela finisce per restringersi alla conservazione di testimonianze materiali isolate e impoverite delle loro prerogative di senso. Tutelare le relazioni è certamente una strada impervia ma la prospettiva non andrebbe abbandonata in un nome di una semplificazione dei compiti degli organi incaricati della tutela.
È questa, peraltro, la strada che può consentirci di uscire una volta per tutte dalla «concezione estetizzante delle leggi volute dal ministro Bottai nel 1939 (la n. 1089 di Tutela delle cose di interesse artistico e storico e la n. 1497 per la Protezione delle bellezze naturali)» (pp. 23-24). In Italia non mancano certo studiose e studiosi che, come Maria Agostina Cabiddu, hanno le risorse intellettuali e le conoscenze tecniche per far fare al sistema giuridico italiano il necessario salto di qualità.
Del resto Cabiddu nella sua definizione dei beni da tutelare include le «città». La scelta è quanto mai apprezzabile, ma – viene da osservare – nella legislazione italiana, a cominciare dalla Costituzione repubblicana, della città come bene culturale non sembra esservi traccia. Nell’opera, certamente meritoria, dei costituenti è mancato l’aggancio alla visione cattaneana della città come «principio delle istorie italiane» e questo è forse il limite maggiore della «Costituzione più bella del mondo» (con ricadute sull’intero quadro legislativo e con effetti negativi nelle politiche pubbliche).
L’assunzione della città come parte centrale del patrimonio culturale, oltre che rispecchiare una elementare verità storica, comporterebbe, come si è detto, un’attenzione ai sistemi delle relazioni che costituiscono la parte virtuosa e culturalmente feconda delle città. Ma la questione è ignorata sia dalla legislazione e dalle politiche pubbliche in tema di tutela dei beni culturale sia dalla politica tout court.
Veniamo alla parte propositiva della pubblicazione di cui ci stiamo occupando.
Il punto di partenza, per l’autrice, è che la bellezza «ha direttamente a che fare con il senso di appartenenza, di identità e memoria, con il benessere e la (qualità della) vita delle persone e delle comunità, insomma con una cittadinanza pleno jure e se è così nessuno deve rimanerne escluso» (p. 51).
Avendo attenzione alla necessità «di conciliare libertà ed eguaglianza» e all’opportunità di evitare visioni e pratiche centralistiche in un campo come quello della promozione/fruizione della cultura in cui va dato spazio al fiorire di iniziative dalla società civile, Cabiddu osserva che «sembra ancora mancare […] un’organizzazione che, nel rispetto delle specifiche competenze, sia in grado di raccogliere le domande di identità, cultura e bellezza provenienti dalle comunità, individuare il percorso per il loro soddisfacimento, provvedere le risorse per assicurare il loro godimento anche agli indigenti» (p. 53).
Un riferimento per l’autrice è la legge n. 833/1978, istitutiva del sistema sanitario nazionale, con cui «si disegnava l’organizzazione dei servizi che sono più prossimi alla vita fisica dell’individuo e alla civile e responsabile convivenza fra le persone […]» e si garantivano «cure gratuite agli indigenti» (pp. 53-54).
Non senza aver passato in rassegna le obiezioni – necessità di limitare la crescita all’infinito dei diritti, le difficoltà di farli rispettare, i limiti posti dalle risorse pubbliche disponibili ecc. –, Cabiddu porta l’attenzione sull’accresciuta consapevolezza collettiva (indotta anche dalla pandemia) circa lo «stretto legame fra protezione individuale e responsabilità nei confronti degli altri, specie dei più fragili» e sull’«importanza, oltre che di quella fisica, della dimensione psichica e spirituale della vita». Sorretta da questa convinzione, a suo modo un ricongiungimento con Dostoevskij e Balthasar, ecco la conclusione: «È tempo per un sistema al quale, secondo lo schema in passato adottato per il servizio sanitario, faccia capo il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al godimento diffuso della natura, della cultura e dell’arte, come diritto universale e fattore decisivo delle relazioni sociali e della cittadinanza: un Sistema Nazionale per la Bellezza» (p. 57). Non è il principe Myskin che parla, ma un’esimia studiosa del diritto. Unica obiezione: i cittadini andrebbero visti non solo come fruitori ma come produttori di cultura e di bellezza. È anche, e soprattutto, su questo versante che si gioca la partita.
Giancarlo Consonni
Note 1) Hans Urs von Balthasar, Herrlichkeit: Eine theologische Ästhetik, Vol. I: Schau der Gestalt, Johannesverlag, Einsiedeln, 1961, trad. it. di Giuseppe Ruggeri Gloria. Una estetica teologica, Vol. I: La percezione della forma, Jaca book, Milano 1971, p. 10 (corsivo mio). Prosegue Balthasar: «Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come oggi è dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa». Ivi, pp. 10-11. 2) Ivi, p. 11. 3) Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Бесы (Besi), apparso a puntate sulla rivista «Russkij vestnik», 1871-72, trad. it di Alfredo Polledro I demoni, Einaudi, Torino 1960 (1942), pp. 478-9. 4) Id., Идиот (Idiot), apparso a puntate sulla rivista «Russkij vestnik»,1868-9, trad. it di Alfredo Polledro L’idiota, Mondadori, Milano 1960 (Einaudi, 1941), vol. II, p. 85. 5) Giambattista Vico, Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, Stamperia Muziana, Napoli 1744, ora in Id., Tutte le opere, Mondadori, Milano 1957, p.170. Cfr. G. Consonni, La bellezza civile. Splendore e crisi della città, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013 e Id., Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, Chieti 2016. 6) Riccardo Bacchelli, Introduzione a Bologna e Romagna, Touring Club Italiano, Milano 1964, p. 9. 7) https://www.icar.beniculturali.it/biblio/pdf/Studi/franceschini.pdf
N.d.C.- Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano, dirige l'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare. Tra i suoi libri: L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire (Clup, 1989); con L. Meneghetti e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); Addomesticare la città (Tranchida, 1994); Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città (Unicopli, 2000); con G. Tonon, Il «lapis zanzaresco» di Pepin. Giuseppe Terragni prima del progetto (Ronca, 2004) e Terragni inedito (Ronca, 2006); La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli (Maggioli, 2008); La bellezza civile (Maggioli, 2013; Éditions Conférence, 2021); Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016), La forma della convivialità. I tavoli ellittici di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2018). Tra i molti saggi sulla metropoli milanese: (con G. Tonon) La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187; (con G. Tonon) Milano, la questione metropolitana, in «Archivio Storico Lombardo», dicembre 2020, pp. 41-65; Milano 1923-1963. Tre guerre contro la misura dialogica, in «ACME. Annali della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano», Vol. LXXIII, 2/2020, pp. 173-198. Tra gli scritti sulla cultura architettonica e urbanistica: G. Consonni, Conférence à Milan, in Marida Talamona (a cura di), L’Italie de Le Corbusier, XVe Rencontres de la Fondation Le Corbusier, Editons de La Villette, Paris 2010, pp. 188-199; G. Consonni, Le Corbusier: rivoluzionario, sublime, antiurbano, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna 2012; Tra Cartesio e Vico. La contraddizione dei razionalisti italiani, in Aa. Vv., Architettura e realismo. Per una nozione operativa di realismo: espressione critica e impegno civile, a cura di Gentucca Canella e Elvio Manganaro, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2015, pp. 104-135; «Una cultura che esige molto». Colloquio immaginario con Carlo De Carli sul rinnovamento della Facoltà di Architettura di Milano, in Aa. Vv., Carlo De Carli 1910-1999. Lo spazio primario, a cura di Roberto Rizzi, Angeli, Milano 2016, pp. 68-87; Edoardo Persico: le contraddizioni della modernità, in «Strumenti critici», a. XXXII, n. 3, settembre 2017, pp. 385-398. Ha pubblicato sei raccolte di poesia presso gli editori Scheiwiller ed Einaudi. L’opera pittorica è documentata in Ritmi e soglie (2018), Sognando la Liguria. 1994-1998 (2019); Stagioni. 1980-1998 (2021), Luoghi e paesaggi. 1961-2021 (2021), editi da La Vita Felice. Per Città Bene Comune ha scritto: Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante (2 giugno 2016); Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018); La rivincita del luogo (25 luglio 2019); Le pratiche informali salveranno le città? (15 novembre 2019); Città: come rinnovarne l’eredità (20 novembre 2020); La coscienza di luogo necessaria per abitare (12 marzo 2021); Il passato come risorsa del progetto (10 settembre 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 07 GENNAIO 2022 |