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La selezione di scritti di Carlo Doglio, proposta da Stefania Proli, rientra nel percorso di riscoperta di figure singolari di “esperti” che hanno scelto di operare all’interno di quelle correnti autonome dell’impegno sociale, costituite dai movimenti e gruppi componenti la fitta rete di minoranze attive che hanno promosso esperienze di sviluppo di comunità dal basso, dal dopoguerra e lungo tutti gli anni Sessanta del secolo scorso. A questo periodo sostanzialmente si riferiscono gli scritti contenuti nell’antologia Il piano aperto (Elèuthera, 2021). Si tratta di esperienze che hanno spaziato in modo originale – come ha sottolineato Giulio Marcon nel suo Le utopie del ben fare (l’ancora del mediterraneo, 2004) – dalle pratiche del pacifismo e della nonviolenza alla pedagogia, dall’azione sociale all’antiautoritarismo dell’educazione cooperativa, dalle sperimentazioni di autorganizzazione comunitaria alla costruzione di un modello di sviluppo territoriale basato sulla spinta di energie prodotte dall’interno, collettive. Il filo rosso che le lega è costituito sia dal configurarsi degli “ambiti di vita” e dei processi di riproduzione sociale quali contesti di sperimentazioni sociali e politiche più radicali e innovative, sia da un insieme di valori e principi che trovano il proprio humus nella tradizione socialista e anarchica, nelle sue differenti declinazioni (municipalista, libertaria, personalista e comunitaria). Entro questa tradizione, caratterizzata da un pluralismo originario di idee e scuole, si possono rintracciare contributi teorici e pratiche che hanno cercato di delineare una via alternativa alle opposte derive dell’individualismo del mercato, dell’egemonia dei partiti di massa e dello statalismo. E si tratta di figure, quali Doglio, che si sono confrontati con questa tradizione, hanno incrociato diverse di queste esperienze e sono poco conosciute tra quanti si occupano di urbanistica e pianificazione territoriale, non rientrando tra gli esponenti storici dell’élite accademico professionale. È quindi interessante sia la riscoperta di questa figura, sia comprendere le motivazioni della scelta degli argomenti, tra i vari sviluppati da Doglio, da parte di una nuova generazione di studiosi e di aspiranti professionisti.
In questi scritti la curatrice riconosce un’anticipazione di temi che oggi sono al centro dell’attenzione di chi si appresta a intraprendere, “con passione”, l’attività professionale come urbanista. Tra questi la partecipazione, il bene comune, la co-progettazione, la collaborazione, la cura condivisa. Temi che nelle esperienze alle quali Doglio ha partecipato e nella sua riflessione teorica sono compresenti e rientrano in una concezione dello sviluppo in cui “non è l’economia che traina il sociale, ma il contrario”, in cui “per fare sviluppo occorrono processi di autocoscienza e di autopropulsione, non interventi dall’alto”. E non sorprende che questa sia la frase apposta in copertina di un recente lavoro di Giuseppe De Rita – Il lungo Mezzogiorno (Laterza, 2020) – in cui sono espressi i principi che l’autore, che ha iniziato a occuparsi di Mezzogiorno alla Svimez, ha sempre tenuto in mente studiando questa parte del paese.
È in una regione del Mezzogiorno, la Sicilia, che Doglio inizia il suo percorso di “immedesimazione” con il territorio, spinto da un vivo interesse a farne parte, dove può mettere alla prova le idee e abilità che ha acquisito in precedenti esperienze, a Ivrea e a Londra. In una delle zone più neglette della Sicilia, dove sui più deboli si esercitano la sopraffazione e la violenza delle istituzioni e della mafia e le condizioni abitative e di vita erano indegne di un paese civile, raggiunge Danilo Dolci, impegnato da alcuni anni nella costruzione di un progetto di sviluppo comunitario, attraverso il metodo e la pratica della nonviolenza attiva, dell’indagine-azione, per intervenire sulla realtà infrangendo forme di dominio “naturalizzate”. Qui la grande sfida con cui Doglio sceglie di misurarsi è la costruzione di un piano di sviluppo organico delle aree depresse della Sicilia centro-occidentale. Un piano che sarebbe dovuto scaturire da un’iniziativa sociale dal basso, perché solo questa avrebbe potuto avere carica di soggetto attivo dello sviluppo, a partire da un’idea di sviluppo come processo che avrebbe dovuto innestarsi nella storica articolazione della società con il territorio, in cui il primato era assegnato alla dimensione territoriale e privilegiata doveva essere l’iniziativa sociale. Ciò in netta contrapposizione con l’idea di sviluppo allora dominante, espressa in un testo delle Nazioni Unite – The Conditions of Economic Development, 1952 – per anni ritenuto fondamentale dagli “esperti” (tecnici ed economisti in primis), il quale ha avuto un effetto pervasivo sulle politiche e sui progetti per il Mezzogiorno. Come rammenta ancora Giuseppe De Rita, nella prefazione al testo di Giorgio Ceriani Sebregondi – Sullo sviluppo della società italiana (Donzelli, 2021) – le indicazioni contenute in quel compendio, volte a promuovere standard di vita più elevati, la piena occupazione e le condizioni di progresso e sviluppo economico e sociale delle aree depresse, delineavano, “con crudele etnocentrismo occidentale”, un primato dell’industrializzazione che si sarebbe potuto ottenere solo con “l’abbattimento di tutte le barriere che a tale primato poneva il tessuto precedente di storia, soggetti sociali e assetti territoriali”. In questa prospettiva la responsabilità doveva essere del potere politico e il soggetto generale dello sviluppo non poteva che essere lo Stato (la Cassa per il Mezzogiorno, le partecipazioni statali). Come sappiamo dall’evoluzione della “questione meridionale”, l’esito, dopo soli pochi decenni, della volontà dello Stato di fare tabula rasa della preesistente cultura e storia delle aree arretrate, per creare in esse sviluppo e industrializzazione, con i relativi prerequisiti, sarebbe stata la crisi irrevocabile della politica dell’intervento pubblico. E, oltre ad essa, la formazione di una cultura dell’assistenza, dei sussidi, la grande emorragia di popolazione emigrata verso le aree del Nord, il proliferare dell’affarismo, del clientelismo e il consolidarsi delle organizzazioni criminali.
Al primato dell’approccio economicista, al dirigismo e all’interventismo statale, considerati come mezzi per aumentare il domino dei monopoli (politici, economici e finanziari), Doglio contrappone l’approccio territoriale. Un approccio empirico, attento al particolare perché rispettoso della molteplicità delle manifestazioni della vita, delle differenziazioni dei vari contesti, che mette a punto nel corso dell’esperienza siciliana ed è restituito, con la sua singolare quanto vivida scrittura narrativa, nei testi Dal paesaggio al territorio. Esercizi di pianificazione territoriale (Il Mulino, 1968) e La Fionda sicula. Piano dell’autonomia siciliana (Il Mulino, 1972), scritto con Leonardo Urbani. Quest’ultimo, che ha la presunzione di essere “un’opera globale sulla Sicilia”, rappresenta – come giustamente precisa Stefania Proli – “il tentativo più maturo di enunciazione di una teoria della pianificazione urbanistica e territoriale”, in cui Doglio rielabora le riflessioni di anni di lavoro di immersione nel contesto e “in cui le proposte di assetto territoriale si fondano con la narrazione storica e l’indagine sociale”. Del progetto per un nuovo piano di sviluppo della regione, Doglio continua, infatti, a occuparsi anche dopo essersi trasferito a Bagheria, cessata la collaborazione con Dolci, sia attraverso l’incarico – con Leonardo Urbani – da parte dell’Unione delle Camere di commercio della Sicilia, per svolgere ricerche sulla situazione della pianificazione nell’isola e studi e proposte per il piano regionale, sia con la partecipazione alla fondazione del Centro di pianificazione territoriale Eduardo Caracciolo (Ce.Pi.Ter), presso la facoltà di architettura di Palermo. Ne La Fionda sicula, Doglio esplicita la propria originale interpretazione dell’approccio “organico” alla pianificazione. Un approccio che mette in relazione i fatti umani, il loro esprimersi in forme materiali e culturali con il territorio in cui gli stessi si producono, che pone al centro dell’attenzione il rapporto tra società locali e ambiente, dal suo costituirsi ai suoi sviluppi nella storia. La logica del nuovo modo di intervenire, si legge nel testo, “si dirama appunto conferendo anzitutto una declinazione ‘storica’ delle zone delle quali ci si occupa, valida perché sottolinea i modi in cui nei tempi si relazionarono uomini e territori”.
In questo approccio espliciti sono i riferimenti alle tradizioni regionalista e anarchica delle quali vengono valorizzati gli intrecci entro una riflessione che da Reclus e Kropotkin, attraverso Geddes, giunge a Mumford. Così come esplicita è l’individuazione nel socialismo libertario della dimensione che gli consente di coniugare l’istanza di comunità con l’esercizio della nonviolenza. Secondo Doglio, infatti, il piano “deve essere un piano socialista, di un socialismo libertario che pone il decentramento, il regionalismo, il sociale, la nonviolenza al di sopra di qualsiasi take-off caro ai tecnici dello sviluppo”. E deve necessariamente essere anche “un piano aperto, flessibile, continuamente ricontrollato e riconfermato dalla realtà, continuamente ricreato dall’azione degli uomini sulle cose e delle cose sugli uomini”. Nella dimensione del socialismo libertario si iscrive l’azione di piano che è in grado di promuovere pratiche di autosviluppo locale, a partire dalle specifiche vocazioni dei territori, valorizzando i “talenti”, ossia le energie presenti nella società – anche se per lo più latenti, trattandosi di territori rimasti abbandonati dalla logica dello sviluppo dominante – la disposizione alla cooperazione a all’azione solidale al fine di liberare queste energie. L’azione liberatrice è solo “aiutata” dagli esperti. L’opera di “tramutazione” deve essere svolta dalla società.
La fionda, metafora che allude alla pianificazione organica, è costituita dai territori della Sicilia centromeridionale (dalle valli del Belice, del Platani e del Salso, alla conurbazione di Palermo e al golfo di Castellamare) i quali, trasformati da azioni di piano che prefigurano uno “sviluppo per valle”, valorizzando le risorse naturali, le vocazioni e le capacità produttive dei differenti contesti e stimolando l’azione cooperativa della popolazione, diventano “punti di forza territorializzati” (le corde elastiche) di una struttura salda e aggregata che non subisce pressioni dall’esterno (la forcella).
Il sasso è rappresentato dal Corleonese, interessato da una pianificazione non di struttura, di impostazione tecnocratica, ma per “fuochi, che ora qui, ora là si accendono”. Suggestione formale, quella delineata, che è “nutrita di realtà specifiche, di disponibilità autentiche”: essa appare “come una maglia ineffabile che a poco a poco ‘sale su’ dal basso della realtà territoriale e dalla volontà di tramutazione delle popolazioni”. E dal basso, dalla libera aggregazione e federazione di comunità, definisce nuove forme di amministrazione – i “comprensori mutevoli” – e di gestione in grado di coordinare i processi di trasformazione per linee, zone e punti. Questi ultimi costituiscono gli elementi di base che caratterizzano l’orientamento operativo della pianificazione organica.
Le linee non sono necessariamente legate alle infrastrutture viarie, come nella pianificazione tradizionale. Esse sono via via individuate nelle facilitazioni topografiche, nelle preesistenze di scambi sociali, quali quelle rese possibili storicamente dal corso di fiumi o da tracciati viari che si sono consolidati come matrici di sviluppo. Sono premessa al mezzo tecnologico e alle infrastrutture che le renderanno operative e “si stemperano e raggrumano” in fatti insediativi attraverso processi di irraggiamento delle influenze di una determinata politica economica.
Le zone sono ambiti territoriali che presentano una maggiore omogeneità nelle destinazioni d’uso, quali ad esempio gli ambiti agricoli, quelli caratterizzati da particolari preesistenze paesaggistiche e quelli dove sono presenti maggiori concentrazioni di attività produttive. I punti sono invece luoghi di particolare rilevanza territoriale, che possono irraggiare energie sul territorio, come le aziende industriali o agricole particolarmente vitali, i centri culturali, amministrativi e commerciali e il patrimonio storico.
In questo sforzo di sistematizzazione teorica, un’attenzione particolare viene rivolta alla precisazione sia del metodo di pianificazione, sia del significato di alcuni termini rilevati e distintivi del nuovo approccio. Innanzitutto, una pianificazione organica e non violenta si prefigge di promuovere il coordinamento degli elementi produttivi esistenti, ridisegnando i tratti fisiognomici della produzione industriale e di quella agricola, e un assetto più equilibrato e attrezzato delle zone urbanizzate. Deve, quindi, necessariamente procedere per gradi e differenze, in modo incrementale, con azioni di “paziente ricucitura”, correlando tra loro e rafforzando le diverse iniziative produttive esistenti, secondo una logica prevalentemente conservativa, e individuando le occasioni di reciproco potenziamento tra i settori industriale e agricolo, industriale e turistico e ancora tra quest’ultimo e quello agricolo. Essa deve anche favorire il raggiungimento di una giusta dimensione aziendale, superando la frantumazione prevalente delle attività e delle proprietà, e incentivare lo sviluppo di nuove forme societarie cooperative o collettive-comunitarie. Nella prospettiva delineata, l’ente di governo locale, il comune, non si limita più a svolgere una mera funzione amministrativa ma diventa promotore di sviluppo, in sinergia con altri comuni del comprensorio che, interagendo tra loro possono dare luogo a “quadri tensionali”. Dove la tensione non è condizione che deriva da uno squilibrio volutamente prodotto, bensì “suggestione di azione”, sforzo che libera capacità da situazioni di stagnazione. E il comune può così tramutarsi progressivamente in ambito di azione sociale collettiva.
Sempre in questa prospettiva assumono un differente significato in particolare le definizioni di sviluppo e di economia, oltre a quella di governo locale. Lo sviluppo, richiamando la concezione di padre Louis-Joseph Lebret – ideatore del movimento Economie et Humanisme, studioso dei problemi dello sviluppo delle aree arretrate, e molto impegnato nel dibattito sul Mezzogiorno d’Italia – è inteso come “incremento continuo, armonico degli elementi già esistenti nel territorio, per mezzo di soluzioni tecniche congruenti al fine di uno sviluppo umano e sociale”, che si avvale del “momento economico” ma non si esaurisce in esso. Coerentemente a questa concezione dello sviluppo organico e nonviolento, l’economia non può che essere “orientata alla vita”. Quindi non basata sulla competizione, sulla concorrenza e sull’istituzionalizzazione delle strutture proprietarie (private o dello Stato), bensì cooperativa e “partecipazionista”, creativa e non consumistica, fondata sull’autogestione e il mutuo appoggio. È in questa direzione, più in generale, dove l’impegno sociale si fonde con la prassi della vita quotidiana e l’azione comunitaria diviene indispensabile strumento di verifica e di costruzione personale e collettiva, che Doglio continuerà a far agire, anche nelle esperienze successive a quella siciliana, i valori del socialismo libertario e della pianificazione organica.
Possiamo riconoscere una nuova declinazione degli stessi temi e concetti, prospettata di recente in relazione a un contesto generale profondamente mutato, in termini di condizioni economiche, sociali e ambientali, da quello al quale faceva riferimento Doglio, nel programma della “scuola territorialista”, fondata da Alberto Magnaghi – e restituito nel testo Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020) – che si può dire rappresenti gli sviluppi di quella fertile tradizione di pensiero. Sviluppi che hanno incrociato altri contributi di studiosi di diverse discipline che hanno introdotto nuovi concetti pregnanti. Primo tra questi la “coscienza di luogo”, proposta da Giacomo Becattini – Ritorno al territorio (il Mulino, 2009) – per designare un rovesciamento del rapporto fra produzione e luoghi, dove è il luogo, “inteso come matrice e tessuto connettivo dei modi di vita e di produzione”, che fornisce alle comunità locali la direzione da percorrere per il proprio sviluppo attraverso la valorizzazione del patrimonio territoriale. Quindi il concetto di “bioregione urbana” – rivisitazione del classico modello della bioregione, ripreso nell’ambiente della controcultura nordamericana – proposto da vari studiosi come nuovo paradigma dello sviluppo fondato sull’empowerment locale e sulla ricostituzione del rapporto co-evolutivo tra insediamento umano e ambiente. Si tratta di una rifondazione dell’urbano nella prospettiva bioregionalista che si è imposta alla riflessione a partire dalla considerazione che è la dimensione urbana la prima a doversi confrontare con i più tangibili effetti delle politiche economiche neoliberiste e della globalizzazione e della crisi che ne deriva, dato il suo portato demografico e il suo ruolo socio-economico. In questa direzione, e ancora nell’alveo della tradizione regionalista, un contributo significativo è anche quello fornito da John Friedmann, negli anni ’70, con l’introduzione del concetto di “sviluppo agropolitano”, che ha orientato l’attenzione sulle relazioni sinergiche che possono essere ricostituite tra aree rurali e centri urbani, dove centrale è l’integrazione tra competenze e settori, ossia l’integrazione dello sviluppo rurale con le capacità e le potenzialità dei centri urbani, che avrebbe potuto consentire di superare la tradizionale dicotomia città-campagna.
Da ultimo la prospettiva del commoning che, facendo riferimento, oltre che al lavoro di Elinor Ostrom, alla riflessione di Pierre Dardot e Christian Laval – Commun. Essai sur la révolution au XXI siècle (La Découvert, 2014) – si concentra sull’azione che genera i beni comuni, sulla realizzazione di un progetto collettivo, operando pratiche cooperative e sul nuovo spazio istituzionale istituito da una pratica collettiva autorganizzata. Essenziali per il riconoscimento dei beni comuni sono, in questa riflessione, la crescita di una razionalità alternativa a quella capitalistica (la razionalità politica del comune), il nesso che si instaura tra gli individui e il carattere regolativo – oltre che reattivo e rivendicativo – dell’azione collettiva, in quanto attiene alla gestione e all’autogoverno di questi beni. Di fronte alla forza distruttiva esercitata sugli ecosistemi viventi dal capitalismo globale e dai suoi dispositivi di accumulazione e all’odierna condizione di insostenibilità dell’intervento antropico, restituita dal fenomeno sempre più accelerato del cambiamento climatico, la sfida della scuola territorialista è quella di un progetto culturale e scientifico che si oppone all’indiscriminata espansione insediativa, alla centralizzazione delle decisioni, all’aumento esponenziale delle disuguaglianze e alla crescente de-territorializzazione della vita sul pianeta. Quest’ultimo processo, amplificato con l’affermarsi dello spazio smaterializzato dei flussi e delle reti globali, è in larga parte irreversibile e consustanziale alla civilizzazione contemporanea, a un modello di sviluppo insediativo e produttivo che considera i beni comuni territoriali come mera dotazione di risorse appropriabili ed esauribili. E, come sostiene Magnaghi, è il derivato di una scelta deliberata “di interrompere le relazioni coevolutive con l’ambiente e la storia”.
Con la tensione utopica che distingue ogni proposta di trasformazione profonda della società e si protende verso una nuova politica del futuro, questo progetto prefigura un “ritorno al territorio” che “si pone come necessaria ricostruzione, in ogni luogo della Terra, delle basi materiali e delle relazioni sociali necessarie a produrre una nuova civilizzazione” che scaturisca da rinnovate interazioni fra insediamento umano ed ecosistema territoriale. In questo quadro, centrale è il riconoscimento del patrimonio territoriale, inteso come costrutto storico coevolutivo, esito di attività antropiche che hanno trasformato la natura in territorio, in cui convergono sedimenti materiali, socio-economici, culturali e identitari. Essendo, quindi, “il prodotto visibile di un complesso processo di patrimonializzazione collettiva”, l’azione di commoning deve non solo curare e gestire questo complesso insieme di beni comuni intergenerazionali (materiali e immateriali), ma anche accrescerlo e aumentarne il valore in forme durevoli e autosostenibili, fino a “farne il caposaldo di una conversione ecologica e territorialista dell’economia” (Magnaghi, Il principio territoriale). Si comprende così come quest’azione collettiva, che prende forma nelle comunità locali, con il manifestarsi della coscienza di luogo, e si organizza in forma federale, sia fattore centrale dell’alternativa alle politiche neoliberiste dominanti. Come lo era nell’approccio regionalista reinterpretato da Doglio nell’ottica della pianificazione organica, rispetto sia al modello di sviluppo che si stava dispiegando nella fase del boom economico e alla logica dell’intervento pubblico, sia “all’occupazione monopolistica dello spazio sociale da parte della coppia solo apparentemente oppositiva formata da Stato e Mercato”, come ha sottolineato Marco Revelli nel suo La sinistra sociale (Bollati Boringhieri, 1997). L’alternativa a questo “doppio movimento” tra stato e mercato era rappresentata dal recupero e dal rafforzamento di quelle pratiche storicamente sperimentate di socialità autonoma, nelle diverse declinazioni del mutualismo, dell’autogestione e dell’auto-organizzazione sociale e nell’assunzione del principio federale, secondo la tradizione anarchica, come estensione del mutualismo alla sfera politica.
Si tratta, nella visione territorialista, come prima in quella della pianificazione organica, di ripristinare in forma rinnovata l’integrazione dell’economia nella società. E al tempo stesso di ricostituire quei rapporti di scambio non basati esclusivamente sul profitto ma sulla redistribuzione dei beni, fondata su relazioni personali e comunitarie e su relazioni di reciprocità, dei quali ha trattato Karl Polanyi, e che, a seguito della rivoluzione industriale e dell’affermarsi del liberismo e dell’economia classica, sono stati sostituiti dalla società di mercato. Una trasformazione, quest’ultima, che era destinata a produrre effetti distruttivi, di pericoloso individualismo e di disgregazione sociale, data la natura patologica di tale società. Operativamente il progetto territorialista traccia un percorso di riconcettualizzazione del fenomeno urbano in relazione al territorio teso a “rifondare la città nella prospettiva bioregionale”. Esso si prefigge di trattare in modo integrato le diverse dimensioni di un sistema socio-territoriale: quella economica, con riferimento ai sistemi locali territoriali; quella ambientale, consistente nell’ecosistema territoriale; quella politica, nella prospettiva dell’autogoverno dei luoghi di vita e di produzione e quella dell’abitare costituita dall’insieme degli ambiti funzionali e di vita della popolazione. La bioregione urbana è qui dispositivo concettuale “che fornisce regole, metodi e tecniche per affrontare il progetto di territorio” che è prodotto socialmente (Magnaghi, “La bioregione urbana nell’approccio territorialista”, Contesti. Città, Territori, Progetti, n. 1, 2019 e La Bioregion Urbaine, Eterotopia, 2014). Il processo progettuale, quindi, deriva principi fondativi da un’approfondita analisi multidisciplinare dei caratteri peculiari del patrimonio territoriale, che definiscono l’identità del luogo, dei modelli socioculturali locali, dei caratteri e delle potenzialità della società locale ed elabora lo “statuto dei luoghi”, consistente nelle invarianti strutturali e nelle regole per la trasformazione. Il ruolo del piano e degli esperti è di supportare e accompagnare la società locale a recuperare soggettivamente e collettivamente la coscienza del luogo. Ossia quel senso di identità collettiva, di appartenenza al luogo, che le consente di costruire un’azione corale per attivare solidarietà comunitarie, nuove forme di produzione e consumo sostenibili e sviluppare forme innovative di autorganizzazione sociale.
Con riferimento al nostro contesto nazionale, da qualche decennio, si sono manifestate alcune significative esperienze di sviluppo locale – come dimostrano i casi studio esaminati da Gioacchino Garofoli in varie ricerche e quelli trattati dalla rivista Scienze del Territorio – che hanno messo in rilievo la centralità del territorio in un processo di sviluppo economico endogeno e hanno confermato come le condizioni storico-culturali e le caratteristiche socio-economiche delle varie regioni possono giocare un ruolo rilevante in questo processo. Esse dimostrano che, quando il territorio torna a essere ambito di interazione tra gli attori dello sviluppo e delle forme di cooperazione tra le imprese – attraverso pratiche di partenariato e contrattuali – ossia punto di incontro tra le forze di mercato e le forme di regolazione sociale, il patrimonio territoriale diventa fattore attivo, facilita la formazione di particolari milieu che rispondono alle esigenze di sviluppo locale. Dimostrano, inoltre, come attraverso la crescita dell’identità territoriale e del senso di appartenenza della popolazione al luogo sia possibile delineare interessanti traiettorie di trasformazione dei sistemi locali. Traiettorie che rafforzano la capacità di integrazione produttiva tra attività complementari e possono così invertire tendenze economiche e demografiche, facilitare un arricchimento e ampliamento di saperi e competenze e consentire al tessuto produttivo di ottenere un buon posizionamento anche sul mercato esterno. E possono, inoltre, innescare un progressivo processo di cambiamento dei comportamenti imprenditoriali, delle istituzioni pubbliche e di altre organizzazioni, accrescere la capacità di coordinamento tra i diversi operatori e al tempo stesso favorire l’integrazione tra istituti di credito cooperativo e attività produttive che consente l’attivazione del “capitale di prossimità”, quindi la trasformazione delle risorse finanziarie locali in investimenti produttivi.
La sperimentazione di nuove forme di sviluppo locale si inserisce nella più generale prefigurazione di un’alternativa al modello di sviluppo neoliberista, che ha fallito in tutte le sue promesse di un progresso sociale e civile duraturo e giusto, verso la quale converge la recente ripresa – nel dibattito pubblico e nei progetti formativi – della tradizione dell’economia civile da parte, in particolare, di Stefano Zamagni e Luigino Bruni (Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, il Mulino, 2004), e la riproposizione della cultura della comunità e della responsabilità sociale e territoriale dell’impresa, cardini del pensiero di Adriano Olivetti. A quest’ultimo fanno riferimento sia la scuola territorialista sia i propugnatori dell’economia civile. Questa convergenza sull’attualizzazione dell’insegnamento di Olivetti dimostra come nell’insieme quell’esperimento sia un inaggirabile punto di riferimento rispetto alle questioni del nostro tempo. La superiorità della comunità consistente nell’elevata efficienza che le viene dalla specializzazione resa possibile dalle sue competenze territoriali. Un disegno istituzionale ancorato al territorio e alle società locali e la modalità di agire e di decidere nella collettività. La visione dell’economia orientata non solo verso il profitto ma verso i bisogni reali e la maggiore diffusione dei beni comuni. La prefigurazione dello sviluppo del territorio mediante un piano progettato sapientemente, attraverso uno stretto dialogo con le comunità e tra natura e storia. Per Olivetti, dispositivo catalizzatore delle diverse componenti del sistema delle comunità era il piano territoriale urbanistico, sulla base di una visione secondo la quale solo l’urbanistica che si fosse costituita in dottrina avente una tradizione scientifica di studi ed esperienze, avrebbe potuto dare forma a un piano economico. Il senso profondo dell’abitare come umanizzazione dello spazio stava alla base del primato conferito all’urbanistica rispetto all’economia. L’urbanistica, attraverso il contributo di diversi saperi, tra i quali le nuove scienze sociali, avrebbe dovuto aiutare la comunità a darsi uno scopo. Ed è questa la concezione della pianificazione territoriale e della sua funzione poi ripresa e resa operativa nella sua esperienza siciliana da Doglio, che nell’ambiente culturale olivettiano si era formato, prima come responsabile del Giornale di fabbrica dell’Olivetti di Ivrea, quindi come membro del Gruppo Tecnico per il Coordinamento Urbanistico del Canavese.
Sempre secondo Olivetti, “il disordine edilizio e il dissesto del territorio” erano “il riflesso del disordine economico, della mancanza di ideali sociali, ossia il simbolo più appariscente della civiltà contemporanea” (Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, 1960). Questa è l’eredità di decenni di sviluppo e di trasformazioni territoriali, soprattutto nel nostro paese. Un bilancio dell’efficacia degli strumenti urbanistici, restituito in una serie di studi e oggetto di un’ampia riflessione, poco prima della proposta di riforma degli anni ’90 avanzata dall’Inu – che ha portato all’istituzione, in diverse leggi regionali, di due dispositivi di piano (uno di carattere strategico e l’altro operativo e conformativo) – aveva già posto in evidenza i forti limiti dei piani urbanistici rispetto al controllo delle trasformazioni territoriali. Se, da un lato, essi avevano avuto scarsissimi esiti in merito al miglioramento delle condizioni degli insediamenti e della qualità della vita, dall’altro, di contro, avevano contribuito in modo significativo a strutturare il sistema politico locale in relazione agli interessi dei gruppi di pressione che più traevano vantaggio dalle stesse trasformazioni.
Disordine, dissesto territoriale, degrado ambientale e delle condizioni di vita si sono intensificati anche nel corso degli anni Duemila, da quando i principi dello sviluppo sostenibile – nelle sue diverse dimensioni (economica, sociale e ambientale) – e della conservazione delle risorse naturali, prima tra queste il suolo, e le misure per mitigare gli effetti del cambiamento climatico sono stati assunti in specifici protocolli, agende politiche e piani di azione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea e sottoscritti, con relativi impegni, dai diversi paesi. Anche il nostro governo ha sottoscritto gli impegni dell’Agenda ONU 2030, in merito allo sviluppo sostenibile, alla riduzione del degrado del territorio e al riconoscimento del valore del capitale naturale (suolo, patrimonio ambientale e paesaggio), e quelli fissati dall’Unione Europea per l’azzeramento del consumo di suolo netto entro il 2050. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, compete allo Stato l’emanazione di leggi sui principi fondamentali del governo del territorio – che rappresenta una delle più significative materie di legislazione concorrente – e sul contenimento del consumo di suolo. A tutt’oggi il governo ha abdicato al proprio ruolo. L’assenza di disposizioni generali e comuni sulle due materie ha inciso non solo su diritti sostanziali ma anche su beni essenziali (dalle risorse naturali, all’ambiente, al suolo, agli ecosistemi) e ha impedito un coordinamento nell’esploso mosaico del federalismo urbanistico. Gli esiti di quest’ultimo sono le peggiori condizioni a livello europeo raggiunte dal nostro paese in merito sia al degrado ambientale e del territorio, sia al consumo di suolo, secondo i monitoraggi ufficiali. Questo nonostante in tutte le legislazioni regionali che attengono al governo del territorio tra le finalità vi siano la promozione e realizzazione di uno sviluppo sostenibile e durevole, la tutela delle identità storico-culturali e della qualità degli insediamenti e l’utilizzo di nuove risorse territoriali solo quando non esistano alternative consistenti nel riuso delle aree già urbanizzate e nella rigenerazione delle stesse. Principi che sostanzialmente si sono risolti in mere declamazioni.
Al peggioramento delle condizioni ambientali e territoriali hanno concorso la crisi del sistema politico, il consolidarsi di nuovi assetti di rappresentanza politica, soprattutto di partiti di centro-destra, i quali sono fortemente connessi, attraverso la logica spartitoria e lo scambio politico, al composito sistema degli interessi particolari su base territoriale e alla galassia economico-finanziaria. Al privilegio accordato a questo sistema di interessi ha fatto seguito la messa in discussione delle diverse forme di regolazione, l’assenza di visioni di medio-lungo periodo per le trasformazioni territoriali, il prevalere di una logica decisionista basata sull’occasione e sull’eccezione. Dal punto di vista delle politiche territoriali, dalla fine degli anni ’90, si è assistito a un costante depotenziamento e asservimento alla logica del mercato dei dispositivi di regolazione – dai piani ai diversi regolamenti – al sistematico ricorso a provvedimenti derogatori (di principi, di norme e regole), attraverso la reiterazione di leggi d’eccezione (come il cosiddetto “Piano Casa”, di rilancio del settore edilizio), l’indebolimento delle culture tecniche e l’aggiramento dei controlli e della partecipazione collettiva.
Non sorprende, quindi, che il contesto territoriale nel quale questa subcultura politica si è più radicata e dove maggiore è la pressione per ottenere forme e condizioni particolari di autonomia – il Veneto – nel medio periodo (2012-2022), anche dopo l’approvazione di un provvedimento regionale sul controllo del consumo di suolo, abbia fatto registrare le peggiori prestazioni a livello nazionale. Ciò relativamente ai livelli di consumo del suolo (anche in aree vincolate), al valore massimo di perdita di suoli produttivi, al maggiore impatto dei processi di urbanizzazione sulla disponibilità dei fondamentali beni e servizi forniti dagli ecosistemi naturali, al più elevato indice di degrado del territorio dovuto alla perdita di qualità degli habitat. Questo è anche il contesto, egemonizzato dalla Lega, dove la leadership politica ha ottenuto un’ampia legittimazione sociale. Oltremodo evidenti, in questa parte dell’Italia che si sottrae sistematicamente ai sistemi di regolazione e ha coltivato la complicità tra economia, società e politica, sono da un lato la distruzione del territorio e dei beni comuni, che sono concepiti come risorse valorizzabili entro un’esclusiva logica di mercato e sono appannaggio di chi può derivarne un arricchimento privato, dall’altro l’estendersi del consenso elettorale di ampie fasce sociali e di un ceto medio produttivo che richiede un governo minimo e funzionale ai propri interessi. Questo è solo uno spaccato del nostro paese, dove l’appropriazione privata e la competizione individuale pare siano l’unico movente per accedere alle risorse. Dove il consenso elettorale viene barattato con l’adattamento al ribasso del sistema di regole ed è fortemente ridotto il riconoscimento del valore dei beni collettivi, che è il presupposto della loro condivisione sociale. È in ogni caso indubbio che, se vengono meno sistemi di regolazione efficaci e culture tecniche e amministrative appropriate perché prevale il sostegno di un’economia della rendita e di un ceto sociale patrimonializzato da parte del governo politico, si autoalimentano i comportamenti competitivi e opportunistici e si occultano le responsabilità collettive nei processi di deterioramento e distruzione degli ambienti di vita.
Di fronte al progredire della “tragedia” alla quale i beni comuni sono esposti, per gli effetti ambientali cumulativi ereditati dal passato e resi attualmente più devastanti e non prevedibili nelle loro dinamiche future, è ancora più urgente proporre un’alternativa nell’uso del territorio che consenta di ricostruire quei legami sociali (come coesione, solidarietà, reciprocità) che sono essenziali per sviluppare forme di civismo attivo e una domanda consapevole di buon governo degli stessi beni. Quest’alternativa, che prefigura una nuova civilizzazione, era già delineata nelle esperienze e nelle sperimentazioni che abbiamo qui esaminato, è riproposta di recente in più ambiti scientifici e culturali come grande sfida al paradigma economico e politico dominante, ma è anche in nuce in diverse pratiche dal basso e in varie forme autonome di azione collettiva. Essa richiede una visione di cambiamento di lungo periodo, la progettazione e la costruzione di un diverso futuro che possa assicurare uno sviluppo umano sostenibile e durevole. E richiede necessariamente la riaffermazione del ruolo dell’urbanistica e dei dispositivi di regolazione e una revisione dei paradigmi dei diversi saperi, perché gli stessi possano ricomporsi in un approccio olistico, in un progetto integrato di sviluppo e trasformazione del territorio, come sostiene la prospettiva territorialista e come esige oggi un ripensamento radicale del nostro rapporto con il territorio in forme più equilibrate dal punto di vista sociale, economico e ambientale. Questa sfida non può non riguardare l’ambito nel quale questi saperi si producono, si confrontano, sono messi in opera e si sviluppano le competenze, ossia in primo luogo l’università. Ma perché si formi questa ricomposizione è necessario che l’università si misuri con una visione costruttiva, nella prospettiva della transizione verso nuovi modi di vita e nuove forme di sviluppo, e torni a svolgere un ruolo pubblico, contribuendo non solo all’elaborazione e diffusione di un pensiero critico, ma anche allo sviluppo dell’impegno civico e ponendosi al servizio della comunità. Questa funzione è da tempo richiesta dalle componenti sociali più attive nella difesa dei valori del territorio e nella sua cura.
Chiara Mazzoleni
N.d.C. Chiara Mazzoleni è professore associato di Urbanistica dell’Università IUAV di Venezia. Ha fatto parte della consulta di esperti-volontari che, con l’ONG Nord-Sud, ha operato tra il 2002 e il 2003 nella città di Pec-Peje in Kosovo al programma di formazione sui temi della ricostruzione della città, con l’organizzazione di workshop di architettura e urbanistica rivolti alla comunità locale, a studenti universitari e funzionari della pubblica amministrazione.
Tra le aree tematiche privilegiate nel suo percorso di ricerca una attiene all’urbanistica come azione sociale. Tra i suoi contributi in quest’area: (a cura di) Carlo Doglio. Per prova ed errore (Le Mani, Genova 1995); “La costruzione dell’urbanistica come scienza sociale” (ASUR, n. 55, 1996); “Un laboratorio di sviluppo comunitario: il Centro per la piena occupazione di Danilo Dolci a Partinico” (Urbanistica, n108, 1997); “Lewis Mumford nella cultura architettonica e urbanistica italiana”, (CRU, n. 9-10, 1998, n. 11 1999); “(a cura di) Lewis Mumford. In difesa della città, Collana Universale di Architettura, n. 85 (Testo&Immagine, Torino 2001); “C’era una volta Adriano Olivetti” (Lo Straniero, n. 25, 2002); “The concept of community in Italian town planning in Italy” (Planning Perspective, n. 18, 2003); “La lezione dei classici”, in L. De Bonis, La nuova cultura delle città. Trasformazioni territoriali e impatti sulla società, Atti dei Convegni Lincei, 194 (Accademia dei Lincei, Roma 2003); “Isolotto 1954-2004. Formazione e sviluppo di una comunità”, in Fondazione Michelucci (a cura di), 1954-2004, città nella città: il quartiere satellite dell’Isolotto a Firenze (Nuova Grafica Fiorentina, Firenze 2006); (con N. Morreale, F. Scianna), Carlo Doglio, Il piano della vita. Scritti di urbanistica e di cittadinanza, (fascicolo allegato a Lo Straniero, n. 77, 2006); “Progetto incompiuto. In risposta a 11 domande su Olivetti” (Engramma, n. 166, 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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