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Il libro di Carlo Cellamare e Francesco Montillo, Periferia. Abitare Tor Bella Monaca (Donzelli, 2020), racconta la periferia di Tor Bella Monaca dal punto di vista della vita quotidiana dei suoi abitanti. Il grande quartiere pubblico romano è sicuramente un ‘caso estremo’, per dimensione e entità dei fenomeni. Questo consente al racconto, poliedrico e minuzioso, di andare oltre il singolo caso, offrendo “uno spaccato dell’abitare pubblico oggi” (p. 119). Ma v’è di più. Gli sguardi (singoli e collettivi) di attivisti e di esperti – ingegneri, architetti, urbanisti, sociologi, antropologi, filosofi, educatori, fotografi – sono tutti così profondamente situati e indagano così accuratamente l’abitare nel quartiere da consentirne una elevata comprensione, che induce ad allargare lo sguardo alla città intera aprendo a riflessioni più generali sulle trasformazioni dell’urbano, sulle connessioni tra fenomeni micro e macro, su questioni di governo del territorio. Non solo Tor Bella Monaca, dunque, ma Roma, ‘in a nutshell’. Diventa inevitabile a partire dalla periferia, vista come “l’angolo più difficile” da cui guardare alla città, intrecciare riflessioni su questioni ambientali e problemi di crescita delle superfici urbanizzate sganciata dalle dinamiche demografiche, sulle contraddizioni dell’azione di governo e le risposte da parte di cittadini e associazioni che usano la partecipazione come leva per promuovere la coesione sociale: “…più che nel centro storico, sottratto ai romani e diventato museo per i turisti, è proprio qui che si muove, si trasforma e si produce la città” (p. 291).
Il libro lascia “l’impressione di tornare a tutte le cose” (1), laddove il riferimento a Borges alle vertiginose, sbalorditive, immagini dell’Aleph, è sicuramente iperbolico, ma rende bene la sensazione di stupore suscitata nel lettore da alcune caratteristiche che il libro presenta simultaneamente: una struttura complessa, con i contenuti organizzati in cinque parti e (numerosi) capitoli, una grande varietà di stili di scrittura, con testi di taglio scientifico che si alternano a testi scritti in modo più fluido, a tratti avvincente, una molteplicità e ricchezza di riflessioni, uno sguardo d’insieme e, al contempo, l’approfondimento di molte questioni specifiche.
Procedendo con ordine, il corposo libro dei due autori, con i contributi di molte e molti altri (2), restituisce gli esiti di diverse ricerche sul campo che si sono mosse, con un approccio di ricerca-azione, attraverso operazioni di avvicinamento minute e precise. C’è una distanza conoscitiva relativa al quartiere, che gli autori si propongono di contribuire a colmare, ciascuno concentrandosi su un tassello, attraverso un approccio alla ricerca radicato e responsabile. È una distanza conoscitiva innanzitutto sugli usi del patrimonio, sulle dinamiche reali di accesso e permanenza negli alloggi quella che, nel corso degli anni, si è venuta a creare e che rappresenta “l’ostacolo forse più significativo a una gestione sensibile ed efficace della complessità di Tor Bella Monaca – e di contesti analoghi – da parte delle istituzioni competenti” (p. 122). Le descrizioni restituiscono un insieme e forniscono dettagli. Soffermarsi sui dettagli è utile a colmare il gap tra conoscenze prodotte in ambito accademico e trasformazioni concrete di città e territori, delineando possibili connessioni tra complessità delle situazioni, conoscenze e politiche pubbliche.
La prima delle cinque parti in cui sono articolati i testi introduce ai luoghi, ai temi, all’approccio. Le ricerche sono state portate avanti attraverso esplorazioni della città che si sono avvalse, oltre che dell’analisi spaziale, anche di strumenti di analisi sociale e di approcci narrativi. Si entra nel quartiere attraverso testi e immagini. I testi lo introducono ‘per scene’. I bambini giocano nel campetto di calcio. Ma al campetto “mancano le porte … al loro posto ci sono quattro pali di legno” (p. 34). Questo diventa il primo segno tangibile che qualcosa non ha funzionato. A Tor Bella Monaca come in tanti altri quartieri pubblici italiani. Il racconto è poi affidato all’eloquenza delle immagini di Fabio Moscatelli che parlano della vita nel quartiere, degli interni, degli spazi pubblici abbandonati, del contrasto tra cura e abbandono degli spazi comuni.
Nelle tre parti centrali del testo questo insieme viene problematizzato attraverso un ripensamento dei nessi abitazione/casa (parte 2), spazio collettivo/vita quotidiana (parte 3), progettualità/modalità di intervento (parte 4). Si viene accompagnati, passo dopo passo, a distinguere il grigio degli scatoloni degli edifici e delle strade in contrapposizione al verde delle zone agricole che circondano il quartiere, delle aree archeologiche e degli spazi verdi abbandonati, ma si entra anche nei dettagli delle dinamiche di realizzazione dell’insediamento negli anni ’80, come piano di zona nell’ambito del primo Piano di edilizia economica e popolare (Peep) di Roma (approvato nel 1964). Queste dinamiche sono descritte minuziosamente sia in prospettiva storica, in relazione agli obiettivi politici di costruzione di quartieri pubblici in grado di portare servizi nelle periferie dell’abusivismo, sia in relazione ai processi della produzione edilizia di ‘prefabbricati’, sia, ancora, con riferimento ai modi di abitare il quartiere oggi. Si ripercorrono i meccanismi di funzionamento dei Peep (p.112), ma si descrivono anche le pratiche d’uso quotidiano degli spazi pubblici che il Peep ha prodotto. Gli unici che hanno caratteristiche di piazza sono largo Mengaroni e largo/piazza Castano, dove si affacciano i luoghi in cui si concentrano le attività sociali e culturali e i processi di (ri)appropriazione dello spazio attraverso i quali gli abitanti quotidianamente contrastano lo spaccio della droga che tende a colonizzarli. Si riconoscono gli “spazi intermedi” o “di transizione” (p. 161), che graduano il rapporto tra pubblico e privato: cortili, ingressi, androni, trombe delle scale, pianerottoli diventano luoghi in cui portare avanti operazioni di cura da parte degli abitanti, in cui manifestare la presenza di un soggetto collettivo reticolare per contrastare la criminalità, che tende ad appropriarsene e a relegare gli abitanti nelle proprie case. Ma non siamo solo in presenza di abitanti barricati in casa e di altri che tentano di strappare al degrado alcuni spazi, che si sforzano di rendere visibili, ipervisibili, i segni della cura. Mantenere l’invisibilità, evitare di mettersi in mostra chiedendo manutenzioni, significa per alcuni abitanti mantenere la possibilità di disporre informalmente di un alloggio.
L’ analisi degli attori in gioco e delle reti tra attori – che hanno poi voce diretta nella sezione che restituisce le storie di vita (Voci dal quartiere) – vede la scrittura assumere a tratti lo stile di un racconto avvincente (pp. 191-208). Sono numerose le questioni problematiche a cui i cittadini, autorganizzandosi, sono in grado di dare risposte, superando l’idea della partecipazione come mera costruzione di consenso e attribuendole un carattere collaborativo (o anche conflittuale): dalla gestione delle aree verdi agli interventi di manutenzione attraverso autocostruzione e autorecupero, a diverse scale di intervento (alloggio, scala, edificio, comparto, quartiere). La necessità di intervenire sul patrimonio esistente, di utilizzare tecnologie edilizie in grado di assicurare elevate prestazioni energetiche degli edifici, di utilizzare i materiali di scarto come risorse diventano proposte concrete per promuovere l’innovazione sostenibile delle imprese locali. A fronte dell’assenza di strumenti di mappatura delle esigenze manutentive degli alloggi da parte delle istituzioni, il riconoscimento delle azioni di autorecupero messe già concretamente in campo da parte di chi tra gli abitanti ha esperienza nel settore edilizio può diventare un utile sostegno alla produzione di occupazione lavorativa.
La necessità di agire in modo innovativo sullo spazio fisico è però solo una faccia della medaglia. È l’integrazione tra azioni di natura diversa la chiave per incidere concretamente sulla vita delle persone, come evidenzia Francesco Montillo: non basta offrire case, occorre edificare anche cittadinanza e questo non è valido solo per le azioni tradizionali, ma anche per quelle innovative, come gli interventi di autorecupero. Le attività e gli interessi (molteplici, mutevoli) portati avanti dalla biblioteca autogestita (il Cubo libro), per esempio, hanno aiutato nel corso degli anni a coltivare consapevolezze, senso critico, saper fare: delle tante persone che sono passate alcune si sono fermate e a volte sono tornate (p. 298). Riconoscere queste capacità, questi fermenti che diventano laboratori di sperimentazione culturale significa rompere lo stigma, ma non deve comportare un abbandono del campo. È importante sottolineare che non è possibile liquidare il termine ‘periferia’ se, al di là della accresciuta complessità che non ci consente più di interpretare efficacemente i fenomeni attraverso la contrapposizione centro/periferia, assumiamo che “periferie sono tutti quei territori dove vi è preclusione agli aspetti sostanziali della cittadinanza” (p. 211).
In definitiva, il libro mostra nel concreto cosa può significare, negli anni 2020, immaginare (e praticare) trasformazioni urbane ponendosi dalla parte degli abitanti, mettendo in campo competenze scientifiche e passione civica. Sicuramente con l’obiettivo già richiamato di colmare una mancanza di conoscenza adeguata che riguarda tutti i livelli di governo, dai più lontani al municipio, ma anche per ipotizzare nuove modalità di azione, come sottolineano Francesco Montillo e Carlo Cellamare nella quinta e ultima parte del libro intitolata “Ripensare la Periferia”. La mancanza di conoscenza e di categorie interpretative efficaci va riconosciuta e colmata “non per comminare pene o stabilire assoluzioni”, ma per comprendere appieno “le condizioni che si sono andate creando e i processi reali con cui bisogna fare i conti e che creano le condizioni concrete di vita quotidiana degli abitanti”, (p. 328, nota 7). Ciò che manca oggi è una interpretazione in grado di trasformarsi in un grande progetto politico che riabiliti insieme vecchie e nuove popolazioni che abitano la periferia, attraverso azioni in grado di superare sterili tecnicismi e di porsi l’obiettivo di produrre città ovvero di “pensare al territorio come luogo di produzione di socialità” (p. 318). Questo, evidenziano gli autori, richiede discontinuità con i modelli di pianificazione dominanti e tempo, per conoscere meglio e direttamente, per ascoltare le voci di chi abita e sviluppare una programmazione che connetta livello locale e sovralocale.
La vasta e articolata distribuzione delle competenze nelle diverse articolazioni dello Stato e, a livello di governo locale, nei tanti dipartimenti, servizi, uffici vede la dispersione del senso e del disegno complessivo del quartiere. Questo non aiuta e ha creato una situazione “difficile anche per gli amministratori locali più volenterosi” (p. 332), che si traduce di fatto in un abbandono dei territori da parte della politica. Eppure, l’approccio di ‘immersione’ nel quartiere consente di mettere in evidenza una nuova domanda di pubblico, e chiamato a intervenire per tutelare quelle condizioni minime di vivibilità che sono richieste per abitare. In assenza del pubblico con la P maiuscola, ovvero di azioni incisive portate avanti da istituzioni dotate di legittimazione politico-amministrativa a cui far riferimento per migliorare la vita quotidiana delle persone, i percorsi autorganizzati, le pratiche di riappropriazione del territorio mostrano capacità di interpretazione e trasformazione dei luoghi, forniscono alcune risposte, lasciano emergere una diversa idea di dimensione pubblica, prodotta socialmente. Certo, aprendo molte questioni, in primis rispetto alla capacità di riconoscere (da parte di chi?) la dimensione pubblica dei processi attivati ‘dal basso’, di selezionare criteri per riconoscere ‘il pubblico come tale” (p. 337). Ultimo, ma non ultimo. Per portare avanti azioni integrate che incidano sulle dimensioni immateriali e non solo sulle dimensioni materiali dei problemi è necessario non solo mettere le istituzioni e le loro strutture organizzative in grado di superare la logica dell’intervento per settori, ma anche e soprattutto adottare “una cultura politica che riparta dal vissuto e dalla vita quotidiana, nonché da una serie di valori legati alla convivenza e a uno sguardo di armonia col pianeta”, che interpreti allo stesso tempi i bisogni della vita quotidiana e alcuni grandi valori di convivenza (p.339).
Di fronte ai molteplici significati che assume oggi il termine ‘rigenerazione urbana’ la proposta di rigenerazione dal basso presentata nella parte conclusiva del libro fa riferimento a obiettivi , approcci e strumenti molto chiari: ’importanza di una maggiore conoscenza, di alleanza con le energie sociali presenti, di apertura e trasparenza dei processi di costruzione dell’interesse collettivo, di riconoscimento dei ‘soggetti sociali’ che non siano solo gli investitori e i portatori di interessi economici. ‘Rigenerare dal basso’ non significa solo dare spazio alle pratiche d’uso degli abitanti in grado di prefigurare futuri alternativi, ma anche e soprattutto immaginare un nuovo ruolo delle istituzioni, in particolare delle amministrazioni locali, come soggetti in grado di garantire processi inclusivi di costruzione dell’interesse collettivo, di riaprire alla capacità (politica) di costruzione di idee di città, di recuperare capacità complessive di programmazione. Sono questi i punti cardine dell’idea di una grande alleanza politica e sociale che riparta dalle pratiche proposte dagli autori. Un’idea che, non appare superfluo ribadirlo, riparte dalle pratiche, ma a queste non si limita, aspirando a definire più ampie, multidimensionali, politiche di trasformazione urbana e territoriale. Questo è fondamentale in una fase in cui, nell’ambito della amministrazioni locali così come a livello nazionale, alle pratiche innovative prodotte socialmente viene dato risalto nei discorsi, relegandole però di fatto, ormai da diversi anni, nelle nicchie ben delimitate delle buone pratiche e delle azioni sperimentali; e ciò mentre il mainstream dell’azione amministrativa continua a essere orientato nella direzione del ‘pubblico’ inteso nelle peculiari forme gerarchiche, settoriali, categorizzanti in cui lo abbiamo ereditato dagli Stati moderni e dai loro meccanismi di funzionamento, per come si sono delineati nel mondo occidentale tra XIX e XX secolo e primi decenni del secondo dopoguerra.
Carla Tedesco
Note 1) J. L. Borges (1959), L’Aleph, Milano, Feltrinelli, p. 168.; ed. or. 1952. 2) C. Bernabucci, L. Blasco, M. Cecchetti, C. Cecere, P. Cervelli, A. Colafranceschi, E. Currà, R. De Angelis, L. Diana, A.M. Gisonda, M. Gissara, LaPE- Laboratorio di Pratiche Etnografiche, E. Maranghi, M.V.Molinari, F. Moscatelli, M. Peca, A. Peduzzi, F. Rosso.
N.d.C. Carla Tedesco è professore associato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica all'Università Iuav di Venezia dove insegna Progettazione e Pianificazione del territorio. Presso lo stesso ateneo, è stata coordinatrice del corso di laurea triennale in Urbanistica e Pianificazione del territorio nel periodo 2019-2022 ed è membro del comitato scientifico dell’ambito di Pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio della Scuola di dottorato in Architettura, città e design. È membro del board della European Urban Research Association e, della Commissione per la riforma della normativa nazionale in materia di pianificazione del territorio, standard urbanistici e in materia edilizia, istituita presso il Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. Ha organizzato e preso parte a convegni e seminari in Italia e all’estero, è stata consulente scientifica in attività di pianificazione di enti locali e territoriali e ha ricoperto il ruolo di assessore all’Urbanistica e alle Politiche del Territorio del Comune Bari nel periodo 2014-2019.
La sua attività di ricerca verte sull’analisi delle politiche urbane e di sviluppo locale, con particolare attenzione ai cambiamenti indotti dal processo di integrazione europea nelle pratiche di trasformazione del territorio in Italia. Si è inoltre occupata di processi partecipativi e dei rapporti tra piani urbanistici, alle diverse scale, e altri strumenti di trasformazione territoriale. Su questi temi ha pubblicato diversi saggi in ambito nazionale e internazionale.
Tra i suoi libri: Una politica europea per la città? L’implementazione di Urban a Bari, Bristol, Londra e Roma (Franco Angeli, 2005); con Luigi Doria e Valeria Fedeli, a cura di, Rethinking European spatial policy as a hologram. Actions, institutions, discourses (Ashgate, 2006); con Paola Briata e Massimo Bricocoli, Città in periferia. Politiche urbane e progetti locali in Francia, Gran Bretagna e Italia (Carocci, 2009).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 17 GIUGNO 2022 |
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A. M. Brighenti, Il fascino discreto dell'interstizio urbano, commento a: B. Bonfantini, I. Forino, (a cura di), Urban interstices in Italy (Lettera Ventidue, 2021)
R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)
S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)
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