Renzo Riboldazzi  
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È TEMPO DI ROMPERE LE SCATOLE


Introduzione al convegno sul libro di Elena Granata



Renzo Riboldazzi


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Martedì 10 maggio, alle ore 18.00, Elena Granata sarà alla Casa della Cultura di Milano (via Borgogna 3, MM San Babila) per discutere dei temi del suo Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi 2021). A interloquire con l’autrice sono stati invitati Ilaria Mariotti – professore associato di Economia applicata del Politecnico di Milano –, Michele Talia – presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica – e Cino Zucchi – architetto e professore ordinario di Composizione architettonica e urbana del Politecnico di Milano –. L’appuntamento è il secondo della IX edizione di Città Bene Comune, convegno sulla città, il territorio, il paesaggio, l'ambiente e le relative culture interpretative e progettuali, curato da Renzo Riboldazzi, prodotto dalla Casa della Cultura in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e patrocinato dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), dalla Società Italiana degli Urbanisti (SIU), dalla Società dei Territorialisti/e Onlus (SdT) e dall’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe).

[la Redazione]

 

Le ragioni di un confronto

«È tempo di rompere le scatole. E pure gli indugi. Dobbiamo – scrive Elena Granata del suo Placemaker – lavorare sulle fratture che gli spazi urbani hanno incorporato passivamente, come se nessuna sintesi fosse possibile: tra ambiente e persone, tra paesaggio e corpo, tra vita quotidiana e tecnologia, tra lavoro e future generazioni, tra salute ed economia» (pp. 19-20). È forse qui, in queste poche righe, che si racchiude il carattere di una pubblicazione e, probabilmente, anche quello della sua autrice. Un’urbanista che fa della curiosità intellettuale uno dei suoi tratti distintivi. Che senza paure si avventura su sentieri – per lei e generalmente per quanti praticano le discipline che si occupano della città e del territorio – inesplorati della conoscenza. E che muove anche da lì, con passo deciso, per una riflessione a tutto tondo che deborda ampiamente dai saperi disciplinari per abbracciare ed accogliere amichevolmente prospettive inedite. Quelle che il più delle volte vengono tenute ai margini ricorrendo prevalentemente ad approcci appiattiti su una scientificità vera o presunta che guarda con sospetto alle emozioni, a quegli aspetti della vita che, invece, in fin dei conti riguardano tutti noi e giocoforza entrano in ciò che facciamo. Condizionandolo. Riorientandolo. Facendo scaturire l’imprevedibile.

Granata non teme di imboccare questa strada. E non teme neppure di mettere se stessa in questo libro. Non pensa che la narrazione di momenti della sua vita o quella dei suoi affetti (l’infanzia, il padre, le sorelle, i figli) sminuiscano il suo lavoro. Che lo rendano meno credibile agli occhi di lettori magari abituati a una letteratura (scientifica?) che difficilmente ammette che il quotidiano e ancor meno ciò che è personale, ciò che ci riguarda direttamente, entri nell’esplicitazione dei suoi risultati. E lo fa per almeno due ragioni. La prima è che i numerosi placemaker di cui tratteggia i ritratti hanno costruito luoghi, hanno voluto e potuto costruire luoghi che segnano uno scarto rispetto al preesistente, proprio attingendo strumenti interpretativi e idee progettuali dal pozzo della propria esistenza. Dalle esperienze della propria vita senza fare della nostalgia la cifra del proprio operare. La seconda è che per Granata stessa l’essere dentro e contemporaneamente il guardare da fuori momenti di una quotidianità personale e collettiva è un modo per includere nella riflessione sulla città e sul territorio, sui paesaggi o sulla società, temi e questioni che a uno sguardo puramente razionale probabilmente sfuggirebbero.

Il suo è dunque un “rompere le scatole” nel senso di tirare giù dagli scaffali delle cantine della nostra esistenza quei contenitori nei quali noi stessi – sulla base di logiche su cui si è fondata la nostra educazione, i costumi sociali, o un’idea di oggettività maturata con la modernità novecentesca – ritenevamo inutili, trascurabili, o perfino da occultare. Ma che soprattutto la pandemia – ciò che la pandemia ha incrinato, se non sgretolato, sul fronte dell’idea di scientificità e su quello della vita – ci ha in qualche modo invitato a riconsiderare. Per partire da lì e provare a leggere le cose in modo diverso. Anche lasciandosi scivolare sull’erba di scoscesi pendii della conoscenza senza sapere bene quando e dove riusciremo a fermarci. Semplicemente per il piacere di farlo. Per arrivare giù, in fondo, e da lì ripartire con un’incessante quanto ineludibile desiderio di capire. Con un’idea del sapere che non «ignora le relazioni e le comunanze tra i suoi vari campi, [che non] separa nettamente educazione ed esperienza, sapere e vita» (p. 17), corpo e mente, cultura e contesti.

Ciò che ne scaturisce è un libro che, come l’urbanistica contemporanea, è tante cose insieme. Un libro i cui contorni sono programmaticamente sfuggenti e difficilmente circoscrivibili perché, di fondo, si tratta di un affresco della realtà. Un libro per nulla neutrale, ma schierato e partigiano, i cui protagonisti sono, naturalmente, i placemaker: «persone che osano pensare di poter fare qualcosa che non è mai stato fatto prima, e soprattutto lo fanno» (p. 8). Quelli del passato (da Leonardo a Brunelleschi, da Aldo van Eyck a Jane Jacobs) e soprattutto quelli del presente. Che non sempre hanno nomi immediatamente evocativi (Daan Roosegaarde, Eva Koch, Florian Boer, Dava Newman, Neri Oxman, Bjarke Ingels, Elisabeth Diller, Corinne Letuppe, Yvonne Aki-Sawverr, Martina Kohler) ma vantano storie che testimoniano della possibilità di un 'fare città' che nulla ha a che vedere con la logica delle archistar. Quelle ossessionate dal lasciare l’ennesimo ‘segno’ gratuito (e nella maggior parte dei casi arrogante), imposto dal mercato e veicolato dai media. Logica che ha fatto dell’architettura non quell’arte di costruire le città di cui un visionario Camillo Sitte ci parlava già alla fine dell’Ottocento ma una sorta di scenografia del potere economico fine a se stessa. Che dietro all’esasperazione tecnologica e a forme stranianti difficilmente riesce a celare le disuguaglianze sociali e la crisi ambientale. Soprattutto l’incapacità di farsene carico.

Un libro dove c’è ovviamente la costruzione di luoghi, dove tuttavia le parole ‘costruzione’ e ‘luogo’ assumono valenze aperte, labili e variabili, che vanno ben oltre la dimensione fisica delle cose. Dove l’architettura e l’urbanistica sono chiamate a superare il «modello insediativo per recinti non dialoganti […] per ritrovare – sostiene Granata – un’idea di creatività che connetta, che amalgami, che sciolga, che confonda, che mescoli» (pp. 15 e 17) le cose e le culture. Dove sono invitate a superare approcci focalizzati sulla forma fisica per «riportare al centro [dell'] agire [progettuale] l’intangibile, la biodiversità degli ecosistemi, l’intelligenza dei mondi vitali» (p. 89). Un’architettura e un’urbanistica – così le vorrebbe l’autrice – tese a «ricostruire legami di tipo comunitario entro i quali la cooperazione sia ancora possibile, sanando la contrapposizione tra individui e comunità» (p. 83), tra società e ambiente, architettura e contesto. Dove come «sempre nella storia della città il nuovo nasce se c’è una certa dimenticanza del valore che le cose avevano nel passato» (p. 88).

Questo libro, poi, è un ritratto delle città e dei paesaggi dell’Italia in cui viviamo. Quella fatta di territori che da un lato «sono stati compromessi dall’urbanizzazione, da una ingorda fame di terreni edificabili, dall’ansia di trasformare la terra in rendite e guadagni» (p. 56), dall’altro soffrono di condizioni di abbandono, con tutto ciò che questo comporta. Un ritratto della vità che qui si scorre indifferente o sofferente. Della società. Della nostra idea di cultura. Una cultura che – sostiene l’autrice – oggi non può che essere ibrida, caratterizzata dalla «capacità di migrare da una disciplina all’altra, di stare al margine e sulla soglia del proprio sapere» (p. 18) perché – scrive – «è proprio la separazione e la distinzione dei saperi, anche la separazione tra saperi esperti e saperi tacici (quelli diffusi, sedimentati nei luoghi e nelle comunità) a costituire il più grande impedimento alla conoscenza» (p. 25).

Questo libro è una biblioteca, un invito alla lettura di libri ortodossi e perfino scontati o del tutto estranei alla cultura del progetto urbano e territoriale a cui un’autrice colta e assetata di conoscenza si abbevera invitandoci alla sua fonte. Penso a Francesca Gino e al suo Talento ribelle (Egea, 2019), a Joi Ito e Jeff Howe e al loro Al passo col futuro (Egea, 2017), a Edgar Morin e al suo La testa ben fatta (Cortina, 2000) a Jaime Lerner e al suo Urban Acupuncture (Isalnd Press, 2016), a Jan Gehl e al suo Cities for People (Island Press, 2010), ad Anna Lambertini e al suo Urban beauty! (Compositori, 2013) o a Timoty Beatley e al suo The Bird-Friendly City (Island Press, 2020). Questi e molti altri ancora sono, insieme a un'acuta osservazione della realtà, la base su cui Granata fonda le sue riflessioni.

Questo, dunque, è anche un libro sull’educazione alla curiosità intellettuale. E da qui sull’educazione vera e propria, quella che come genitori insegniamo ai nostri figli. L’educazione alla libertà. Per esempio, quella che senza pratiche costrittive Ziauddin Yousafzai ha saputo dare alla figlia Malala. E quella che come società impartiamo nelle scuole di ogni ordine e grado, spesso veicolando «un’idea di sapere che ignora le relazioni e le comunanze tra i suoi vari campi, in un clima culturale – scrive Granata – che separa nettamente educazione ed esperienza, sapere e vita, nella rigidità di un’istituzione scolastica che non si rivela più capace di rimuovere le disparità tra chi eredita un capitale culturale e chi – sottolinea – rischia di non accedervi mai» (p. 17). Un libro che si misura anche con la didattica universitaria, ne denuncia l’obsolescenza «devastante – secondo l’autrice – per le capacità creative, per sviluppare autonomia e senso critico nei ragazzi» (p. 73). Situazione che per quanto attiene le discipline del progetto architettonico e urbano «è – a suo dire – l’esito di una doppia crisi. La prima è la crisi dell’architettura come disciplina destinata a produrre manufatti e organizzare spazi. […] La seconda è la crisi di un modello di trasmissione del sapere e di un modello educativo, che non solo non sono più adeguati alle domande di questo tempo, ma sono addirittura fuorvianti» (p. 99). Oggi – sostiene Granata – le condizioni ambientali, il drammatico consumo di suolo che caratterizza molte aree del pianeta pretenderebbero di far «crescere una generazione di architetti che dis-urbanizza e de-cementifica, de-costruisce, demolisce e re-integra natura» (p. 33). Ovvero che facciano esattamente il contrario di quello che storicamente è stato il loro ruolo.

È un libro che parla di donne, della condizione femminile nelle università, nella pianificazione, nel governo di città e territori. Città guidate da quello che per anni abbiamo chiamato “sesso debole” come «Parigi, Barcellona, New Orleans – osserva – dal punto di vista politico non sono un premio di consolazione ma sanciscono decisamente un salto di scala. Non vale più la semplice corrispondenza donne-microcomunità: per la prima volta – scrive Granata – le donne dimostrano di saper esprimere un pensiero strategico e logiche di tipo macroeconomico, di saper gestire emergenze sanitarie e visioni di lungo periodo» (p. 69). Peccato solo che ci sia ancora il bisogno di sottolinearlo.

Questo, per concludere, è un libro che indica una o molte strade per il futuro, anche troppe. Un accorato invito ad abbattere gli steccati disciplinari rimettendo al centro del nostro agire, qualunque sia il nostro lavoro, «il piacere dell’invenzione, la trasgressione creativa, la capacità di tenere insieme arte e scienza, strategia e coraggio, e soprattutto – scrive l’autrice – quella necessaria ironia che non dovrebbe mai mancare» (p. 10).

 

Qualche elemento di discussione

Il bel libro di Elena Granata – così come quello di Ezio Manzini di cui abbiamo discusso alla Casa della Cultura martedì scorso e, probabilmente, come tutti i libri scritti con passione e intelligenza e letti con attenzione e interesse – suscita diverse riflessioni. Ne poniamo qui alcune come possibile elemento di discussione. La prima riguarda il rapporto tra invenzione e sapere. La seconda quello tra partecipazione e progetto. La terza attiene, seppur in senso lato, la relazione con il passato e ciò che nel passato è stato prodotto.

1. Invenzione e sapere. Nella storia della scienza ma, direi, nella storia dell’umanità sono molte le invenzioni che ne hanno perfino cambiato il corso maturate all’esterno di quelli che in quel momento storico erano considerati i confini di una specifica disciplina. La stessa nascita dell’urbanistica moderna è riconducibile a figure per molti versi estranee a questo sapere. Non lo era – per citare un caso tra molti – Ebenezer Howard (1850-1928), fondatore, presidente e spirito guida dell’International Federation for Housing and Town Planning: uno degli ambiti di dibattito più importanti nel processo di maturazione disciplinare. Howard in gioventù era stato un fattorino e, per un lungo periodo della sua vita, visse del suo lavoro di stenografo. L’autore di un saggio fondamentale per la cultura urbanistica del secolo scorso – Tomorrow, a peaceful path to real reform (1898) ristampato nel 1902 col titolo Garden cities of tomorrow – che attraverso numerose traduzioni ebbe una larga diffusione soprattutto in Europa e negli Stati Uniti e soprattutto l’ideatore di un modello insediativo – quello della città giardino – che ha fortemente condizionato la cultura urbanistica del Novecento, non era cioè propriamente un urbanista e tantomeno un architetto o un ingegnere, ma si era avvicinato alle questioni urbane sollecitato forse da una personale sensibilità verso problemi di carattere sociale ed economico di cui, evidentemente, aveva intuito i nessi. Questo, tuttavia, a nostro giudizio non deve lasciar intendere che è sempre e solo fuori dagli ambiti disciplinari che le buone invenzioni maturano. Da Ildefonso Cerdà – a cui la stessa Granata nel libro fa riferimento – in avanti, la storia dell’urbanistica moderna è ricchissima di placemaker nel senso in cui l’autrice li intende, ovvero di figure che si sono trovate dover affrontare determinate situazioni e lo hanno fatto con gli strumenti normativi e culturali che avevano a disposizione, usandoli con intelligenza e creatività e magari anche forzando un po’ le cose verso la direzione perseguita. Conoscere dal di dentro e in profondità le scienze, le arti o le pratiche – conoscerne le tecniche o gli esiti – non è necessariamente qualcosa che castra la creatività di chi in quel campo e con queste si cimenta, qualcosa che impedisce di trovare una soluzione innovativa ma soprattutto adeguata. Al contrario, è qualcosa che aiuta. Così come aiutano le altre culture da cui possiamo attingere approcci, metodi, filosofie. Come aiutano l’intuito e l’intelligenza. O semplicemente la fortuna. Nel campo dell’arte non è solo la sperimentazione priva di tecnica che ha consentito la produzione di opere importanti per l’umanità. Il più delle volte è esattamente il contrario. Lo stesso può dirsi per la medicina. O per l’ingegneria. E lo stesso dovrebbe valere per l’urbanistica, una disciplina dove invece la sedimentazione del sapere non sempre è fondamento per ulteriori avanzamenti culturali. Dove i successi o gli errori di certi approcci progettuali faticano spesso – per molte ragioni che andrebbero attentamente indagate – a farsi bagaglio su cui fondare le scelte future, a diventare il trampolino dell’invenzione.

2. Partecipazione e progetto. Sul rapporto tra partecipazione e progetto – sappiamo – la letteratura è ampia. Così come lo sono le esperienze di questi ultimi decenni a differenti scale del progetto. Granata stessa in più punti del libro sottolinea l’importanza di mettere in campo pratiche partecipative quando si avviano processi e progetti di trasformazione urbana e territoriale. Ora, non c’è dubbio che la partecipazione, se ben strutturata e se utilizzata laicamente e lealmente, in modo non strumentale per altri fini di natura politica o economica, sia un buon modo per conoscere determinate situazioni urbane o territoriali e per mettere a fuoco piani e progetti che, almeno in linea di principio, avranno una maggiore possibilità di successo perché maturati in modo condiviso in uno specifico contesto. Lo stesso dicasi per altre pratiche, come quelle riconducibili all’urbanistica tattica di cui l’autrice illustra le potenzialità. Al tempo stesso, tuttavia, questo suscita alcuni interrogativi. Per esempio, sul ruolo dell’urbanista in tali processi. Sul modo con cui una stratificazione di saperi disciplinari – che dovrebbe includere la conoscenza degli esiti positivi o negativi di certe scelte – potrebbe/dovrebbe contribuire alla definizione di piani e progetti. Su come garantire gli interessi di quanti non vogliono o non possono partecipare (e che, pure, hanno tutto il diritto di essere rappresentati). O gli interessi delle future generazioni (ovvero di chi verrà dopo quanti stanno prendendo una decisione in quel momento). Quelle assunte nell’ambito di processi partecipativi sono, spesso, scelte legate a una contingenza, che soddisfano in tutto o in parte quanti hanno preso parte al processo decisionale e non necessariamente sono inquadrate in una progettualità di ampio respiro che tiene conto di problemi complessi. Problemi che difficilmente uno sguardo “dal basso” – utilizzo un’espressione che, così come la sua opposta, dovremmo cercare di abbandonare – riesce a mettere pienamente a fuoco. I temi e le questioni che la nostra società si trova ad affrontare – in primis tutto ciò che attiene l’ambiente – richiedono una visione che sappia affrontarli da una prospettiva temporale di lungo periodo che sia fondata su saperi di cui si conoscano i limiti e le potenzialità, che – pur in grado di intercettare ciò che i contesti fisici e sociali esprimono – sappia condurre la navigazione verso un porto sicuro. Questo, anche percorrendo nuove rotte ma sfruttando ciò che il mare e il vento da secoli ci hanno insegnato.

3. Il rapporto con il passato. In più punti del libro, l’autrice parla di “innovazione radicale”, della necessità di mettere in campo qualcosa di “completamente nuovo” o di “radicale rottura”. Se pensiamo agli impatti dell’uomo sull’ambiente, anche per quanto attiene più strettamente le discipline del progetto urbano e territoriale, non possiamo che concordare pienamente con Elena Granata. Il consumo di suolo e l’alterazione degli equilibri ecosistemici a cui l’autrice fa più volte riferimento nel libro ci impongono di imboccare una strada diversa senza ulteriori indugi. Impone cioè, anche agli urbanisti, di prendere coscienza di una situazione drammatica e di immaginare modi di praticare il progetto e il governo del territorio che costituiscano un contributo alla sua soluzione. E molti effettivamente lo stanno facendo. Al tempo stesso, la storia ci insegna che la radicalità di certi approcci progettuali non sempre ha condotto a risultati positivi. Non lo sono, per esempio, gli esiti della “radicale rottura” con il passato praticata nella pianificazione urbanistica moderna. Si pensi, per fare un solo esempio, al Plan Voisin di Le Corbusier della metà anni Venti e agli impatti di tale approccio progettuale sulla cultura urbanistica del Novecento. “L’innovazione radicale” – pur legittimata da tutta una serie di ragioni igieniche, economiche e sociali che avevano un loro fondamento e, diciamolo, neppure tutta riconducibile a un’evoluzione della cultura del progetto urbano – dal punto di vista della costruzione dello spazio pubblico, di quell’arte di costruire le città che per secoli aveva prodotto nelle città europee luoghi belli e ospitali di cui ancora oggi possiamo godere, ha finito per gettare alle ortiche un sapere secolare che tutt’oggi avrebbe qualcosa da insegnarci. Questo per dire che non tutto della cultura urbanistica sedimentata negli ultimi due secoli è da buttare. Pur riconoscendone i limiti e le significative distorsioni, se questo sapere – dal punto di vista culturale, normativo o progettuale – non fosse stato messo in campo forse le cose per il territorio e l’ambiente in cui viviamo sarebbero andate anche peggio. Non c’è dubbio che la pianificazione in molti casi abbia assecondato – così come l’economia, la politica o la pubblica amministrazione – fenomeni speculativi a danno dell’ambiente e della società. Sappiamo bene che ciò avviene anche ora, in un periodo in cui la rendita immobiliare (non l’ambiente, non la salute o la felicità dei cittadini) ha un peso rilevantissimo nel determinare le trasformazioni urbane e territoriali. Tuttavia, è anche vero che – letta da una prospettiva di lungo periodo e, lo ripetiamo, pur avendo bene in mente errori e distorsioni che non possiamo più accettare – questa disciplina è stata un argine verso quei problemi che oggi ci troviamo ad affrontare. Forse, insieme al cambiamento radicale dovremmo pensare anche a un cambiamento incrementale, che sappia fare tesoro di successi e distorsioni e che prevenga il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca.

Renzo Riboldazzi

 

 

 

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

06 MAGGIO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

ideazione e direzione scientifica (dal 2013):
Renzo Riboldazzi

direttore responsabile (dal 2024): Annamaria Abbate

comitato editoriale (dal 2013): Elena Bertani, Oriana Codispoti; (dal 2024): Gilda Berruti, Luca Bottini, Chiara Nifosì, Marco Peverini, Roberta Pitino

comitato scientifico (dal 2022): Giandomenico Amendola, Arnaldo Bagnasco, Alessandro Balducci, Angela Barbanente, Cristina Bianchetti, Donatella Calabi, Giancarlo Consonni, Maria Antonietta Crippa, Giuseppe De Luca, Giuseppe Dematteis, Francesco Indovina, Alfredo Mela, Raffaele Milani, Francesco Domenico Moccia, Giampaolo Nuvolati, Carlo Olmo, Pier Carlo Palermo, Gabriele Pasqui, Rosario Pavia, Laura Ricci, Enzo Scandurra, Silvano Tagliagambe, Michele Talia, Maurizio Tira, Massimo Venturi Ferriolo, Guido Zucconi

cittabenecomune@casadellacultura.it

 
 

 

 

Conferenze-dialoghi

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2018: Cesare de Seta
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2019: G. Pasqui | C. Sini
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2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
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Incontri-convegni

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1
 
 

 

Autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)