|
|
Il libro curato da Giampaolo Nuvolati e Alessandra Terenzi, Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021), si inserisce in una lunga tradizione degli studi sociologici sulla città: quella che ha per oggetto i quartieri urbani e, in particolare, le aree marginali con una forte presenza di minoranze etniche e religiose. È una tradizione che risale alla fase fondativa della sociologia urbana e alla Scuola di Chicago degli anni 1920-30; una tradizione che, dopo essere stata a lungo oggetto di critiche per la sua tendenza ad un’analisi descrittiva e incapace di giungere a generalizzazioni, da alcuni decenni ha ripreso vigore ed interesse. A questo contribuiscono diversi fattori sia di natura epistemologica sia connessi alle trasformazioni sociali che riguardano le città contemporanee. I primi sono legati alla crisi dei modelli di analisi neopositivisti e al nuovo interesse per gli studi di caso e le “descrizioni spesse” di fenomeni situati nello spazio e nel tempo, capaci di focalizzarsi sulle loro particolarità, ma anche, talora, di mettere in luce aspetti dotati di più ampia valenza esplicativa. I secondi rinviano alle crescenti ineguaglianze che si producono nelle città di ogni parte del mondo e che spesso – anche se non esclusivamente – si manifestano come nette linee di frattura che dividono parti talora molto ravvicinate degli aggregati urbani. In ragione di ciò, dunque, non solo assumono nuovamente rilevanza gli studi direttamente rivolti all’analisi sociologica di particolari quartieri, ma anche quelli che mettono in luce il neighborhood effect (ovvero la variabile legata al contesto urbano in cui si produce un dato fenomeno o da cui provengono gli attori in gioco) per interpretare diversi profili dell’ineguaglianza sociale, ad esempio con riferimento alle opportunità lavorative ed educative, alla salute fisica e mentale (Sampson, R. J., Moreno, J. D. and Gannon-Rowley, T. 2002; Knaap et al, 2019).
Collocandosi in questo clima culturale, il lavoro di Nuvolati e Terenzi sul cosiddetto quadrilatero di San Siro presenta comunque alcuni tratti di originalità, che ne accrescono l’interesse. Uno di essi riguarda il metodo, illustrato con cura nel testo, articolato in due volumi; esso combina tecniche qualitative e quantitative, consentendo una restituzione dei risultati che combina una duplice prospettiva: quella delle evidenze oggettive desumibili dai dati statistici e quella delle percezioni degli abitanti, testimoniate un complesso di 20 interviste semistrutturate svolte con un campione non rappresentativo della popolazione dell’area, ma calibrato in modo tale da coinvolgere nell’analisi residenti con caratteristiche distinte. Un altro aspetto che vale la pena sottolineare è il riferimento ad un tema specifico - quello della qualità della vita urbana - che rappresenta la prospettiva principale su cui si inseriscono gli altri punti di vista che si intrecciano nella analisi di San Siro: un esame teorico di tale tema è offerto da un breve saggio di Nuvolati nel capitolo iniziale del primo dei due volumi. Inoltre, va segnalato l’intento di presentare il lavoro come un’esperienza pilota, utile anche per dar corpo ad un modello di procedura analitica replicabile in contesti analoghi, ovvero in zone di edilizia popolare. Si aggiunga ancora la rilevanza didattica dell’esperienza di ricerca nel quartiere; essa, infatti, ha visto il coinvolgimento attivo di studenti della Bicocca, in modo tale da proporre loro uno specifico percorso formativo, anch’esso replicabile per altri studenti ed in altri contesti. In conclusione di questa recensione si tornerà sul tema della replicabilità della metodologia; prima di tutto, però, occorre fare cenno all’immagine dell’area che emerge dalla ricerca svolta e dall’interpretazione che ne viene proposta, mettendo in luce alcuni aspetti che presentano un interesse che va al di là del caso specifico.
Il quadrilatero di edilizia popolare di San Siro è per molti elementi un quartiere-enclave: è caratterizzato da densità abitativa, nonostante la presenza di alloggi vuoti, ed è circondato da altre parti di questo settore urbano abitate da popolazione ad alto reddito. Non solo: è prossimo al centro, ma presenta una elevata concentrazione di problematicità sociali; una situazione – quest’ultima – che il linguaggio mediatico-politico tende ad etichettare come tipica delle periferie. In realtà, si può osservare che questi stessi caratteri non sono del tutto eccezionali: essi possono essere ritrovati anche in altre città, in zone di edilizia residenziale pubblica (ERP) costruite nella prima metà del ‘900. Un caso analogo, ad esempio, è il complesso residenziale di via Arquata a Torino, ai margini del quartiere benestante della Crocetta, che è stato oggetto di un progetto di riqualificazione, realizzato con un approccio integrato tra il 2000 e il 2007. Tuttavia, quello che caratterizza S. Siro è l’ampia dimensione dell’area ERP (popolata da 12.000 abitanti, mentre via Arquata ne ha solo 1500), e il contrasto particolarmente acuto con il contesto, interessato da intensi processi di gentrification, che hanno condotto ad abitarvi anche personaggi famosi del mondo dello spettacolo e dello sport.
Un tema che attraversa tutto il testo e che viene evidenziato con particolare attenzione è quello del declino progressivo del quadrilatero, un ambito residenziale che al momento della sua costruzione – peraltro realizzata in più tempi tra il 1935 e il 1947 – appariva come un esempio positivo progetto di edilizia pubblica, con alloggi dotati di un bagno interno, a differenza delle tradizionali case a ringhiera con bagni comuni su ballatoio. Anche dal punto di vista sociale è ricordato dagli abitanti più anziani come un luogo di coesione e solidarietà. Tuttavia, alcuni aspetti strutturalmente legati al progetto iniziale possono essere visti, a ritroso, come fattori di vulnerabilità sociale e spaziale. Tra questi, l’elemento principale è la natura monofunzionale dell’area e la sua struttura urbanistica introversa; assai meno lo è invece la sua collocazione, che poteva definirsi periferica al momento della costruzione. Anzi, è proprio la completa inclusione nel tessuto urbano a farne risaltare il carattere di un’enclave residenziale a basso reddito, in contrasto con un contesto che la ignora e le volge le spalle.
Le cause del peggioramento delle condizioni sociali dell’area, che cominciano a manifestarsi in modo evidente negli anni ’80, sono molteplici e sono legate tanto a fenomeni di degrado fisico del costruito – non contrastato da interventi adeguati di manutenzione – quanto a dinamiche sociali, che determinano una crescente concentrazione di criticità e l’aumento della frammentazione e dei conflitti tra le diverse componenti della popolazione. Un aspetto cruciale del declino del quartiere, tuttavia, è rappresentato dalle modalità con cui la proprietà e le istituzioni pubbliche hanno esercitato la governance del quadrilatero o, meglio, dall’assenza di una governance coerente, volta alla promozione del valore sociale dell’area. Al contrario, essa ha subito una progressiva privatizzazione, grazie al piano di vendite promosso da Aler, l’ente pubblico proprietario. Questa politica non ha favorito una riqualificazione degli alloggi, né ha fatto entrare nelle casse dell’ente cifre sufficienti per una rigenerazione del patrimonio residenziale pubblico rimanente, dato il modesto valore delle residenze poste in vendita. Oltre ad impoverire il patrimonio di edilizia residenziale pubblica, questo ha contribuito alla generalizzata percezione di un abbandono della zona da parte delle istituzioni. In questo vuoto della governance si è venuto a creare un terreno favorevole per la penetrazione di fenomeni illegali, come l’occupazione degli alloggi vuoti gestita da un vero e proprio racket, che si affianca a processi informali, come il subaffitto. In tale quadro, anche l’intervento di associazioni del Terzo Settore, pur attivamente presenti e capaci di creare servizi e piccole isole di aggregazione sociale, appare tuttavia insufficiente a contrastare i processi di marginalizzazione sociale, in assenza di un più consistente programma strategico per l’area.
D’altro canto, non è pensabile che a tale vuoto di iniziativa possa sopperire il successo della città nel suo complesso, come se questo filtrasse per osmosi in ogni sua parte. Anzi, a tale riguardo è significativo il fatto che, proprio il momento più emblematico del rilancio della metropoli milanese, quello che coincide con la preparazione dell’EXPO del 2015, abbia visto un forte aumento della criticità del quadrilatero. Infatti, la volontà di nascondere agli occhi dei visitatori sacche di disagio ed episodi di abusivismo ha condotto allo sgombero di campi nomadi e alloggi occupati in parti maggiormente visibili della città, spingendo popolazione rom verso San Siro e creando non solo conflitti con la popolazione residente, ma anche un continuo ricambio di gruppi familiari, accrescendo l’instabilità della zona.
Ciò vale a conferma di due concatenazioni di fenomeni già documentati in altri contesti. Il primo è una riprova del fatto che le politiche di apparente rigore contro determinate forme di illegalità, che si limitano all’intervento repressivo – come avviene anche in occasione di politiche securitarie basate sul principio della “tolleranza zero” –, hanno quasi sempre solo l’effetto di spostare le criticità da una zona ad un’altra della città e, in genere, da zone più esposte alla visibilità fisica e mediatica a spazi più nascosti e già emarginati. Il secondo evidenzia come sia illusorio pensare che un evento complessivamente in grado di rilanciare l’economia cittadina vada automaticamente a vantaggio, sia pure non in egual misura, di tutti i gruppi sociali e di tutti i quartieri urbani. Al contrario, come mostrano numerosi studi sui mega-eventi, spesso questi non solo lasciano da parte alcuni settori urbani, ma influiscono anche negativamente su specifici gruppi sociali particolarmente vulnerabili. Ciò è già avvenuto in occasione di eventi olimpici (Minnaert, 2012), sia per effetto di politiche dirette, come la distruzione di aree povere destinate ad ospitare le gare, sia per effetti indotti, ad esempio, dall’aumento dei prezzi e dei valori immobiliari, che provocano processi di gentrification e di espulsione dei meno abbienti.
Un altro risultato della ricerca su San Siro che mi sembra far emergere fenomeni di più ampia valenza è quello della compresenza, nell’area esaminata, di un eccesso di omogeneità e di frammentazione. Ciò può apparire paradossale, ma lo è assai meno se si considera che entrambi questi caratteri dipendono dalla prospettiva di osservazione e dalla scala spaziale di riferimento. Ponendosi dall’esterno ed esaminando il quadrilatero nella struttura complessiva della città di Milano (o dell’area metropolitana), esso appare indubbiamente come un’area segregata, caratterizzata da una forte omogeneità che riguarda molti fattori, come il basso reddito, l’ampia presenza straniera, l’elevato numero di persone che vivono da sole, la concentrazione di criticità. Tuttavia, entrando all’interno dell’area del quadrilatero e considerando i fenomeni sociali alla microscala, le differenze e anche le contrapposizioni tra vari gruppi e condizioni sociali compaiono subito in primo piano: non solo quelle tra italiani e stranieri, ma anche quelle tra abitanti di diversa origine geografica e culturale (egiziani, marocchini, rom) e persino all’interno di ciascun gruppo (ad esempio tra la maggioranza musulmana degli egiziani e la minoranza copta), come pure tra residenti regolari e abusivi. Differenze che producono frammentazione, micro-segregazioni, leggibili nei racconti delle interviste con riferimenti anche spaziali, riguardanti sia gli ambiti residenziali (contrapposizione tra abitanti di diversi numeri civici), sia gli spazi pubblici, oggetto di processi di appropriazione da parte di specifici gruppi.
Anche in questo caso si tratta di un effetto non del tutto inatteso: i meccanismi di mercato e le politiche urbane attive di stampo neoliberistico, o anche la semplice assenza di politiche di contrasto all’ineguaglianza, spingono minoranze etniche e gruppi sfavoriti altamente eterogenei tra loro verso le stesse aree marginali (Andersen, 2010). All’interno di esse, la diversità culturale, vissuta in condizioni sfavorevoli ed oggetto di stigmatizzazione dall’esterno, si intensifica e favorisce la reciproca diffidenza, come pure i tentativi di usare a vantaggio del proprio gruppo le poche risorse disponibili. A ciò si aggiungono variabili legate al genere, all’età, alla maggiore o minore mobilità, al tempo di permanenza nel luogo che rinviano a ulteriori distinzioni e frammentazioni, che tuttavia possono essere percepite solo comprendendo dall’interno le dinamiche dell’area.
Gli intenti del testo di Nuvolati e Terenzi sono essenzialmente analitici e interpretativi: tuttavia non mancano osservazioni che vanno in direzione di una proposta per l’orientamento di politiche per una riqualificazione dell’area e, al di là di essa, per il rilancio dell’edilizia pubblica residenziale in Italia. È ampiamente noto come l’ERP abbia avuto nel nostro paese, quanto meno a partire dal dopoguerra, un ruolo assai più limitato rispetto a quello svolto in altri paesi europei. Non solo: esso si è ulteriormente ridotto negli ultimi decenni, con motivazioni ragionevoli in via di principio, come quelle che si riferiscono alla necessità di affrontare oggi il problema della casa diversificando gli interventi in base alle differenti esigenze dei soggetti a cui si rivolgono e dei contesti territoriali in cui si inscrivono. Sta di fatto, tuttavia, che al di là di iniziative sporadiche di “buone pratiche” da parte di amministrazioni locali, questo orientamento non si sia affatto tradotto in una politica organica, mentre è del tutto operativa la tendenza alla riduzione del patrimonio residenziale pubblico.
Del resto, In Italia si è sempre ritenuto che, per affrontare il problema della casa, la via maestra fosse quella di favorire l’accesso alla proprietà, come se questa garantisse automaticamente un miglioramento della qualità della vita. La stessa riflessione sul caso di San Siro, oltre che uno sguardo più ampio sul tema, porta invece all’osservazione – contenuta in un capitolo finale del primo volume del testo, a firma di Terenzi – che “risulta ormai necessario superare la bipolarità tra proprietà come vantaggio e non-proprietà come svantaggio in quanto il patrimonio edilizio privato non presenta una correlazione così lineare con le situazioni di maggior benessere” (p. 103, corsivi nel testo). Questa riflessione rinvia al tema dell’edilizia pubblica come aspetto ineludibile delle politiche di contrasto all’ineguaglianza sociale, anche se ciò non fa venir meno la necessità di intraprendere contemporaneamente altre vie per dare risposte alla questione dell’abitazione in un contesto sempre più socialmente segnato da differenze e frammentazioni. La proposta del testo in esame è quella di considerarla come una infrastruttura sociale abilitante, “al pari di altri strumenti considerati fondamentali per la crescita di un Paese, come le strade, gli ospedali, le ferrovie, gli aeroporti, la banda larga, le piattaforme digitali” (p. 102). Mi sembra, questa, una idea che potrebbe apparire ampiamente condivisibile, ma che non è per nulla in evidenza nel dibattito pubblico e nello stesso PNRR è richiamata solo in termini piuttosto vaghi. È vero che qualche elemento innovativo compare nel decreto del 7-10-2021 che, destinando 2,8 miliardi di euro del PNRR per il Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’abitare, connette il miglioramento qualitativo dell’abitazione alla rigenerazione di aree marginali delle città. Tuttavia, come osserva Reale (2021), si tratta qui di uno specifico investimento, mentre si è ancora lontani dall’idea di una riforma organica dell’ERP, che la veda come infrastruttura sociale essenziale.
In ogni caso, una politica per l’edilizia pubblica non può consistere unicamente in interventi sul patrimonio edilizio: altrettanto importante è l’attenzione alla dimensione sociale dei problemi. Questo implica progetti attivi per l’inclusione sociale, per la qualificazione dello spazio pubblico, la promozione dei processi partecipativi, il rafforzamento di legami interni alle zone ERP come pure tra queste e il sistema urbano. È questo un compito per cui è essenziale non solo l’intelligenza e la competenza delle istituzioni, ma anche la capacità di creare sinergie con altri attori pubblici – come le scuole, l’università, il sistema sanitario – e con il Terzo Settore. A San Siro questi attori sono ben presenti, ma prevale in essi la focalizzazione su interventi settoriali, promossi da ciascun ente in base alle proprie competenze e temi di intervento, più che la capacità di fare rete. Del resto, tale situazione non è affatto una peculiarità del caso specifico: essa si ripete quasi ovunque, anche dove abbondano le “buone pratiche”. Non si tratta unicamente di un limite culturale dei soggetti coinvolti: a riguardo del Terzo Settore giocano anche le modalità di finanziamento, cui essi possono attingere; modalità che consistono in larga parte in partecipazioni a bandi competitivi, legittimati dall’onnipresente retorica del merito, ma il cui effetto è spesso quello di far sì che, per ogni attore di tale settore, gli altri soggetti analoghi tendano ad essere visti come concorrenti da cui difendersi, più che come potenziali partner per progetti integrati.
In sostanza, come ho provato ad evidenziare, la ricerca su San Siro mi sembra un esempio particolarmente riuscito di lavoro sociologico su di un caso emblematico, che consente di armonizzare l’attenzione agli elementi singolari che esso presenta con l’apertura verso temi di interesse più ampio, basandosi su di una solida ossatura teorica. Una piccola osservazione critica di natura concettuale (o, forse, solo lessicale) riguarda l’uso frequente del termine “degrado” per riferirsi al peggioramento della qualità della vita. È ovvio che quello che sto per dire non ha nulla a che vedere con le intenzioni degli autori e si deve prendere atto che il termine è largamente usato nel dibattito mediatico e politico; esso compare anche nel già richiamato PNRR, in cui il contrasto al “degrado sociale” è posto come obiettivo della rigenerazione urbana, accanto ad altri termini-chiave come “emarginazione” e “decoro”. Il problema, a mio avviso, sta nel fatto che “degrado” si abbina agevolmente a molti aggettivi (architettonico, sociale, ambientale, morale, ecc.), assumendo significati distinti, anche se sempre riferiti a un percorso verso il peggio. In tal modo, nell’uso ideologico divenuto purtroppo comune, lascia campo all’idea che tutto sia parte di un unico processo di deterioramento: cadono gli intonaci, le strade sono sporche, arriva popolazione indesiderata - per lo più straniera -, cresce l’insicurezza e il consumo di droga, i costumi si deteriorano, viene meno il decoro urbano e così via. Al posto dell’analisi puntuale dei processi causali che si stabiliscono tra i diversi elementi (ben condotta, per contro, nel testo di Nuvolati e Terenzi), prende corpo un’idea semplificata, che evoca in modo indistinto una discesa agli inferi da contrastare con mezzi indicati, in genere, con termini altrettanto riduttivi. Per questo, ritengo che “degrado” si addica solo ad alcuni usi – ad esempio per riferirsi al deterioramento degli edifici, o dello spazio pubblico – ma che vada evitato soprattutto per parlare della concentrazione progressiva di problemi sociali in un quartiere.
Prima di concludere, vale la pena tornare su un aspetto della ricerca accennato all’inizio della recensione: quello che si riferisce alla proposta di un metodo di analisi della qualità della vita in quartieri ERP (e non solo), in vista della sua replicabilità in altri contesti. A tale scopo nel volume 2 il metodo seguito viene illustrato e motivato con dettaglio, individuando un insieme di indicatori che si ritengono adeguati. La proposta è interessante, ma ciò su cui vorrei soffermarmi un momento è – nuovamente – una questione di portata più generale. Nella sociologia del territorio l’uso replicato di una metodologia, per favorire il confronto dei risultati, non è molto comune, a meno che sia lo stesso gruppo di ricercatori a scegliere questa via, ad esempio nel caso di un unico progetto in cui operano più unità di ricerca. In parte, le differenze tra i contesti e la necessità di adattare ad esse le metodologie di analisi possono essere giustificazioni ragionevoli di questa diffidenza verso la standardizzazione dei percorsi di ricerca. Temo, però, che dietro di essa vi siano anche altri problemi, che non hanno molto a che fare con la validità ed utilità sociale della ricerca ma, semmai, con i criteri di valutazione accademica. Mi chiedo ad esempio (ma è una domanda cui non ho gli elementi per dare una risposta documentata) quanti valutatori o peer reviewer di una rivista autorevole non alzerebbero le sopracciglia di fronte ad un articolo che dichiarasse esplicitamente di riapplicare una metodologia proposta da altri; quanti di essi non vedrebbero in questo una prova di scarsa originalità.
Spero che il sospetto sia infondato; ad ogni modo, anche se penso che gli studi di caso abbiano un valore in sé, credo al tempo stesso che sarebbe quanto mai utile l’accumulazione di evidenze empiriche basate sulla stessa metodologia di ricerca, a patto – ovviamente – che le analogie tra i contesti studiati consentano un confronto significativo al fine di mettere in luce aspetti comuni e singolarità dei vari casi. Lavorando con un materiale di questo tipo sarebbe più facile osservare delle linee di tendenza e formulare proposte per politiche appropriate. Per questo auspico che la proposta metodologica di Nuvolati e Terenzi possa trovare interesse al di là dello stesso gruppo di ricerca che l’ha formulata ed alimentare un filone di studi di sicura rilevanza.
Alfredo Mela
Bibliografia Andersen H.S. (2010), Spatial Assimilation in Denmark? Why do Immigrants Move to and from Multi-ethnic Neighbourhoods?, HousingStudies, 25:3, pp.
N.d.C. - Alfredo Mela, già professore ordinario di Sociologia dell'ambiente e del territorio, ha insegnato al Politecnico di Torino in corsi di laurea in Architettura e Pianificazione e come visiting professor all’Université Paris 1 – La Sorbonne Panthéon, dove ha tenuto lezioni e seminari su temi riguardanti la sociologia e la pianificazione di area vasta. Ha diretto il corso di alta formazione in Habitat e Cooperazione del Politecnico di Torino ed è stato coordinatore della sezione “Territorio” dell’Associazione Italiana di Sociologia tra il 2013 e il 2016. Fa parte del comitato di direzione della rivista “Sociologia Urbana e Rurale” edita da FrancoAngeli.
Tra i suoi libri: con P. Ceresa e M. Pellegrini, Una lettura della sociologia per paradigmi (Celid, 1981); Immagini classiche della sociologia urbana (Celid, 1984; 1988; 1994); La città come sistema di comunicazioni sociali (F. Angeli, 1985; 1987; 1989; 1990; 1992; 1994); Le comunicazioni sociali urbane. Tendenze evolutive (Isig, 1988); Società e spazio. Alternative al postmoderno (F. Angeli, 1990); con P. Ceresa, e M. Pellegrini, Prospettive e paradigmi della sociologia (Celid, 1992); Sociologia delle città (NIS, 1996; 1998; 1999; Carocci 2006; 2008; 2018); con M. C. Belloni e L. Davico, Sociologia dell'ambiente (Carocci, 1998); con L. Davico e L. Conforti, La città, una e molte. Torino e le sue dimensioni spaziali (Liguori, 2000); con L. Davico, Funzioni metropolitane e tempi della città. Orari, luoghi attrattivi a Torino (Politecnico di Torino, 2000); con M. C. Belloni e L. Davico, Sociologia e progettazione del territorio (Carocci, 2000); con Luca Davico, Le società urbane (Carocci, 2002; 2005); (a cura di), La città ansiogena. Le cronache e i luoghi dell'insicurezza urbana a Torino (Liguori, 2003); con D. Ciaffi, La partecipazione. Dimensioni, spazi, strumenti (Carocci, 2006; 2011); con L. Davico e L. Staricco, Città sostenibili. Una prospettiva sociologica (Carocci, 2009); con D. Ciaffi, Urbanistica partecipata. Modelli ed esperienze (Carocci, 2011); (a cura di), La città con-divisa: lo spazio pubblico a Torino (Angeli, 2014); con E. Chicco, Comunità e cooperazione. Un intervento sul benessere psicologico nel Salvador (Angeli, 2016); con S. Mugnano e D. Olori (a cura di), Territori vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana (Angeli, 2017); con N. Borrelli, Lo spazio del cibo. Un'analisi sociologica (Carocci, 2018); con A. Toldo, Socio-Spatial Inequalities in Contemporary Cities (Springer 2019); con R. Albano e E. Saporito (a cura di), La città agita. Nuovi spazi sociali tra cultura e condivisione, (Angeli, 2020); con D. Ciaffi e S. Crivello, Le città contemporanee. Prospettive sociologiche (Carocci, 2020); La città postmoderna. Spazi e culture (Carocci, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: La città e i suoi ritmi (secondo Lefebvre), 25 settembre 2020.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 18 MARZO 2022 |