Carlo Olmo  
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GLI INTELLETTUALI E LA STORIA, OGGI


Commento ai libri di Sabino Cassese e Adriano Prosperi



Carlo Olmo


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Raramente si dà l’occasione di leggere due testi di questa rilevanza usciti a poca distanza l’uno dall’altro. E, forse ancor più, scritti in un linguaggio chiaro e pubblicati in un formato che – come ricordava Giulio Einaudi riferendosi a una fortunata collana dell’omonima casa editrice – «posso portare con me, nella tasca di una giacca». Formato e scrittura che, tuttavia, non devono illudere il lettore che non si troverà davanti a testi scolastici o dati alle stampe solo per ribadire principi o teorie noti. Il libro di Sabino Cassese, Intellettuali (il Mulino 2021) e quello di Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi 2021), infatti, toccano nervi molto scoperti della società italiana e sono, immagino involontariamente, anche intrecciati tra loro. Gli intellettuali e il passato sono oggi in Italia, ma non solo qui, soggetti a quella che vorrei chiamare perdita di status. Una condizione della contemporaneità tant’è che sino alla liberalizzazione degli accessi all’Università, alla nascita e alla crescita quasi esclusivamente quantitativa di una formazione superiore di massa, essere un intellettuale era prima ancora che un lavoro e una professione – come scriveva Max Weber nel 1919 – uno status sociale, così come pubblicamente raffigurato nel Manifeste des intellectuels che Georges Clemenceau pubblica il 14 gennaio 1989 per invitare a sostenere Émile Zola nella difesa di Dreyfuss.

Partiamo da Cassese. Non volendo tentare – perché probabilmente sarebbe una sciocca pretesa – di restituire un testo di centoventi piacevoli pagine che va solo letto, vorrei invece provare ad aggiungere alle riflessioni dell’autore alcune meditazioni che nascono da mie esperienze, a conferma e forse in appendice al testo stesso. La prima può riassumersi in una specie di slogan: “Intellettuale devi essere riconosciuto!”. Può sembrare una banalità, ma pochi – forse in maniera sistematica solo Sébastien Dubois su «Histoire & Mesure» nel 2008 – si sono chiesti perché il riconoscimento dell’intellettuale è spesso circoscritto alla cosiddetta “comunità scientifica” ed è, dunque, giocoforza fondato su parametri identitari di quella comunità (ad esempio, le recensioni e i premi per i letterati, le citazioni e i brevetti per gli scienziati e i tecnologi). Per assumere il ruolo sociale che Cassese riconosce per esempio a Norberto Bobbio o a Paul Valéry – splendido è il riferimento all’azione che Valéry svolge nella commissione di cooperazione internazionale istituita nel 1921 dall’Onu ancora in parte da studiare –, la strada è un’altra. Nel 1971, mi trovai a partecipare alla vita della Cgil torinese e piemontese, a fianco prima di Emilio Pugno poi di Fausto Bertinotti. Mi si chiese più volte di esprimere pareri, condurre indagini, scrivere relazioni. Ricordo che insegnavo, come ho fatto tutta la vita, Storia dell’architettura ma il riconoscimento del mio ruolo di intellettuale non veniva certo da quello accademico o dal controllo sulle fonti o sui documenti che utilizzavo per le mie ricerche. Veniva, piuttosto, dal confronto/conflitto che dovevo affrontare ogni volta che prendevo la parola in quel particolare consesso.

La perdita nella società contemporanea dei soggetti fondamentali di quella arena democratica (gli operai, gli imprenditori, i sindacati) non ha minato solo le forme di espressione della cittadinanza e della rappresentanza: ha eliminato – e qui, come in ogni ‘storia’ che si rispetti, c’è anche l’avvenimento simbolo, la cosiddetta “marcia dei quarantamila” del 1980 – il conflitto come base di formazione di un intellettuale che non voglia limitarsi al consenso dei suoi simili. Ma l’intellettuale – sempre che non si voglia dar ragione a Diderot, citato da Cassese, quando afferma che “le rôle de sage est dangereux parmi les fous” (1796) – ha una funzione più che teatrale, come forse era un po' la precedente, ovvero quella di testimone, nell’accezione romana del termine. In una società che è andata sempre più velocemente semplificando e contrapponendo tesi e argomentazioni, la necessità di una funzione terza (non nel senso della neutralità, ma in quello della garanzia che l’intellettuale può garantire a un processo decisionale fondato sulla forza in qualsiasi forma espressa) è a mio giudizio essenziale.

Purtroppo, il nostro Paese non ha più coltivato e favorito forme di terzietà che invece nel dibattito pubblico sono sempre utili, se non fondamentali, per giungere a conclusioni ragionevoli. Per esempio – volendo ancora tornare alla mia personale esperienza – quando, fondato l’Urban Center Metropolitano di Torino, mi e ci trovammo davanti a discussioni che definire semplificate è poco – come su piazzale Valdo Fusi, sul palazzo dei Lavori Pubblici, sul grattacielo di Intesa San Paolo dove la contrapposizione era sulla bellezza, sulla omogeneità con il contesto, o sull’altezza dei nuovi edifici rispetto alla Mole Antonelliana – il confronto supportato da carte, argomenti, tesi (anche nettamente contrapposte) portò certo a furiosi conflitti ma allo stesso tempo anche a scelte che erano quasi filologicamente fondate. Questo per dire che la cultura entra nel conflitto e deve poter agire dentro il conflitto stesso. L’intellettuale non può, cioè, rinunziare alla funzione di “eveil”, come Cassese sostiene riprendendo Renan.

 

Se il libro di Cassese – a giudizio di chi scrive – andrebbe posto come base di un corso preliminare non solo nelle scuole di formazione dell’amministratore pubblico o del politico ma anche di chiunque aspiri ancora a esercitare la funzione di intellettuale in una democrazia davvero malata come la nostra, il lavoro di Adriano Prosperi può essere considerato un autentico grido di dolore che solo uno storico con la sua produzione alle spalle può permettersi. Perché è vero che stiamo, come società occidentali, perdendo la memoria profonda o siamo arrivati a negare che la realtà vada al di là della rappresentazione che i nostri sistemi neuronali ci consentono di raffigurare. Ma è altrettanto vero che mai, come in questi ultimi trent’anni, il patrimonio è stato al centro di attenzioni pubbliche, private, accademiche, turistiche, promozionali. E qui occorre fare subito un po’ di autocritica perché, forse, una parte della responsabilità di aver lasciato a politici e amministratori non solo la definizione di cosa sia patrimonio ma soprattutto delle sue funzioni in una società che si vuole postmoderna, ce l’hanno anche storici, conservatori, restauratori, legislatori e quanti operano sul e nel patrimonio stesso. Questo perché l’amara riflessione che Adriano Prosperi conduce su ricordo, memoria, storia – concetti ai quali bisognerebbe aggiungere almeno valorizzazione che forse è il vero nodo di tutte le ambiguità che questo bellissimo libro mette in luce – si scontra con alcune, per dirla semplicemente, ‘parole chiave’ mai davvero prese in carico dagli intellettuali.

Visto che gran parte del libro di Prosperi ha come oggetto principale la Shoah, il suo studio e la sua permanenza nella memoria collettiva – chiarissimo, a tal proposito, il riferimento a Maurice Halbwachs e al suo libro postumo su La mémoire collective (1950) ma forse, seppur meno evidente, anche quello a un altro libro di Halbwachs, La topographie légendaire des Évangiles en Terre sainte. Étude de mémoire collective (1941) – perché non domandarsi se la riflessione di Freud su L’elaborazione del lutto o quella di Jacques Lacan sulla rimozione – con tutte le critiche che progressivamente sono state da lui portate al cuore della dottrina freudiana – non siano rimaste troppo a lungo in mano agli psicanalisti che sulla seconda funzione che Cassese affida agli intellettuali – quella di trasformare “i morti in antenati” ovvero quella di aiutare una società a ricostruire in modo corretto il proprio passato – hanno forse clamorosamente fallito? Perché non riconoscere che i primi a ricercare soprattutto il riconoscimento – per aggiungere qualche termine fondamentale a quelli richiamati nel libro di Cassese – sono stati gli storici. Gli stessi che, tuttavia, sono stati poi incapaci di sottrarsi alla monumentalizzazione di Auhschwitz o – forse altrettanto gravemente – della sede della Gestapo a Berlino, con quel museo che fin dal suo nome – Die Topographie des Terrors – richiama tutti noi al dovere di ristabilire un rapporto tra fatti ed emozioni se ci si vuole in qualche modo avvicinare alla realtà storica e al senso della storia nel società contemporanea. Eppure, qualche tentativo riuscito in questa direzione esiste. Penso, per citarne uno esemplare, all’allestimento dell’ampliamento dello Yad Vashem a Gerusalemme dove Christian Boltanski ha saputo restituire a noi i sentimenti fondamentali dell’Olocausto: lo spaesamento, la perdita di identità, il buio interrotto da piccole luci che si illuminano progressivamente sino a far comparire i volti dei bimbi morti nei campi di concentramento. Uscendo da quel percorso non si ha solo una presa di coscienza razionale di ciò che è accaduto ma si vive (o rivive) l’esperienza emotiva e traumatica della Shoah.

Certo che lo storico non può evitare di interrogarsi sui temi de La Fabrique du patrimoine (2009) – titolo ormai datato del libro che Nathalie Heinich dedica proprio all’uso strumentale del patrimonio nella società contemporanea a cui va affiancato quello che un altro Boltanski (Luc), con Arnaud Esquerre, su posizioni per altro in conflitto con la Heinich, intitola Enrichissement. Une critique de la marchandise (2017) ponendo questioni teoriche essenziali una riflessione su questi temi –. La trasfigurazione di un’opera, di un avvenimento, di una testimonianza in simbolo può trasformarsi nella nuova forma di espressione di un capitalismo che valorizza l’originalità, l’autorialità, l’autenticità, la localizzazione topografica, in ultimo il significato di un manufatto umano (materiale o immateriale) per modificarne il valore in primis economico, poi socio-politico. E questo, ahimè, non è il solo iceberg che si trova davanti lo storico serio. Esiste un uso politico della storia che va oltre la nota affermazione nietzschiana sull’uso e l’abuso della storia. È quando questa viene chiamata se non a “amuser le présent” – come amaramente scrive François Hartog (2018) o come fa emergere un altro libro di Prosperi, Cause perse. Un diario civile (2010) – a legittimare ricostruzioni fisiche o anche solo cartacee – si pensi, per fare un esempio tra molti, alla vicenda del centro storico di Varsavia – che invece non fanno che reificare la memoria, che restituire simulacri a l’identique.

 

Tanto il libro di Prosperi quanto quello di Cassese toccano quindi un aspetto dolente della nostra contemporaneità: come trasformiamo i morti in antenati. Le cause per cui oggi assistiamo al paradosso di una history of the present – che nulla ha a che fare con la affermazione di Marc Bloch sulla storia che è sempre contemporanea – sono non solo evidenti ma forse persino troppo presenti nel dibattito pubblico. Vorrei anche qui richiamare un’esperienza personale. Quando Eugenio Battisti portò anche in Italia l’archeologia industriale, Carlo Poni la retrodatò sino al quattrocento e si cominciarono a porre sotto tutela le fabbriche di seta e di cotone soprattutto delle valli: a questo proposito vorrei qui ricordare il bellissimo libro di Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell'Ottocento (1984). L’archeologia industriale sembrava cioè confinata nel tempo e nei luoghi. Poi si concluse anche la stagione del secondo fordismo e iniziarono a chiudere delle autentiche città industriali. A Torino, dove io allora ero sempre responsabile dell’Urban Center Metropolitano, il censimento delle aree industriali dismesse (nessuno più parlava di “architettura industriale”) diede un esito sconfortante: i milioni di metri quadrati interessati erano più di dodici, escludendo la fabbrica più grande, Mirafiori, quasi dismessa, che da sola aggiungeva a quella cifra altri tre milioni di metri quadrati e mezzo. Ma non era solo una questione quantitativa a legittimare la conservazione dei documenti relativi alla storia di un secolo di industrializzazione negli archivi della Fiat Engeneering o in quelli del Comune di Torino – documenti che Michela Comba ha contribuito enormemente a salvaguardare –. Questi edifici, infatti, avevano una qualità unica: la spazialità. Mi ricordo quando nel 1982 entrammo con Roberto Gabetti nel Lingotto il giorno dopo la cessazione della produzione. L’immagine che usò Gabetti – «stiamo entrando in un letto appena abbandonato da due amanti» – coglieva la violazione di una memoria che non ci apparteneva. Ma non restituiva l’impressione che neanche le cattedrali gotiche offrono: gli spazi quasi senza fine, i cinque piani di più di 250 metri di lunghezza, scanditi da pilastri distribuiti, in maniera quasi ossessiva, secondo una maglia di sei metri per sei. Oggi, anche se questa grande architettura industriale è stata riconvertita e riutilizzata, appare come una sommatoria di spazi e funzioni differenti, divisi e senza legame tra loro e con la storia. L’autenticità – quella che lo storico dovrebbe almeno provare a difendere – è andata perduta e lo scrive chi ha curato due corposi volumi sul Lingotto (1995, 2003).

La distruzione della memoria di cui parla Prosperi ha indubbiamente un’altra forza e altre valenze nel suo riferirsi all’olocausto, ma certo investe in maniera violenta anche la cosiddetta architettura moderna (aggettivazione quanto mai ambigua). Proprio in questi giorni a Torino, per fare un esempio, stanno demolendo l’ultima parte rimaste delle Officine Grandi Motori, uno dei nuclei produttivi più importanti della Fiat già dall’inizio del Novecento. Dopo quella che non impropriamente si chiamava “la cattedrale” progettata da Vittorio Bonadé Bottino, ora sono i primi edifici, progettati da Piero Fenoglio a essere demoliti. Se consideriamo che a separare i due corpi della Grandi Motori c’è una piccola strada, via Cuneo, dove aveva sede anche il CLN del Piemonte e, a tratti, la Cgil durante la seconda guerra mondiale comprendiamo bene che ciò che si sta demolendo non è solo una vecchia fabbrica in disuso. Difendere il passato in questo caso, l’anima di quel luogo, incrocia la storia industriale, quella del movimento operaio, quella politica di Torino e del nostro Paese.

I problemi che il libro di Prosperi pone sono dunque cruciali tanto per gli storici quanto per una società che voglia dirsi civile e che sappia fare tesoro laicamente del proprio passato. Se lo sguardo dello storico non si chiudesse su problemi pur essenziali – come la gestione degli archivi o la riduzione degli investimenti in tutti i campi della ricerca storica – ma affrontasse anche il tema scivoloso e ambiguo, e tuttavia centrale, di cosa e come si valorizzano le testimonianze del passato (da un palazzo a una piazza, da un dipinto a una statua) di certo tornerebbe centrale un dibattito sull’uso strumentale e avvilente della storia nella contemporaneità. Un uso che riduce la realtà a una presunta storicità: quella restituita da pubblicità, film, forme promozionali di interventi immobiliari che pretendono di raccontare non solo la campagna e le cittadine toscane, com’era qualche anno fa, ma ormai gran parte d’Italia. Alberto Asor Rosa e Salvatore Settis hanno meritoriamente aperto un‘autentica campagna contro queste forme di falsazione della storia e della realtà che ci circonda. Nello stesso tempo, però, dobbiamo riconoscere che la trasformazione in ‘patrimonio’ di quasi ogni oggetto della produzione umana (dal dipinto alla zappa) ha un senso solo per una ristretta cerchia di storici, di antropologi, di etnologi, di restauratori. Il passato che va difeso, piuttosto, è quello che consente di trasformare ciò che è morto in antenato. Non è cioè possibile, per fare un esempio concreto, conservare il laminatoio della Falk, uno spazio unico di più di un chilometro a Sesto San Giovanni senza che questo abbia un senso per quella comunità oggi, così come non è pensabile conservare una fabbrica dismessa solo perché l’autore è Nervi o Torroja. Gli antenati – ce lo racconta Euripide – sono scelti anche perché la storia si scrive e si riscrive e il compito pubblico, civile, sociale dello storico e dell’intellettuale non può che essere quello di aiutare il cittadino a ragionare sul perché la pizza diventa patrimonio immateriale dell’umanità, mentre spariscono tutti gli errori (scientifici, tecnologici, sociali, razziali) compiuti dall’umanità stessa: Hiroshima e Nagasaki sono omicidi di massa se non genocidi e, forse, lo sono anche sul piano culturale. Voglio dire che non si può solo esecrare cosa sta succedendo negli Usa, in Italia e in altre parti del mondo dove la critica distruttiva e poi la distruzione fisica di statue, monumenti, archivi cartacei avviene solo perché Colombo era imperialista o perché non ci sono abbastanza statue di donne al Prato della Valle a Padova (ci sono cresciuto e lo conosco bene). Questo è l’ennesimo uso politico della storia cui stiamo assistendo sul quale dobbiamo interrogarci.

Mi avvio a concludere dissentendo su un unico capitolo del libro di Prosperi, la postilla finale. Non credo sia la malattia della memoria degli anni recenti ad aver oscurato e aver fatto calare la nebbia dell’ignoranza e della falsificazione di valori, riti e date civili (Prosperi, p.118). O perlomeno non solo. La pandemia, per fare un esempio che riguarda altri ambiti della nostra vita, ha reso evidente la nostra incapacità di opporci – come intellettuali e come società – di fronte ad alcune trasformazioni che in realtà sono vere e proprie trasmutazioni di senso: mi riferisco a quella del medico che da semeiotico e olistico è diventato specialista autoreferenziale con ripercussioni non secondarie sulla sua capacità di affrontare i problemi. Lo stesso potremmo dire del dissesto idrogeologico che è anche la conseguenza della mancata presa in carico da parte delle tante professioni che si suddividono la “cura del territorio” del territorio stesso nella sua unitarietà.

Se le cose vanno in questa direzione è perché, purtroppo, esistono responsabilità – tanto degli intellettuali quanto della società – che sono a cavallo dei temi trattati nei due testi. Per questo andrebbero prima di tutto letti. Letti insieme, come un ideale cours préliminaire alla vita civile e democratica.

Carlo Olmo

 

 

 

 

N.d.C. - Carlo Olmo, professore emerito di Storia dell'Architettura del Politecnico di Torino, è stato preside della Facoltà di Architettura e ha coordinato il dottorato di ricerca in Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica. Ha insegnato all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere. Ha inoltre curato mostre di architettura a Torino, Venezia, Roma, Parigi, Bruxelles e New York.

Tra i suoi libri: Politica e forma (Vallecchi, 1971); Architettura edilizia. Ipotesi di una storia (Torino, 1975), con Roberto Gabetti, Le Corbusier e L'Esprit Nouveau (Einaudi, 1975); con Riccardo Roscelli, Produzione edilizia e gestione del territorio (Stampatori, 1979); La città industriale. Protagonisti e scenari (Einaudi, 1980); Aldo Rossi attraverso i testi (Mazzotta 1986): tr. ing. in "Assemblage", 5, 1988: Turin et des Miroirs feles, in "Annales", 3, 1989; con Roberto Gabetti, Alle radici dell'architettura contemporanea. Il cantiere e la parola (Einaudi, 1989); con Linda Aimone, Le esposizioni universali, 1851-1900. Il progresso in scena (Allemandi, 1990; ed. fr. Belin 1993); con Luigi Mazza (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1991); (a cura di), Cantieri e disegni. Architetture e piani per Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1992); Urbanistica e società civile. Esperienza e conoscenza, 1945-1960 (Bollati Boringhieri, 1992); Gabetti e Isola. Architetture (Allemandi, 1993); (a cura di), La ricostruzione in Europa nel secondo dopoguerra (Cipia, 1993); (a cura di), Il Lingotto: 1915-1939. L'architettura, l'immagine, il lavoro (Allemandi, 1994); (a cura di) con Bernard Lepetit, La città e le sue storie (Einaudi, 1995); (a cura di), con Alessandro De Magistris, Jakov Cernihov: documenti e riproduzioni dall'archivio di Aleksej e Dimitri Cernihov (Allemandi, 1995; ed. fr. Somogy editions d'art, 1995; ed. ted. Arnoldsche, 1995); Le nuvole di Patte. Quattro lezioni di storia urbana (FrancoAngeli, 1995); (a cura di), Mirafiori (Allemandi, 1997); (a cura di) con Lorenzo Capellini e Vera Comoli, Torino (Allemandi, 1999); (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo (Allemandi, 2000-2001, 5 vol.; ed. Enciclopedia Treccani, 2002); Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica (Edizioni di Comunità, 2001); (a cura di) con Walter Santagata, Sergio Scamuzzi, Tre modelli per produrre e diffondere cultura a Torino (Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci, 2001); con Michela Comba, Marcella Beraudo di Pralormo, Le metafore e il cantiere. Lingotto 1982-2003 (Allemandi, 2003); (a cura di) con Michela Comba e Manfredo di Robilant, Un grattacielo per la Spina. Torino, 6 progetti su una centralità urbana, catalogo della mostra (Allemandi, 2007); Morfologie urbane (il Mulino, 2007); (a cura di), Giedion, Sigfried, Breviario di architettura (Bollati Boringhieri, 2008); (a cura di) con Arnaldo Bagnasco, Torino 011: biografia di una città. Saggi (Mondadori Electa, 2008); Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori (Donzelli, 2010); (a cura di), con Cristiana Chiorino, Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida (Silvana ed., 2010, 2012); Architecture and the 20. Century: Rights, conflicts, values (List Lab, 2013); Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (Donzelli, 2013); con Susanna Caccia Gherardini, Le Corbusier e il fantasma patrimoniale (Il Mulino 2015) e Metamorfosi americane. Destruction throught neglect: Villa Savoye tra mito e patrimonio (Quodlibet, 2016); con Susanna Caccia, La villa Savoye. Icona, rovina e restauro (1948-1968) (Donzelli, 2016); con Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini, Le Case Olivetti a Ivrea (Il Mulino, 2018); con postfazione con Antonio De Rossi, Urbanistica e società civile (Edizioni di Comunità, 2018); Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018); Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie (Donzelli, 2020).

Per Città Bene Comune ha scritto: Spazio e utopia nel progetto di architettura (15 febbraio 2019); La città tra corpo malato e perfetto (3 luglio 2020); La diversità come statuto di una società (19 febbraio 2021); Biografia (e morfologia) di una strada (22 ottobre 2021).

Sui libri di Carlo Olmo, v. i commenti di: Cristina Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili… E la cerbiatta di Cuarón (5 ottobre 2018); Giampaolo Nuvolati, Scoprire l’inatteso negli interstizi delle città (20 settembre 2019); Carlo Magnani, L’architettura tra progetto e racconto (11 settembre 2020); Piero Ostilio Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura (2 ottobre 2020); Gabriele Pasqui, La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

04 FEBBRAIO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
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Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
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cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
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Conferenze & dialoghi

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Gli incontri

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2022:

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)