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È difficile condividere – soprattutto per chi ancora si ostina a credere nei valori della sinistra, ma non dei partiti che oggi la rappresentano – le “provocazioni” cui Massimo Ilardi ci ha abituati da tempo, parlando di territorio, politica e libertà: i tre temi principali attorno ai quali ruota il contenuto del libro Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi, 2022). Altrettanto difficile è ignorarle poiché, ci piaccia o no, in un’epoca così fatta da rasentare l’incubo, molto di ciò che ci sembra “negativo” costituisce, purtroppo, gran parte della realtà visibile: quella che si preferisce ignorare per la sofferenza che provoca il prenderne atto o per l’impotenza cui ci ha rassegnati l’epoca attuale fatta di guerre, sindemie, migrazioni di disperati, minacce ambientali, bruttezza della politica. Dunque, facciamoci pure i conti.
Partiamo dalle periferie. Scrive Ilardi: «Né si può ignorare la periferia come luogo irrilevante e residuale di forme di vita se ha funzionato, negli ultimi decenni, come grande laboratorio di mutamenti culturali, dalla musica alla moda, dal linguaggio all’arte. Lo sa bene il mercato che recepisce e mette continuamente in produzione le innovazioni che provengono da questi territori» (p. 7/8). Ed è vero che i partiti politici hanno voltato loro le spalle, incapaci, o forse ritenendo inutile e poco vantaggioso, confrontarsi con esse. Ma di certo, il cosiddetto mercato non è un buon maestro. Non è forse altrettanto vero che proprio in questi laboratori – che sono diventate le periferie – prendono forma inedite esperienze di comunità virtuose, pur deboli quanto si voglia? Vogliamo ignorarle? Non è da qui che occorre ripartire per accendere la pur debole speranza di cambiamento?
Ancora, questa volta sul consumismo che – secondo l’Autore – «è la negazione della proprietà, di qualsiasi proprietà, e determina la rottura decisiva tra proprietà e libertà; è l’atto distruttivo fine a se stesso […]. Ma non è il senso di comunità a guidarle (le masse), sono le emozioni a tenerle insieme, è il loro capitale emotivo accumulato che ha bisogno di essere investito in qualche evento» (p. 9). Almeno in questa seconda parte della affermazione, c’è il riconoscimento che il capitale emotivo – le passioni, il volontariato che una volta si manifestava nell’appartenenza a un partito, a una rappresentazione politica del mondo (si chiamava ideologia) – ora si dissipa in un atto meramente individuale: nel possesso immediato di un bene effimero che supplisce il bisogno di appartenenza o di comunità vivente che non trova spazio e occasioni di manifestarsi. E il consumismo è la facile realtà che non conosce limiti.
Ma dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose?
Di recente sono venuto in possesso di un saggio di Laura Marchetti, La statua di Glauco. Riflessioni sulla natura umana durante la pandemia («MeTis. Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni» 11(2) 2021, 62-78). Userò, per spiegarmi, alcune espressioni tratte da questo saggio. Riecheggia nel libro di Ilardi il conflitto tra Rousseau e Hobbes. Il primo considera l’uomo (L’Emilio) naturalmente buono e se diventa lupo la colpa è della società, una società che esalta il “proprio”, ovvero la proprietà privata e l’individualismo proprietario. L’uomo di Hobbes, al contrario, nascendo nella paura, cresce sviluppando l’istinto aggressivo, l’orgoglio, la vanità e la disposizione innata al combattimento e alla prevaricazione. Credo che ciascuno di noi parteggi alternativamente per l’una e l’altra posizione, non potendo ignorare che ciascuna di esse abbia una sua validità filosofica. Tuttavia, nessuna delle due può essere assolutizzata per spiegare quella che chiamiamo “natura umana” (Arendt contestava l’uso di questa espressione). Forse né l’una né l’altra riescono più a convincerci, ovvero ridurci alla contemplazione del bello che è nell’uomo così come alla rassegnazione del male che è in lui.
La politica non dovrebbe servire a superare questa ingannevole dicotomia?
Il libro, per la verità, è un libro politico, forse, esageratamente politico perché non tiene conto, o poco conto, della complessità dei fenomeni analizzati e della loro contraddittorietà che espone a diversi punti di riflessione critica. Mi chiedo, cioè, se sia possibile una narrazione alternativa che, pur partendo dal presupposto che siamo dominati da poteri che ci sovrastano e dalla pulsione di morte (la violenza, il saccheggio, la distruzione, le guerre, la competizione darwiniana, la meritocrazia), consenta di liberare da questa “natura umana” – uso di nuovo le parole di Laura Marchetti – un’altra pulsione, una “guardiana della vita”, ovvero una pulsione d’amore per la specie. Che cosa spinse le prime organizzazioni sindacali, nell’Inghilterra, a mettere insieme parte dei propri magri risparmi per donarli, all’occasione, alle famiglie i cui mariti trovavano spesso la morte durante il lavoro? Una questione politica che è anche, o soprattutto, un sentimento d’amore, di fratellanza, di coscienza di appartenenza ad un’unica specie (allora: classe). E perché, dunque, non sognare di riproporre questa esperienza di fratellanza anche oggi in piena globalizzazione e di neoliberismo? Non mancano certo i poveri, gli sfruttati, i dannati della terra.
Ma torniamo al territorio che per Ilardi è essenzialmente una questione politica (solo?): «senza conflitto e senza politica il territorio non esisterebbe, ma si rimarrebbe nell’ambito della natura e del paesaggio, questi sì, ma solo questi, da poter considerare in alcuni casi come beni comuni» (p. 24). E aggiunge: «È invece la proiezione immediata dei desideri non di una generica umanità ma degli individui, delle minoranze, dei gruppi che l’attraversano, lo frantumano in luoghi di appartenenza e lo trasformano in un’arena conflittuale dove i diversi particolarismi sono in continua lotta tra loro» (p. 25). Mi chiedo se questa definizione possa valere anche nel caso, per esempio, della Val di Susa: qui il conflitto non è tra i particolarismi degli abitanti ma tra quest’ultimi, formatisi in una vera comunità e i poteri forti che vorrebbero ridurre il territorio a bene economico (la solita legge capitalistica) a loro esclusivo vantaggio (pur affermando, appunto, che è in nome del cosiddetto progresso ciò che intendono fare). È vero che il territorio è attraversato da conflitti permanenti, ma questi sono tra chi quel territorio lo abita e chi lo intende solo come luogo di estrazione del valore. E in questo conflitto si gioca forse la libertà; libertà di chi lo cura, lo difende dalle aggressioni, dalle minacce ambientali contro l’atteggiamento predatorio che lo riduce a pura merce. E nelle città si consuma la stessa storia: tra immobiliaristi predatori pronti a versare colate di cemento in nome del profitto e chi ci si oppone per salvaguardarne l’uso anche per ragioni ambientali (che non sono da poco a considerare la gravità della questione). È emblematico in proposito ciò che sta avvenendo in questi giorni a Loznica, nella valle del fiume Jadar, nella Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina, dove sono esplose grandi proteste della comunità residente contro il progetto di sfruttamento della più grande miniera di litio dell’Europa. Minerale, il litio, utilizzato per la fabbricazione delle batterie delle prossime auto elettriche (e dunque, di nuovo per il progresso). Ma di episodi come questo c’è n’è un intero repertorio in tutte le parti del mondo: l’opposizione dei nativi al disboscamento della foresta amazzonica, ad esempio, l’opposizione alle grandi dighe nei paesi africani, e così via. Il conflitto sul territorio è la manifestazione ultima di un capitalismo che tende a ridurre a merce non solo il territorio ma l’intera biosfera, danneggiando irreversibilmente i suoi equilibri e producendo quella che è la più grande minaccia alla specie vivente: il riscaldamento del pianeta.
Altri spunti critici del libro. A proposito dell’architettura e dei nuovi quartieri di Roma (167), questa volta si condividono le parole di Ilardi: «Il progetto, dunque, come strumento critico che voleva trasformare la realtà, come tensione contro l’esistente, come giudizio sulla città alternativa della metropoli del mercato» (p. 47). Lasciamo stare per un momento le ragioni del loro fallimento. Resta il fatto che i progetti moderni non esprimono alcun pensiero di rappresentazione, ovvero la rappresentazione della pura estetica (cosa mai accaduta nella storia dell’architettura) o il trionfo dell’individualismo sociale (la villettopoli) come risposta alla tanto biasimata “residenza collettiva” di Corviale, Tor Bella Monaca, Laurentino 38.
Il libro di Ilardi sa descrivere con radicalità lo stato delle cose, non induce al politicamente corretto né al dilagante buonismo della politica, ma ne fornisce una restituzione parziale in cui gli impulsi di morte prevalgono su quelli della vita intesa come lotta per la giustizia e contro il predominio di pochi. Nessun esempio di questo tipo è riportato nel libro e c’è da ritenere che non sia una semplice trascuratezza. Di questi tempi, che rasentano l’orrore, la sua lettura è un buon antidoto contro i luoghi comuni, le false narrazioni, l’uso improprio di certe metafore (resilienza, conflitto costruttivo, ecc.). Semmai il mio modestissimo parere sarebbe quello di osservare tra le crepe del muro decadente. Dove il diavolo in genere si annida ma insieme alle manifestazioni di vita di coloro che scelgono quotidianamente di uscire da questo modello di morte.
Enzo Scandurra
N.d.C. - Enzo Scandurra, saggista, scrittore, già professore ordinario di Urbanistica, ha insegnato Sviluppo Sostenibile per l'Ambiente e il Territorio all'Università La Sapienza di Roma. Nello stesso ateneo è stato direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria per l'Architettura e l'Urbanistica. È tra i soci fondatori della Società dei Territorialisti, membro del comitato scientifico della rivista “Luoghi comuni” e collabora a "il manifesto".
Tra i suoi ultimi libri: Vite periferiche (Ediesse, 2012); con Giovanni Attili (a cura di), Il pianeta degli urbanisti e dintorni (DeriveApprodi, 2012); con Giovanni Attili, Pratiche di trasformazione dell'urbano (FrancoAngeli, 2013); Recinti urbani. Roma e luoghi dell'abitare (Manifestolibri, 2014); con Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017); Fuori squadra (Castelvecchi, 2017); con Ilaria Agostini, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018); Exit Roma (Castelvecchi, 2019), La disgrazia (Castelvecchi, 2020); con Ilaria Agostini e Giovanni Attili, Biosfera, l'ambiente che abitiamo. Crisi climatica e neoliberismo (DeriveApprodi, 2020); con Tiziana Drago, a cura di, Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche (Castelvecchi, 2021); con Piero Bevilacqua, a cura di, Roma. Un progetto per la capitale (Castelvecchi, 2021).
Per Città Bene Comune ha scritto: La strada che parla (26 maggio 2017); Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica (19 ottobre 2017); Periferie oggi, tra disuguaglianza e creatività (18 ottobre 2019); Nel passato c’è il futuro di borghi e comunità (5 marzo 2021); Roma, e se non capitasse niente? (16 luglio 2021).
Sui libri di Enzo Scandurra, v. i commenti di: Giancarlo Consonni, In Italia c’è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Francesco Indovina, Non tutte le colpe sono dell’urbanistica (14 settembre 2018); Renzo Riboldazzi, Agostini e Scandurra a Città Bene Comune. Le ragioni di un incontro (3 maggio 2019); Carlo Cellamare, Roma tra finzione e realtà (18 luglio 2019); Graziella Tonon, Città: il disinteresse dell’urbanistica (11 ottobre 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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