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Terrains vagues, friches, délaissés, vuoti urbani, aree dismesse, spazi in stand-by, in-betweens, anyplaces, urban wastelands, loose spaces, territori attuali…: negli ultimi due decenni almeno, un intero vocabolario si è sviluppato per designare la costellazione di spazi interstiziali a vario titolo presenti nel tessuto urbano. Considerato in prospettiva storica, cioè secondo i tempi lunghi delle trasformazioni economiche e sociali della città – che altresì, pressoché sempre, implicano altrettanti tempi morti, incertezze, sparizioni, riemersioni, contrattempi… – l’interstizio appare come una formazione sintomatica dei modelli urbani dominanti. Nell’interstizio, in altre parole, sembra per così dire registrarsi il “calco negativo” della città – non a caso, infatti, l’urbanesimo contemporaneo è stato definito come “frammentario” o “a schegge” (Graham & Marvin 2001): epitome di un paesaggio fratturato, “scentrato”, l’interstizio evoca un elemento perturbante (unheimlich, uncanny…) che, come un fantasma revenant e un rimosso psicanalitico, che non si riesce davvero mai a rimuovere (Vidler 1992), sembra non voler lasciare in pace la città. Come ha scritto recentemente al proposito Cristian Silva, gli spazi interstiziali vanno in ultimo riconosciuti come “una componente integrale della condizione urbana” (2022: 4).
Dopo un’intera stagione in cui si sono potuti denunciare tutti i limiti della pianificazione modernista, la sua insensibilità tecnocratica e livellante, insieme al suo brutale centralismo burocratizzato (e mi riferisco ad autori che vanno quantomeno da Guy Debord a Ivan Illich, da Colin Ward a James C. Scott), si è inevitabilmente cominciato ad averne anche un po’ di nostalgia, quantomeno a fronte all’avanzare di un modello urbano sempre più improntato al mero privatismo e all’arroganza dello strapotere economico (vedi ad es. Atkinson 2021 per il caso emblematico di Londra). Il modernismo, quantomeno, prometteva un orizzonte di realizzazione egualitaria dei cittadini – sebbene solo dopo averli “formattati” e ricondotti entro uno schematismo di bisogni standard, quasi formulario preconfezionato da riempire. Eppure, in altro senso, dovremo riconoscere che è stata la medesima caduta del modernismo architettonico a darci la possibilità di rilevare come, al di là della pianificazione, accanto e al di sotto dello sforzo prometeico di disegnare e governare la città, quest’ultima continuava a vivere e a svilupparsi quale processo indipendente, pressoché naturale – di qui, tra l’altro, l’attuale rifiorire delle metafore e dei registri del “metabolismo urbano”, delle “nature urbane” etc. Nell’invisibilità della vita quotidiana, nelle “pieghe” dei suoi spazi, una molteplicità di protagonisti poco considerati – bambini, anziani, graffitisti, homeless, queer, busker, urbexer, ortiche, funghi, conigli, raccoon, coyote… – attendeva alla creazione spazi capaci di ospitare nuove e inedite forme di vita.
Ignasi de Solà-Morales disse del terrain vague – di cui fu il primo teorico – che si trattava di uno spazio “in attesa, imprecisa e fluttuante” (1995: 122); la prospettiva dell’“attesa”, però, ancora evocava un’escatologia modernista, dai toni vagamente metafisici, non del tutto in grado di intercettare l’immanenza dei processi in corso in una loro piena positività ben oltre qualsiasi teleologia, salvifica o meno. Per questo, forse, il gruppo Stalker (poi osservatorio nomade) evocò, in modo più pertinente, l’insieme arcipelagico di quelli che chiamò i “territori attuali della metropoli” (Careri 2002). Nel loro essere luoghi di sospensione dell’ordine temporale ufficiale, gli interstizi attivano possibilità esplorative che rinviano alle mille contingenze del processo urbano, ai mille tatticismi diffusi attraverso il dominio pubblico, nei suoi risvolti materiali e immateriali. Possiamo perciò dire che la tradizione dell’interstizio fa a pieno titolo parte di quella “tradizione degli oppressi” così centrale per la filosofia della storia di Walter Benjamin – come le urban prairies delle gang giovanili studiate dai primi etnografi di Chicago, o la “zona” nei pressi di Autueil, in cui Michel Leiris intravvide l’irrompere numinoso del “sacro nella vita quotidiana”. In altre parole, l’interstizio è per natura “evento”: incontro, novità, spesso ingegnosità e in qualche modo, resistenza, scarto, “gioco”, avventura.
La sfida oggi è cogliere questo insieme complesso di stati metamorfici della materia urbana, insieme alle “transizioni di fase” che vi si profilano e ai processi di valorizzazione che costantemente vi si producono (un “valore” che si contrappone nettamente al denaro della speculazione urbana), al fine di sviluppare un vocabolario più sensibile, più sottile, con cui comprendere e interpretare il divenire della città. Un libro come Urban interstices in Italy. Design Experiences, curato da Bertrando Bonfantini e Imma Forino (Lettera Ventidue, 2021), va decisamente in questo senso. Il volume mostra bene quanto la prospettiva dell’interstizio possa aiutare a trasformare ciò che era un problema in una risorsa – come d’altra parte abbiamo appreso a fare, da piccoli, dal barone di Münchhausen, il quale si estraeva dalla palude tirandosi per il proprio stesso codino.
Il gruppo di designer coordinati da Bonfantini e Forino si pone sulle tracce dei territori “vaghi” di una città inevitabilmente ampliata a scala territoriale, al fine di comprenderne e valorizzarne la valenza interstiziale. I progetti presentati sono molteplici e variegati, proponendo interventi tanto in aree interne marginali (come Borgo Serrucce, sugli Appennini tra Bologna e Firenze, nel progetto di Camposaz, o Santa Lucia di Serino in provincia di Avellino, nel progetto di 32mq Design Studio) quanto in luoghi più classicamente “periferici” (come il progetto di Labics per una piazza a Rozzano, a sud di Milano), o ancora in luoghi caratterizzati da una giuntura spesso non facile tra antico e contemporaneo (come Via Brisa e Via Gorani a Milano), quanto infine attraverso un insieme di proposte per interventi “microscopici” (come l’edicola di 4mq a Perugia progettata da Emergenze) e/o “temporanei” (come lo SportBox progettato da NOWA o il progetto Prossima Apertura ad Aprilia, in provincia di Latina, firmato dal gruppo Orizzontale) in grado vivacizzare la vocazione pubblica della città, la sua vocazione sempre sorprendente e innovativa.
Dell’interstizio si terrà sempre presente che esso è tanto “di spazio” quanto “di tempo”, in grado dunque per sua natura di generare un “ritmo” idiosincratico – fosse anche un ritmo che, per così dire, “accade una sola volta”: l’interstizio è, spesso, la vera firma del luogo. I saggi di Bonfantini e Forino mettono ben in evidenza questi aspetti e, nel volume, sono accompagnati da una riflessione di apertura di Sergio Lopez-Pineiro e da una conclusiva di Ali Madanipour, entrambi urban designer molto noti a livello internazionale. Ma ciò che sicuramente contribuisce alla particolarità e al pregio di questo libro è l’approccio “hands on”, che si sviluppa attraverso la pluralità di casi di studio e di interventi architettonici proposti, ricostruiti con puntuali schede e interviste ai designer realizzate da Michela Bassanelli e Madalina Ghibusi. Uno sguardo d’insieme a questo stimolante titolo restituisce bene l’idea che l’interstizio possa essere oggi, oltre a un fenomeno di per sé significativo della città e del territorio, anche un vero e proprio metodo di lavoro per la scienza sociale e il disegno urbano.
Andrea Mubi Brighenti
Riferimenti Atkinson, R. 2021. Alpha city: How London was captured by the super-rich. London: Verso Books. Careri, F. 2002. Walkscapes. El andar como práctica estética. Barcelona: Gustavo Gili. Graham, S. & Marvin, S. 2001. Splintering Urbanism. London: Routledge. Silva, C. 2022. The Interstitial Spaces of Urban Sprawl. London: Routledge. Vidler, A. 1992. The architectural uncanny: Essays in the modern unhomely. Cambridge, MA: MIT Press.
N.d.C. Andrea Mubi Brighenti è professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento. Ha fondato il periodico online lo Squaderno (www.losquaderno.net).
Tra i suoi libri: Territori migranti (ombre corte, 2009); Visibility in Social Theory and Social Research (Palgrave Macmillan, 2010); The Ambiguous Multiplicities: Materials, episteme and politics of some cluttered social formations (Palgrave Macmillan, 2014); Teoria Sociale. Un percorso introduttivo (Meltemi, 2020); (with Mattias Kärrholm) Animated Lands. Studies in Territoriology (University of Nebraska Press, 2020).
Suoi articoli sono comparsi sulle pagine di numerosi periodici internazionali: “Theory, Culture & Society”; “Culture, Theory and Critique”; “Critical Inquiry; Thesis Eleven”; “Distinktion – Journal of Social Theory”; “Social Science Information”; “Current Sociology”; “Contemporary Social Science”; “Sociologica”; “The Journal of Classical Sociology”; “The European Journal of Social Theory”; “Critical Sociology”; “Time & Society”; “Space and Culture”; “Visual Studies”; “Urban Studies”; “Surveillance and Society”; “Social & Cultural Geography”; “Territory, Politics, Governance”; “The Journal of Urbanism”; “The International Journal of Law in Context”; “Law and Critique”.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 27 MAGGIO 2022 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
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R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)
S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)
D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)
F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)
E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)
A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)
M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)
V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)
M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)
G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)
E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)
C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)
A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)
R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)
G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)
G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)
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