Giovanni Laino  
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L'ITALIA RICOMINCIA DALLE PERIFERIE


Commento al libro di Francesco Erbani



Giovanni Laino


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Sin dalle prime pagine del suo Dove ricomincia la città. L'Italia delle periferie. Reportage dai luoghi in cui si costruisce un Paese diverso (Manni, 2021), Francesco Erbani chiarisce di aver voluto scrivere un resoconto di viaggio in luoghi che sono spesso oggetto di letture opacizzate da stereotipi, visti perlopiù da lontano e senza la giusta postura. Per farlo, oltre a riportare le impressioni personali del suo girovagare nelle periferie italiane – perché i nessi tra spazio e società si comprendono soprattutto facendone esperienza diretta –, l’autore raccoglie le voci di cittadini che quei luoghi vivono attivamente. Quello che ne scaturisce è un piccolo ma significativo campione delle centinaia di esperienze in cui, da almeno trent’anni, animatori, attivisti, cooperanti sono impegnati in azioni di utilità sociale, declinando in italiano il profilo del community organizer quale testimone di una più ampia ricerca collettiva che, anche inconsapevolmente, tematizza di fatto il rinnovo della democrazia e del welfare nel nostro Paese.

Dopo il lavoro di Goffredo Buccini che nel suo libro – Ghetti. L'Italia degli invisibili: la trincea della nuova guerra civile (Solferino, 2019) – aveva già indagato con occhio attento le periferie di diverse città italiane considerandole luogo privilegiato per comprendere le condizioni del nostro Paese, Erbani rivela subito una competenza e una sensibilità non comuni parlando di “condizione periferica” più che di “periferie”: un termine, quest’ultimo, che – come tanti altri caratteristici del passaggio d'epoca che stiamo vivendo – risulta ambiguo e, pur essendo ancora ampiamente utilizzato nella comunicazione di massa, carico di connotazioni negative che non aiutano nella comprensione della realtà (1). Senza addentrarsi in dispute semantiche astratte, Erbani assume e fa emergere chiaramente che quello che accomuna la totalità o la massima parte degli abitanti dei quartieri di cui scrive – per altro, rappresentativi di molti altri contesti simili – è una condizione di perifericità intesa come deficit di opportunità, elevato tasso di non esigibilità di diritti fondamentali, distanza non soloaa geografica dalle centralità urbane (2) e un’evidente inaccessibilità non tanto riferita alla mobilità ma a tutti quei servizi pubblici o di uso pubblico che consentono reale integrazione, crescita, capacitazione, mobilità sociale. È chiaro, infatti, che il fardello principale che molti contesti urbani e sociali portano sulle loro spalle è determinato dall'assenza di opportunità materiali e immateriali che consentirebbero forme di riscatto almeno a chi fosse dotato di un buon corpus di capitale sociale e risorse materiali idonee. Basta considerare le condizioni di vita di tante famiglie di quello che abitualmente, con un’espressione non proprio felice, consideriamo ‘basso ceto medio’ o comunque più garantite economicamente e culturalmente che, pur abitando quegli stessi luoghi di cui Erbani raffigura la condizione, hanno risorse, strumenti, mappe mentali e l’aspirazione sufficiente per accedere a tutta una serie di opportunità che la città offre.

Oltre a un prologo e un’introduzione per ribadire le particolarità territoriali di Roma, i sei capitoli in cui è articolato il libro sono dedicati a quartieri di altre città italiane noti per molte ragioni alle cronache. L’autore si è formato negli anni Settanta e, da persona colta qual è, ritiene giustamente inevitabile una riflessione sugli esiti della cultura urbanistica e architettonica della seconda metà del Novecento espressa da autorevoli architetti e ingegneri proprio nei progetti dei quartieri di edilizia pubblica. E sono i progettisti stessi in taluni casi ad accompagnare Erbani nella visita di quartieri (Laurentino 38, Corviale) che loro stessi hanno a suo tempo ideato senza però – questo è il destino di molte opere pubbliche – averne potuto guidare o controllare i processi realizzativi e la successiva gestione. E senza quindi aver potuto contrastare in alcun modo scelte successive ai piani e ai progetti stessi, quasi mai felici, che il più delle volte hanno finito con lo sfigurare in tutto o in parte le idee originali. Questo, per esempio, ritardando o trascurando del tutto la realizzazione dei servizi previsti, tralasciando ogni cura nelle politiche di assegnazione delle case, ammettendo e consentendo la concentrazione di diffuse pratiche abusive. Un aspetto che meriterebbe un approfondimento non tanto per giustificare una cultura progettuale che ha dimostrato molti limiti, quanto per evitare l’errore storico di attribuire, alla stessa cultura, responsabilità che oggettivamente hanno ragioni più complesse.

Negli anni Cinquanta e Sessanta – ricorda Erbani – era ampiamente condivisa la necessità di dotare i nuovi quartieri di edilizia pubblica di tutta una serie di servizi e attrezzature collettivi che avrebbero potuto/dovuto facilitare la vita dei nuovi abitanti e favorirne l'integrazione nel corpo sociale della città. Anche come forma di rispetto per quella cultura architettonica e per quegli architetti e pianificatori mossi da una carica ideale di cui oggi spesso non si vede l’ombra, va detto, tuttavia, che gran parte di questi quartieri di fatto sono la concreta testimonianza di un fallimento. Di questo, però, i primi responsabili – a giudizio di chi scrive – sono le autorità politiche e amministrative che hanno pensato e ancora credono frequentemente che l'abitare sia solo una questione di disponibilità di più o meno buoni contenitori di alloggi e in una certa interpretazione (tutta deterministica e quantitativa) degli standard per la quantificazione dei servizi. Questo approccio ha funzionato il più delle volte, non sempre, forse per le scuole o le attrezzature commerciali. Per tutti gli altri spazi collettivi e di servizio alla comunità che abitualmente i progetti di questo periodo prevedevano (per esempio, uffici pubblici, attrezzature culturali o sportive, poli artigianali) anche quando sono stati costruiti, molte volte sono rimasti inutilizzati, mai resi attivi, cattedrali nel deserto, perché colpevolmente nessun politico o amministratore ha previsto gli investimenti necessari per il loro funzionamento. Nessuno, cioè, se ne è preso cura.

Se a ciò, associamo il fatto che spesso queste aree sono rimaste scollegate dal resto della città, non si sono cioè mai integrate nelle trame urbane della città esistente; se consideriamo il gigantismo di certe architetture dovuto alla necessità di produrre una quantità enorme di alloggi; e se aggiungiamo il fatto che in queste aree è stata concentrata popolazione che spesso viveva e vive in condizioni di povertà più o meno profonda, accanto ad un ceto di lavoratori che - meno visibile - ha abitato ed abita tutt’oggi questi quartieri, non facciamo fatica a comprendere, seppur in termini generali, l’innescarsi di dinamiche di progressiva dequalificazione delle condizioni di vita. L'esistenza e il buon funzionamento nelle città italiane ed europee di molti quartieri destinati prevalentemente alla residenza borghese, ben costruiti e abitati da un ceto medio economicamente e socialmente garantito, è la dimostrazione insindacabile che le cause profonde della spirale di degrado delle periferie sono – oltre a quelle politico-amministrative di cui dicevamo sopra – anche quelle economico-sociali. È cioè una costellazione di opportunità negate che spinge migliaia di persone nel circolo vizioso dell’esclusione. A valle di questo, certo, anche la grande dimensione spaesante di certe architetture di noti quartieri di edilizia residenziale pubblica ha contributo al senso di alienazione ma sarebbe sbagliato attribuire solo a questa – come spesso la stampa o l’opinione pubblica tende semplicisticamente a fare – le cause del fallimento.

Il libro di Erbani, tuttavia, non guarda solo al passato e, accanto a una riflessione sulle cause di certe situazioni, dà voce a testimoni ancora poco noti che a suo dire stanno provando a costruire un Paese diverso. Visitando Laurentino, Tor Bella Monaca e Corviale a Roma, San Berillo a Catania, Marghera a Venezia, Barriera di Milano a Torino e Scampia a Napoli, l'autore adotta come guide persone direttamente impegnate in attività che fanno di questi quartieri luoghi assai differenti dall’immagine stereotipata che abbiamo in mente. Dalle loro vive testimonianze desume una sorta di mappa di resistenze, espressioni di un universo variegato e pulsante di attivismo civico e impegno militante nella lotta alla riproduzione delle disuguaglianze. Un’azione che non è condotta dall’alto, da qualche ente o fondazione benefica, ma muove dal radicamento di persone impegnate che operano stando con, lavorando insieme agli abitanti, cooperando con le istituzioni quando e ove possibile. Gran parte del libro è quindi dedicata al disvelamento di pratiche di animazione, attivazione, innovazione sociale: oltre ai casi romani, si va dal centro sociale La rivolta di Marghera ai Bagni di Via Agliè a Torino, dal Centro Hurtado di Scampia alle Trame di quartiere a San Berillo a Catania. L’autore dà così voce a un variegato mondo di militanti, resistenti, espressione di un universo di cittadinanza attiva che, con tenacia, prova concretamente a realizzare autonomamente segnali di futuro ove si possa reinventare la categoria del Noi. Questo senza semplificare i difficili nodi che la realtà pone in ricette ideologiche precostituite ma partendo sempre dalla pratica sociale, dalla convivenza, dall'essere lì a realizzare con.

Quella che scaturisce da questo lavoro è una lezione importante: per i cittadini, per i politici e gli amministratori, per gli studiosi dei fatti urbani e territoriali. Innanzitutto, Erbani esplicita una grande verità che ancora in molti ignorano: le cosiddette periferie non sono mai dei deserti. Almeno dagli anni Settanta, i quartieri popolari periferici sono luoghi di iniziative volte a colmare il divario e le lacune dovute all'assenza di servizi pubblici. Porzioni significative dell’azione dei movimenti sociali che hanno arricchito la storia del nostro Paese sono strettamente intrecciate al lavoro in questo tipo di territori in favore dei soggetti più fragili. Si è trattato e si tratta tutt’oggi di preti e suore anticonvenzionali, di animatori, attivisti, pedagogisti e di artisti che hanno tematizzato a lungo e talvolta a fondo un assunto etico che negli anni Settanta era uno slogan: “il privato è politico”. Per questo un impegno trasformativo dei rapporti sociali, degli orientamenti nelle relazioni e nei valori non può prescindere da una qualche testimonianza – come quelle che Erbani raccoglie – che coinvolge direttamente chi con la propria azione quotidiana porta avanti una critica pubblica alle condizioni esistenti.

Detto questo, va altresì rimarcato che non è quasi mai vero che, come invece si sente dire, "lo Stato non c'è". È ingenuo, oltre che infondato, pensare che le forze dell'ordine, le istituzioni scolastiche, i servizi comunali (da quelli sociali a quelli per la manutenzione) come pure i medici di base siano del tutto assenti. La verità è che, in diversi casi, alcuni di questi servizi funzionano bene, con grande impegno, collaborano con gli altri attori presenti sulla scena urbana, talvolta inseguono una loro particolare idea di progresso. In altri contesti, al contrario, sono presenti ma svolgono un ruolo di impedimento piuttosto che quello di enabler, di abilitatore di capacità, di sostegno e accompagnamento dell'impegno civico. In queste non rare situazioni, più che le povertà di alcuni gruppi sociali – o almeno accanto a queste – è l'inerzia e l'incapacità di azione positiva dei soggetti pubblici il vero ostacolo al cambiamento delle condizioni di vita degli abitanti.

Inerzia e inefficacia dell’azione pubblica che si traduce nell’affievolirsi della certezza del diritto. Questo sia per i deficit di servizi di cui abbiamo detto – con significativi impatti sull’accesso alla casa, all’istruzione o alle cure mediche – sia per inefficaci politiche della sicurezza che spianano la strada a una cultura dell’illegalità che, di fatto, legittima clan e gruppi malavitosi nell’appropriazione abusiva di alloggi pubblici o nel controllo di spazi e ambiti di vita comune per usi illegali (3). È noto che solo oltre una certa soglia lo Stato, attraverso le forze dell’ordine, interviene dimostrando che, almeno nella repressione, sa come fare, ricostruendo mappe molto precise di circuiti, traffici, legami e persone. Ma questo non sempre avviene.

Inerzia e inefficacia dell’azione pubblica che si traduce anche in una compressione del diritto all’istruzione e, più in generale, di una cultura civile diffusa. Senza sminuire l'impegno di tanti lavoratori delle scuole di ogni ordine e grado (ma spesso nelle periferie, soprattutto al Sud, i nidi e le scuole materne non ci sono), è evidente la crisi strisciante che la scuola sta vivendo da qualche decennio. Questo fatto va associato anche a un'altra constatazione. Scontata la crisi dei soggetti intermedi, nei quartieri occorrono investimenti e mobilitazione di risorse umane competenti così come di attrezzature per dare avvio a processi d'intermediazione sociale indispensabili per favorire una buona convivenza e la mobilità sociale. Su questo fronte la scuola (soprattutto quella dell’obbligo) gioca un ruolo fondamentale e questo dovrebbe significare almeno due cose. Primo, la necessità di rendere realmente fruibili dalle comunità gli edifici scolastici, che andrebbero considerati spazi pubblici aperti per dodici ore al giorno, sette giorni alla settimana, non solo per le normali attività educative svolte sotto la guida dei dirigenti scolastici e dagli insegnanti ma anche per altri tipi di iniziative collettive promosse da associazioni locali o dalla pubblica amministrazione. Chi conosce le dinamiche di esclusione, le trappole di povertà in cui sono coinvolte migliaia di famiglie che abitano condizioni periferiche, sa che spesso occorre l'azione di educatori territoriali, animatori di prossimità che favoriscano l'effettiva partecipazione dei ragazzi all'offerta didattica, per combattere la piaga dell'elusione, dispersione e abbandono della scuola: istituzione centrale che tuttavia da sola non può né riesce a farcela e che in diversi casi deve essere affiancata da percorsi per una seconda opportunità. Tutto questo con la maturazione della consapevolezza che la scuola non ha né può avere il monopolio dei percorsi formativi da offrire ai bambini, ai ragazzi, ai giovani o, più raramente, agli adulti. Accanto a questa dovrebbe cioè prendere corpo una visione plurale quanto qualificata dell'educazione territoriale essenziale per la cura e l'evoluzione dei legami sociali (4).

Ripensando anche alle diverse esperienze che in varie città europee sono state realizzate già dagli anni Novanta, viene difficile – pur comprendendo alcuni argomenti proposti da chi sostiene tale opzione – sostenere che la strada della sola distruzione degli edifici di alloggi popolari sia quella più efficace per affrontare e risolvere i problemi di questi contesti. Questo è ancor più vero se, come nel caso napoletano di Scampia, il programma ancora in corso di attuazione (Restart Scampia) è fondamentalmente centrato su lavori edilizi senza immaginare investimenti adeguati per i servizi, senza un coordinamento di quelli già operativi ma soprattutto senza l’ombra di credibili e corpose politiche sociali. Di questo sembra convinto anche Erbani che, infatti, pare prediligere programmi di rigenerazione leggera del tipo di quelli messi in campo per il quartiere Corviale a Roma. Qui, con una attenta operazione cuci e scuci, si stanno recuperando luoghi collettivi e si stanno rendendo più civili abitazioni realizzate in spazi occupati abusivamente. Su questo e sulla necessità di affiancare ad opere di natura edilizia politiche sociali diversificate non si può che concordare. Allo stesso tempo, tuttavia, appare necessario interrogarsi su cosa abbiano prodotto le politiche pubbliche immaginate, elaborate e messe in campo negli ultimi decenni per superare i gravi limiti delle condizioni di vita nelle periferie delle nostre città. Il libro non affronta specificatamente questi temi che, tuttavia, sono trattati in un’ampia letteratura (5) da cui emerge – tanto nel disegno dei bandi quanto nei progetti allegati alle richieste di finanziamento – che i tecnici di ministeri, regioni, province, città metropolitane e comuni hanno continuato ad adottare un approccio tutto giocato sugli interventi sullo spazio fisico, recentemente arricchiti con elementi di cura dell’ambiente e per il risparmio energetico. Le dimensioni più propriamente sociali e gli interventi per attivare servizi rivolti alle comunità, anche per un reale coinvolgimento degli abitanti, in genere, sono inesistenti o del tutto insufficienti. Cosa assai preoccupante in questo frangente dove sarebbe auspicabile una progettualità matura nell’utilizzo dei fondi del Pnrr. Purtroppo i programmi PINQuA (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare) recentemente approvati e selezionati dal Ministero delle Infrastrutture per distribuire i fondi della Legge Finanziaria del 2020 e quote di fondi del Pnrr ripropongono questo pesante limite che condizionerà molto l'efficacia degli investimenti (6) .

Questa impostazione che tratta più di persone e di pratiche sociali che di spazi fisici «ha insegnato – osserva giustamente Erbani – che l'architettura non basta» perché è necessario accompagnare gli interventi di ristrutturazione, rigenerazione, come pure le demolizioni, «con politiche che incidano sulla vita delle persone, sul concetto largo dell'abitare, sul lavoro, sulla dispersione scolastica, sul diritto alla salute o a un ambiente salubre». «Un intervento di qualsiasi tipo, fisico o politico, e sociale che sia – chiosa l’autore – se non è frutto di ascolto, di dialogo paziente, di interpretazione delle potenzialità inespresse di un luogo può valere come esercitazione accademica o poco più e presto si sfascia» (7).

Giovanni Laino

 

 

Note
1) Su questo tema, v. tra gli altri: Petrillo (2016; 2018), Cognetti e Padovani (2018), Cognetti, Gambino, Faccini (2020), Cellammare (2019), Cellammare, Montillo (2020), DGAAP (2017), come pure i numerosi saggi del Quinto rapporto Urban@it sulle città, curato da chi scrive e tutto dedicato alle politiche per le periferie (Laino, 2019).
2) Su questo tema, il caso catanese riportato da Erbani dimostra anche un'altra evidenza: la condizione periferica non è necessariamente geografica nel senso di distanza dal centro. Il cuore di città come Napoli (soprattutto), Palermo, Catania o Bari è ancora caratterizzato da quartieri abitati in modo prevalente anche se non esclusivo dal ceto popolare, spesso in condizioni di povertà se non di emarginazione. Si potrebbe dunque parlare di periferie interne e periferie esterne.
3) Cfr. Pacelli (2021).
4) Cfr. Pasqui (2019).
5) Mi riferisco ai Contratti di Quartiere – cui Erbani fa solo cenno ma per i quali vale la pena leggere un altro utilissimo libro testimonianza: Storto (2018) – ai PIC Urban di cui hanno scritto: Palermo, Savoldi (2002) e Laino (1999); senza dimenticare le prime innovazioni nelle politiche urbane in diverse città europee alla scala di quartiere presentate in un libro che è stato importante riferimento per molti studiosi: Clementi, Perego (1990). Sulla valutazione delle politiche urbane più recenti, v. anche: AA.VV. (2017).
7) In riferimento alle diverse trance di finanziamento dei programmi innovativi nazionali per la qualità dell'abitare, PINQuA, si vedano i siti https://www.mit.gov.it/comunicazione/news/pnrr-assegnati-28-mld-per-il-programma-pinqua-sulla-qualita-dellabitare-il-40-va e quello
https://dait.interno.gov.it/finanza-locale/notizie/comunicato-del-31-dicembre-2021 che riportano le graduatorie di centinaia di progetti, praticamente tutti finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche.

6) Da tempo sostengo la necessità di avviare “regie sociali di quartiere”, una proposta che deriva dall’osservazione di molte esperienze europee accolta anche nella relazione finale della Commissione Parlamentare per le Periferie (Camera dei Deputati, 2017) e di cui si parla diffusamente in: Laino (2019).

 

Riferimenti bibliografici
Testa P., (2017), a cura di, Rigenerazione urbana: un progetto per l’Italia. Dossier sui progetti di Comuni e Città metropolitane per il bando Periferie, ANCI-Urban@it, Roma-Bologna (https://static.cittametropolitanaroma.it/uploads/StudioAnciUrbanit.pdf)
Buccini G. (2019), Ghetti. L'Italia degli invisibili: la trincea della nuova guerra civile, Solferino, Milano
Camera dei Deputati (2017), Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. Relazione sull’attività svolta dalla Commissione, Relatore: on. Roberto Morassut (https://documenti.camera.it/_dati/leg17/lavori/documentiparlamentari/IndiceETesti/022bis/019/INTERO.pdf).
Cellammare C. (2019), Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana, Donzelli, Roma.
Cellamare C., Montillo F. (2020), Abitare a Tor Bella Monaca, Donzelli, Roma.
Clementi A., Perego F. (1990), Eupolis. La riqualificazione delle città in Europa, Laterza, Roma-Bari.
Cognetti F., Gambino D., Faccini J. (2020), Periferie del cambiamento. Traiettorie di rigenerazione fra marginalità e innovazione a Milano, Quodlibet, Macerata.
Cognetti F., Padovani L. (2018), Perché (ancora) i quartieri pubblici. Un laboratorio di politiche per la casa, FrancoAngeli, Milano.
DGAAP – Direzione generale Arte e Architettura contemporanee e periferie urbane (2017), a cura di, Demix. Atlante delle periferie funzionali metropolitane, Pacini Ed., Ospedaletto (TN).
Laino G. (1999), Il programma Urban in Italia, in “Archivio di Studi Urbani e Regionali”, vol. 66, p. 69-97.
Laino G. (2019), a cura di, Quinto rapporto sulle città [di Urban.it]. Politiche urbane per le periferie, Il Mulino, Bologna.
Pacelli R. (2021), Città non comune. Disobbedienza ed azione pubblica al Rione Traiano di Napoli, INU Ed., Roma
Palermo P.C., Savoldi P. (2002), a cura di, Il programma Urban e l’innovazione delle politiche urbane. Esperienze locali: contesti, programmi, azioni, Milano, FrancoAngeli.
Pasqui G. (2019), Le periferie diseguali, in Laino (2019), pp. 149-158.
Petrillo A. (2018), La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, FrancoAngeli, Milano.
Petrillo A. (2016), Peripherein. Pensare diversamente la periferia, FrancoAngeli, Milano.
Storto G. (2018), La casa abbandonata. Il racconto delle politiche abitative dal piano decennale ai programmi delle periferie, Officina, Roma.

 

 

N.d.C. - Giovanni Laino, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica del Dipartimento di Architettura dell'Università Federico II di Napoli, insegna in diversi corsi di Laurea dell'Ateneo ‘Politiche urbane e territoriali’, ‘Modelli di progettazione partecipata’ e ‘Analisi e progetto delle risorse nei territori fragili’. È stato presidente del Comitato scientifico del Centro nazionale per lo studio delle politiche urbane Urban@it, vicepresidente dell'Associazione Europea Regie di Quartiere e da molti anni svolge un'attività di social planner per l'Associazione Quartieri Spagnoli di Napoli.

Tra i suoi libri: Il cavallo di Napoli. I quartieri spagnoli (F. Angeli, 1984); Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale (FrancoAngeli, 2012); a cura di, Quartieri spagnoli. Note da quaranta anni di lavoro nell'Associazione (Monitor, 2018); a cura di, Quinto rapporto sulle città [di Urban@it]. Politiche urbane per le periferie (il Mulino, 2020).

Per Città Bene Comune ha scritto: Se tutto è gentrification, comprendiamo poco (16 giugno 2016).

 

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

14 GENNAIO 2022

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Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

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