Mimmo Cangiano  
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IL PROBLEMA COL CALAMARO


Sulla deriva della teoria americana



Mimmo Cangiano


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Sono venuto in questi giorni a conoscenza dell’azione congiunta che, da un po’ di tempo a questa parte, viene esercitata nel dibattitto intellettuale statunitense da una “Philosophy of Water” (https://philosophyofwater.wordpress.com) e da una relativamente recente teoria definita “Ocean Humanities and Media Studies.” Accademicamente parlando, tale prospettiva si situa all’incrocio di tre differenti discipline già da anni attive nel medesimo dibattito: gli Environmental Studies, gli Animal Studies e, ovviamente, i Media Studies.

Il presupposto di partenza è relativamente semplice e epistemologicamente certo condivisibile: esiste una connessione diretta fra lo sviluppo delle nostre prospettive gnoseologiche e l’ambiente in cui operiamo. Il passo successivo è ben noto a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la tradizione attuale dei Cultural Studies in connessione a branche ‘americanizzate’ dei portati post-strutturalisti e decostruzionisti: ogni costruzione teoretica risente del proprio occultato posizionamento di partenza che è dettato da condizioni di genere, razza, classe (sempre meno di classe!), luogo, specie (Animal Studies), orientamento sessuale, ecc.

L’eliminazione di tale ‘occultamento’ (forzatamente identificabile con l’Astrazione marxiana) dà dunque luogo ad una prospettiva critica che vuole operare al contempo su un doppio binario: da un lato procede all’esaltazione relativistica come messa in crisi delle strutture identitarie che proteggevano il privilegio della posizione gnoseologica ‘astratta,’ così rivelandone la genealogia di Potere; dall’altro – e avremo le Identity Politics – si pongono alla difesa agonistica dell’Altro identificato come vittima e subalterno, cioè come non conforme al discorso sociale egemonico, ai cui parametri dunque si oppone mentre ne denuncia la ‘totalizzante’ arbitrarietà.

Nel caso specifico, l’alterità oceanica (e ciò che in essa è contenuto) passa chiaramente ad essere lo spazio di uno stravolgimento epistemologico che pone in crisi i concetti ‘terrestri’ rimettendo in discussione i portati teoretici e le nostre prospettive critiche, rivelandole così, e cito, in quanto “terrestrial biased” Il ‘calamaro’, insomma, diventa qui soggetto rivoluzionario o, almeno, ‘resistente’, elevando il discorso critico da un non più soddisfacente anti-eurocentrismo a un più mirato anti-geocentrismo.

Il discorso ‘terrestre’ come discorso di Potere è però solo il punto estremo (fino agli Alfa Centauri Studies) di una prospettiva etico-epistemologica su cui vale sempre più la pena di riflettere. Non si ha qui infatti nessuna intenzione di lanciare un O tempora, o mores! sulla decadenza del marxismo o di, tantomeno, più tradizionali studi storico-letterari (non è questo il punto!). Si vuole invece cercare di ragionare sullo sviluppo egemonico (egemonico chiaramente riguardo l’università, non la società) di tali posizionamenti, in rapporto tanto alla decadenza (storica!) di un’idea di Prassi in favore di un’idea di Critica, quanto al ruolo degli intellettuali in tale strategia. Neppure si tratta, dunque, di riprendere la posizione espressa da Walter Benn Michaels nel 2006 (The Trouble with Diversity. How we Learned to Love Identity and Ignore Inequality). O meglio, se la tesi riguardante la coatta trasformazione delle differenze economiche in differenze culturali sarà un punto certo presente al mio discorso, vorrei invece provare a mantenere solo sullo sfondo la condivisibile ma problematica connessione fra il farsi egemonico di tali posizioni culturali e le politiche economiche neoliberiste.

Non vi è davvero niente di strano nel fatto che l’arresto storico delle prospettive prammatico-politiche spinga gli intellettuali di sinistra, da un lato, verso la ricerca di differenti soggetti rivoluzionari, e, dall’altro, li faccia retrocedere su posizioni difensive che sviluppano nella teoria quell’azione trasformativa della società che la prassi, attualmente, non può dare. Ciò che è ‘strano’ è che il movimento retrivo venga immediatamente presentato come rivoluzionario. Anzi, a ben guardare anche in ciò non vi è nulla di particolarmente bizzarro, trattandosi di un tipico atteggiamento intellettuale (cioè di quella ‘classe’ che istintivamente percepisce le proprie azioni come non soggette a rivolgimenti storici; quella ‘classe’ che si percepisce come continuità) che Gramsci definiva “teoria-come-prassi”. E il fatto che il discorso teoretico gramsciano incentrato sulla battaglia ideologico-culturale sia ovviamente ben presente a queste nuove prospettive non complica il discorso, bensì lo semplifica, perché è chiaro che il punto dialettico – marxiano e gramsciano – secondo cui tutte le opposizioni teoretiche restano poi allo stato di ‘falsa coscienza’ finché non sono in grado di ‘afferrare’ la classe lavoratrice, è del tutto assente in queste posizioni.

Se, del resto, come sosteneva Lukács, il tradimento degli intellettuali nei confronti della propria classe di appartenenza sempre si basa sulla difesa di quei valori umanistici che la borghesia deve tradire nel passaggio dalla sua fase rivoluzionaria a quella reazionaria (a quella attestata nella difesa dello status quo), il movimento ‘critico’ di questi posizionamenti accademici riesce a salvare, al contempo, le ansie rivoluzionarie degli intellettuali stessi e la preservazione di tale status quo. In altri termini, la frattura fra teoria e prassi diventa il grimaldello ideologico mediante il quale una funzione critica – separata dal suo inveramento in un soggetto rivoluzionario che non si percepisca semplicemente come ‘vittima’ rispetto a quello egemonico, ma come elemento dialettico che vuol farsi egemonico – si considera immediatamente come prassi rivoluzionaria. In tal modo gli intellettuali trovano in questa funzione ‘critica’ un risarcimento psicologico, e inoltre, per la prima volta (dato che la lotta appare ora come eminentemente culturale) si ritrovano miracolosamente alla testa del movimento rivoluzionario. Se la lotta è prima di tutto lotta culturale, se è il discorso ideologico-culturale a tenere in sé i portati più alti delle valenze del Potere, è chiaro che sono gli intellettuali quelli che meglio possono confrontarsi con quello.

Al contempo però (e coerentemente con i loro presupposti di partenza) questi stessi intellettuali affermano di non poter parlare a nome del soggetto rivoluzionario da essi supportato, pena il rivestirlo con un ulteriore discorso di Potere, spauracchio di questo tipo di posizionamento (anche se non è chiaro chi parlerà per la vittima ‘calamaro’). Ora, mi pare evidente come tale apparente ‘modestia’ nasconda, ancora una volta, la volontà di considerare la dialettica storica su base esclusivamente culturale: solo non considerandosi – non considerando i loro presupposti teorici – come determinati a loro volta da quanto accade sul piano concreto della prassi storica, tali intellettuali possono rigettare tale apparente discorso di Potere. Dietro la modestia vi è insomma la credenza consueta nell’autonomia intellettuale: la credenza che il discorso intellettuale non sia a sua volta parte di una dialettica subalterna rispetto a quanto avviene sul piano della prassi, una prassi che ovviamente non è diretta né dagli intellettuali né dal soggetto subalterno da loro eletto ad elemento rivoluzionario. Solo il non-vedere tale relazione dialettica, focalizzando invece sul mero piano culturale, può infatti portare tali intellettuali a pensare il proprio discorso teorico come un discorso di Potere. Ma anche ciò è del resto parte integrante del ‘risarcimento psicologico’ di cui si diceva prima. E sia anche chiaro che qui non si vuole attaccare il posizionamento teorico in questione (ben più sfumato e complesso in tutti i suoi capo d’opera del modo in cui qui lo si sta presentando): il problema è l’egemonica diffusione banalizzante di questo tipo di posizionamento culturale.

La proliferazione sociale delle ‘vittime’ e la proliferazione accademica delle teorie sulle ‘vittime’ (proliferazione, ma questo si dica en passant, eminentemente merceologica e a pieno titolo inserita in un discorso di produzione/consumo che riflette le attuali modalità produttive) è portato inevitabile di tale posizionamento intellettuale. Il Potere, manifestandosi principalmente in forme e discorsi culturali, si fa infatti incredibilmente sfuggente e proteiforme, e permette, al contempo, il sorgere di formazioni oppositive di natura subalterna che attraversano la struttura sociale in forma rizomatica, dando così inevitabilmente luogo a relazioni di potenza in cui la vittima in una è necessariamente carnefice in un’altra, e dove (e la questione messa in tali termini appare in tutta la sua pericolosità) ogni carnefice sempre dispone della possibilità di farsi vittima. Il marxismo – per dare uno degli esempi più semplici e diffusi – è discorso resistenziale rispetto alla classe, ma la classe è a sua volta attraversata da discorsi di potere (rispetto per esempio a genere e razza) che non la rendono… come devo dire? degna? atta? a rappresentare un genuino moto rivoluzionario.

Sia chiaro: nessuno vuole qui negare la validità di tale presupposto rispetto a ciò che il marxismo è stato, ma mi pare evidente che l’intero discorso è continuamente a rischio scivolamento in una sorta di “misticismo dell’Altro” (Terry Eagleton ha recentemente affermato che l’Altro è ormai un nuovo Dio) che, rendendo tutti colpevoli, ha effetti paralizzanti per ciò che concerne il passaggio dalla teoria alla prassi, sottolineando dunque, una volta di più, come sia proprio l’elemento gnoseologico che la prassi comporta (“ora si tratta di trasformarlo”, cit.) a non voler essere assunto in rapporto dialettico rispetto a una teoria (a una cultura) che pretende di essere al contempo spiegazione del problema e suo superamento, e che dunque inevitabilmente rifiuta, come già detto, di riconoscersi a sua volta in relazione ad una prassi esterna.

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06 SETTEMBRE 2015

 

 

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