Michela Barzi  
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INDAGARE I MARGINI, OVUNQUE SI TROVINO


Commento al libro di Jacopo Lareno Faccini e Alice Ranzini



Michela Barzi


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Spazio e margine sono parole polisemiche legate da una relazione semantica. La prima è stata indagata da George Perec con il suo elenco delle specie di spazi che abitiamo, di cui siamo a conoscenza e che potremmo semplicemente immaginare. «Lo spazio è un dubbio» – metteva in guardia Perec – «devo continuamente individuarlo, designarlo». Il margine evoca lo spazio, di cui diventa parte come quando è riferito al tempo e al denaro. Se il margine è il contrario del centro diventa metafora della periferia. Per bell hooks (teorica del femminismo afro-discendente, purtroppo finita nel pantheon di certa narrazione politically correct) il margine è metafora della resistenza a ciò che esso imprime sullo spazio. Nella piccola città della sua infanzia, il margine della segregazione razziale era la ferrovia. In tutte le sue accezioni - razziale, sociale, di genere - la segregazione ha bisogno di margini.

Nel tipo di spazio che chiamiamo città, nel suo essere «intreccio di macchine, infrastrutture, esseri umani e non umani, istituzioni, reti, metabolismi, materia e natura», secondo la definizione di Ash Amin e Nigel Thrift, nei cambiamenti di stato che assomigliano a quelli dell’acqua – solido-liquido-gassoso – nel suo propagarsi nello spazio, nelle «distruzioni creative (…) implosioni ed esplosioni», di cui scrive Neil Brenner, è possibile trovare dei margini? Come riconoscerne la natura fisica e simbolica in grado di segnare le vite di chi li abita, di chi vive tra un lato e l’altro di queste linee dalle concrete implicazioni umane e non solo? Come intercettare la storia di chi su di esse si posiziona: stare ai margini della società, della legalità, della povertà? Quali aspetti spaziali le rendono storie di vite marginali, emarginate? Che specie di spazi segnano l’esistenza di certi tipi umani?

Se il tipo di spazio sul quale ragionare si chiama Milano, come rintracciarne i margini? Nel secolo scorso il Gildo de La meccanica o la Gilda del Mac Mahon erano l’incarnazione dei margini che attraversavano la città letteraria di Carlo Emilio Gadda e di Giovanni Testori, ma visto che oggi più che stare in certi punti dello spazio i margini lo percorrono, dove trovare ai nostri giorni l’equivalente di quei tipi umani? È la domanda che chi abbia una certa consuetudine con i treni suburbani di Trenord si sarà sicuramente posta: fino a dove si spinge l’onda umana che percorre Milano dall’interno verso l’esterno e viceversa toccandone i margini? In che modo a Milano si abita lo spazio e i margini che lo percorrono? Quali spazi sono margine? Quali margini diventano casa, o semplicemente rifugio, per esseri umani e non? Che spazio dà Milano a chi vi dimora anche se non vi risiede? E che margine (di spazio, di tempo, di manovra) ha chi occupa e si insedia senza titolo per risiedervi?

Con L’ultima Milano. Cronache dai margini di una città (Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2021), Jacopo Lareno Faccini e Alice Ranzini hanno tentato «di realizzare un'inchiesta dai toni narrativi a partire della Milano che meglio conosciamo, allo scopo di sollevare alcune questioni secondo noi cruciali per il futuro della città». La loro non è «un'analisi che ha la pretesa di esaustività rispetto alla complessità delle tematiche che attengono al governo urbano, quanto piuttosto un racconto orientato dalla nostra esperienza e competenza». Ai due autorə (che rivendicano l’uso della schwa) interessa soprattutto «collocarsi alla periferia del sistema Milano per assumere uno sguardo critico rispetto al suo funzionamento e all'idea di città che esprime» (pp. 9-10).

Al netto della dichiarata limitatezza, l’indagine di Lareno Faccini e Ranzini suscita immediatamente un interrogativo: dove sta la città indagata? Nei suoi cambiamenti di stato o nei limiti amministrativi comunali? Nel libro il racconto si snoda a partire da tre itinerari che hanno come tema l’abitare, l’educare, il dare approdo e rifugio. La città casa, la città scuola e la città porto si incarnano in una ventina di esperienze umane che, ad eccezione di una, sono tutte interne ai limiti amministrativi di Milano. Le esplorazioni di Lareno Faccini e di Ranzini non vanno oltre Cinisello Balsamo, dove si situa una delle declinazioni del tema dell’abitare ai margini. Nello Spazio 20092, un ex stabilimento farmaceutico occupato dal 2015, risiedono una cinquantina di persone che per varie ragioni la casa l’hanno persa e/o non sono in grado di trovarla. Sono un pezzetto delle infinite liste d’attesa dell’assegnazione di un alloggio ERP, in cui il tutt’altro che marginale mezzo dell’occupazione diventa l’unico modo possibile di avere un tetto sotto cui stare. Sono – notano opportunamente gli autori – il prodotto «dello scollamento tra la dimensione metropolitana del fenomeno dell’emergenza abitativa e una politica di gestione fortemente residuale e centrata sulla città di Milano, dove si concentrano molte delle strutture emergenziali» (p. 117). Nel vuoto che si apre appena si evoca la Città Metropolitana – in teoria governata dallo stesso sindaco della città capoluogo – l’esperienza di Cinisello (oggi minacciata dallo sgombero), evidenzia «il ruolo cruciale delle organizzazioni – formali e informali – che aggregano domande di casa inascoltate» (p.118).

Il fatto che per Lareno Faccini e Ranzini il margine sia «uno strumento euristico» (p. 229) spinge chi legge a chiedersi cosa abbiano scoperto con la loro ricerca che già non fosse noto. Gli autorə correttamente delineano i passaggi che, con il dissolvimento della «società urbana fordista-keynesiana», nel liberismo compassionevole del modello Milano «hanno prodotto una pluralizzazione degli ambiti di precarietà e reso i tracciati della marginalità molteplici e variabili» (p. 231). Oggi i margini della inclusione-esclusione di sono moltiplicati e se il sistema del welfare non riesce più a intercettarli si creano le condizioni per la nascita dal basso delle esperienze lungo le quali si snodano i tre itinerari.

La dichiarata la parzialità dell’indagine di Lareno Faccini e Ranzini mostra un ulteriore limite a proposito della sua narrazione, che rende le singole esperienze casi forse più interessanti se non fossero raccontati con il linguaggio specialistico adatto al report finale di una ricerca più esaustiva. È la natura ibrida di L’ultima Milano – un po’ diario di viaggio tra alcuni quartieri milanesi (con l’aggiunta di una specie di esplorazione etnografica condotta durante un tragitto in tram), un po’ indagine sociologica, un po’ manifesto politico – l’ostacolo maggiore alla sua lettura. Se il viaggio nelle trasformazioni della città posto all’inizio del libro (pp. 45-65) è una sintesi utile anche al lettore e alla lettrice non specialista, per farsi un’idea delle premesse e dei risultati del tanto celebrato modello Milano e dei suoi «rimossi», i tre itinerari rischiano di incagliarli nelle specificità dei casi narrati. I quali, specie quelli riferiti nell’itinerario città scuola, sono presentati come in grado di far vacillare le convinzioni dei due autorə «trentenni laureati, milanesi da generazioni e con una casa di proprietà» (p. 232, altrove nel libro aggiungono anche di essere «bianchi») che definendosi così si pongono implicitamente lontani dai margini che provano a raccontare. Per Lareno Faccini e Ranzini destabilizzante è il margine segnato da «quell’80% di bambini e bambine di scuola di periferia considerati stranieri» anche se vivono nello stesso quartiere (San Siro) in cui essi dichiarano di risiedere. Appena vinta «l’istintiva frustrazione provocata dallo smarrimento» gli autorə sono tuttavia in grado di addentrarsi in quel margine «in modo aperto e interrogativo» che consente loro di «scovare indizi per rinnovare le modalità di progettazione della città» (p. 233). Da una parte due trentenni bianchi e istruiti che, vivendo in una cosiddetta periferia, si collocano al centro della scena oggetto della loro osservazione, dall’altra bambini di diverse etnie che abitano quella stesso periferia stanno nel ruolo degli osservati. Forse bell hooks avrebbe avuto qualcosa da obiettare.

Lareno Faccini e Ranzini vogliono intercettare «la città che per ultima arriva ad affermarsi come domanda di politiche e per ultima trova trattamento» (p. 11), apparentemente dimenticando che da almeno centovent’anni alle domande degli ultimi Milano cerca di dare risposte (un esempio su tutti sta nella storia dell’Umanitaria). La loro indagine si inserisce in quella ormai vasta narrativa che ha come oggetto la periferia in quanto condizione ontologica, sbeffeggiata da Nanni Moretti nella famosa scena del suo Caro diario. Con quel beh mica male Spinaceto, pensavo peggio... Moretti spazza via la retorica negativa su tutto ciò che si trova al di là del romano raccordo anulare. La Vespa del protagonista inverte la marcia un attimo dopo aver avuto conferma dal tipo seduto sul muretto del cul de sac e si dirige verso un'altra periferia, quella tragica dell’Idroscalo di Ostia dov’è morto Pier Paolo Pasolini. Le borgate pasoliniane sono periferia par excellence, staccate della città, villaggi di baracche per canaglie come l’Accattone del suo film e terreno sul quale spunteranno i vituperati casermoni. La loro lontananza è prima di tutto sociale ed è rappresentata da quei sottoproletari da poco inurbati che oggi abitano gli slum delle grandi città del cosiddetto Terzo Mondo, luoghi che altro non sono se non la città-rifugio degli ultimi in senso assoluto.

Nel 1996 Jacques Derrida delineava il concetto di città-rifugio come luogo che accoglie chi fugge da tutte le forme di sopruso, secondo il principio medievale per cui quid est in territorio est de territorio. Derrida vedeva in quel concetto «una certa idea di cosmopolitismo» che poteva diventare l’occasione per rinnovare il diritto superando l’attuale concetto di cittadinanza. Le città-rifugio oltrepassano i margini della sovranità che conferisce lo status di cittadino, diventando luogo della «sperimentazione di un diritto e di una democrazia a venire». Per Derrida le banlieue, i luoghi originariamente messi al bando come la Zone di Parigi che oggi ospita il bouleverd périphérique, le cité abitate dalla racaille, secondo Sarkozy, che hanno dato vita alle rivolte del 2005, sono lo spazio della «canagliacrazia», dove canalia e demos non sono poi così distanti e a definirsi con il primo termine è «un contro-concetto di sovranità». Due anni prima di quei fatti, Derrida aveva affermato che «una politica democratica della città deve sempre iniziare dall'ardua domanda: “Che cosa vuol dire periferia?”».

Scriveva Claude Lévi-Strauss che al suo arrivo in Brasile nel 1935 soleva dedicarsi «a una etnologia domenicale» negli immediati dintorni di San Paolo, dove le uniche capanne rintracciabili non erano abitate da gruppi di nativi, oggetto delle sue successive osservazioni, ma da discendenti di un manipolo di tedeschi rimasti intrappolati nella povertà che li aveva spinti lì. In una intervista visibile su YouTube, Lévi-Strauss raccontava che inizialmente i suoi Tristi tropici doveva essere un romanzo, idea poi accantonata per non recare danno alla letteratura e alla etnografia. Il risultato è il racconto di ciò che in buona sostanza continua a essere la periferia di un mondo pensato dal suo centro. Oggi periferia è parola soggetta a usura e già Carlo Emilio Gadda nel 1955 segnalava che era diventata «ghiotta, presso i novellatori e i romanzieri del decennio».

Forse il discorso sulle periferie farebbe meglio ad andare oltre il recinto delle «politiche» e degli spazi che esse producono, per includere quegli spazi altri alternativi alle utopie razionaliste che definiscono molto di ciò che è considerato periferico. Ricordava Michel Foucault che nel 1966 era stato invitato da un gruppo di architetti francesi «per compiere uno studio dello spazio». In quella occasione conia il termine eterotopie, che individua «quegli spazi singolari che si trovano in certi spazi sociali, le cui finzioni sono diverse da quelle di altri, decisamente opposte». Lo spazio come ingrediente fondamentale «di ogni vita comunitaria [e] di ogni esercizio del potere» può essere indagato a partire dai margini, i quali però vanno ricercati ovunque essi si trovino. Lareno Faccini e Ranzini individuano una «città emergente (…) fatta di associazioni, gruppi informali, movimenti politici, e piccoli presìdi territoriali che quotidianamente supportano l’inclusione delle molte e diverse figure della marginalità», pur nell’assenza di «politiche pubbliche» (p. 250), che tuttavia restano solo all’interno allo spazio amministrato dal Comune di Milano. Ma nella città che emerge ad esempio dallo spazio percorso dal trasporto pubblico locale, dove, almeno dal punto di vista delle tariffe ATM, uno spostamento tra Assago e Cologno Monzese non è diverso da quello tra i piazzali Lotto e Loreto, quali politiche pubbliche possono dare risposta alle domande poste dalle varie dimensioni della marginalità? Con lo stesso viaggio in tram che si fa per andare all’ospedale Sacco si arriva agevolmente a Baranzate, al margine dell’area ex Expo che si sta trasformando in Milano Innovation District. Il terzo abbondante di non italiani lì residenti ci dice che quella periferia può offrire qualche margine economico rispetto al mercato immobiliare di Milano. Ma forse si tratta di un argine destinato a non reggere l’onda d’urto delle vicine trasformazioni che già non tengono più conto dei confini amministrativi (una parte del MIND è a Rho). A Baranzate l’abitare spesso è fragile, termine che ricorre nel racconto di Lareno Faccini e Ranzini così come in altri racconti che hanno come oggetto altre periferie milanesi, meno periferiche e per questo più indagate. L’ultima Milano sta anche a Baranzate, e quasi certamente più a nord e in ogni altra direzione secondo i punti cardinali e l’intreccio di infrastrutture (macchine, reti, metabolismi, uomini e non) di cui è fatta la città reale. Le «molte e diverse figure della marginalità» che attraversa lo spazio di una città come Milano andrebbero cercate lungo le direttrici della sua esplosione e per questo un viaggio in tram non basta. Nemmeno è sufficiente che per farne la ricognizione ci si affidi al catalogo delle «pratiche» che non vengono riconosciute dalla «politiche»: le prime creative e innovative anche se fuori dalle norme stabilite dalle seconde, che per definizione sono datate e rigide. Se si guarda al margine come avamposto e non come retroterra allora lo sguardo va spinto molto più lontano, oltre i soggetti che amministrano i bisogni di chi abita lo spazio che chiamiamo città. Sulla pubblica amministrazione si riversano processi che si generano molto lontano dal suo ambito operativo, peraltro frammentato nei differenti enti territoriali. Si pensi all’impatto sulle politiche abitative generato dai flussi migratori, rispetto ai quali le cosiddette politiche hanno strumenti pensati per un’epoca storica differente. Se l’ambito nel quale trovare risposte non è più lo spazio-nazione ma lo spazio-mondo i meccanismi giuridici e operativi con i quali rispondere ai bisogni devono mutare di conseguenza. È un altro l’orizzonte al quale guardare, magari tornando a quasi vent’anni fa, quando Derrida, osservano lo scenario mondiale, si interrogava sull’aggettivo affibbiato ad alcuni stati in grado di minacciare lo stato più potente del mondo. Cosa vuol dire canaglia? Da dove viene quell’attributo, che in francese si esprime con il vocabolo voyou, se non dalla periferia del mondo e delle città, dalla strada – la voi – della quale condivide l’etimologia? Se «una politica democratica della città deve sempre iniziare dall'ardua domanda: “Che cosa vuol dire periferia?”», allora il quesito di Derrida può indirizzarsi a ciò che di periferia è metafora: “Che cosa vuol dire margine?”.

Michela Barzi

 

 

 

N.d.C. Michela Barzi, laureata in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, si è occupata di pianificazione territoriale e urbanistica per vari enti locali. Ha pubblicato numerosi contributi sui temi della città, del territorio e dell’ambiente costruito e collaborato con istituti di ricerca e università. Ha curato e tradotto l’antologia di scritti di Jane Jacobs Città e libertà (Elèuthera, 2020). È responsabile del sito Millennio Urbano e ha scritto e scrive per Eddyburg, inGenere e ArcipelagoMilano.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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10 GIUGNO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
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in redazione:
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iniziativa sostenuta da:
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locandina/presentazione
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2022: programma/1,2,3,4
 
 

 

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2019: Alberto Magnaghi

 

 

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2017: online/pubblicazione
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2019: online/pubblicazione
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C. Mazzoleni, Riaffermare il ruolo dell'Urbanistica, Commento a: C. Doglio, Il piano aperto, a cura di S. Proli (Elèuthera, 2021)

A. M. Brighenti, Il fascino discreto dell'interstizio urbano, commento a: B. Bonfantini, I. Forino, (a cura di), Urban interstices in Italy (Lettera Ventidue, 2021)

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

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G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

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C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

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R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)