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Dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso fino alla sua scomparsa, Massimo Quaini (1941-2017) è stato uno dei principali protagonisti della geografia italiana. Nel periodo che va dagli anni dell’insegnamento genovese fino alle più recenti vicende della Società dei Territorialisti/e (di cui è stato membro fondatore) ne ha più volte intercettato i problematici itinerari con puntuali e aggiornate riflessioni teorico-pratiche e un instancabile impegno per una geografia democratica. Il libro curato da Daniela Poli, Roberta Cevasco, Carlo Alberto Gemignani e Luisa Rossi – Il pensiero critico fra geografia e scienza del territorio. Scritti su Massimo Quaini (Firenze University Press, 2021) –, articolato in cinque sezioni curate da amici e collaboratori, lo ricorda con simpatia ed affetto ponendo interrogativi sui molteplici nessi che la geografia da sempre intrattiene con letteratura, arte, storia e archeologia, scienze naturali, studi sociali, urbanistica e pianificazione. La riflessione su questi nessi è decisamente anti-disciplinare e sembra favorire lo sviluppo di un pensiero critico con un effetto quasi paradossale: se da un lato contribuisce ad arricchire e rendere pertinenti quei “linguaggi geografici” che tendono a dissolversi negli itinerari della vita, dall’altro sembra privare la geografia di un suo centro ‘semantico’. Questa assenza di centro (molto criticata) viene confermata da un impianto editoriale compreso fra due estremi: da un lato, Quaini come geografo critico e, dall’altro, i suoi rapporti con il Cisge (Centro italiano di studi storico geografici). Fra questi due estremi si depositano tre capitoli, rispettivamente su geografie al plurale, sui nessi fra paesaggio e territorio, e sulla ricerca.
Nella prima sezione (Massimo Quaini geografo critico) Giorgio Mangani fornisce due preziose prospettive di lettura. Lo sviluppo di studi interdisciplinari glottologici, archeologici, storico-naturalistici sembrano aver favorito la storicizzazione dei fenomeni insediativi, restituendo dignità di parola e testimonianza a chi non è in grado di lasciare tracce scritte. L’operazione (avviata all’inizio degli anni ’70) resta di grande attualità, sia sul versante degli studi post-coloniali, sia su quello della proletarizzazione planetaria di popolazioni crescenti. Apparentemente ingabbiata nello scontro epistemologico con Franco Farinelli (iniziato più o meno nello stesso periodo e proseguito fino a La mongolfiera di Humboldt), la seconda prospettiva connota politicamente il discorso cartografico: un discorso, com’è noto, di rappresentazione, legittimazione e potere. Ciò emerge fin dalle critiche di Farinelli a Marxismo e geografia, testo che dialogava con difficoltà con il paradigma dell’«uso capitalistico dello spazio fisico» (a diversa gradazione operaista). Farinelli riteneva che Quaini non avesse sviluppato in modo plausibile una teoria marxiana del concetto di territorio. E a ragione, se si considera che non vi è riferimento sistematico alla teoria della rendita e alla sua utilità nella interpretazione delle logiche di valorizzazione e di urbanizzazione.
A detta di Quaini, Farinelli depotenziava la critica al riduzionismo del sapere geografico (già avviata da Gambi) limitandolo alla bidimensionalità discorso cartografico: una sorta di feticismo, esito di una alienazione cognitiva che limitava gli orizzonti della critica invece di dilatarli, che non sfruttava adeguatamente l’opacità della ‘ragione cartografica’.
La seconda sezione (Geografie) mette a frutto gli esiti della prima, sviluppando il concetto di pluralità: una pluralità che non deriva solo dal contrapporsi di teorie, ma dalla generazione pratica di significati. Con un occhio a Foucault, Valeria de Marcos evidenzia come teorie marxiste e anarchiche abbiano interagito con la geografia, riscattandola da una presunta ‘neutralità descrittiva’ e trasformandola in strumento politico. Oltre a Marxismo e geografia (1974), rispetto al quale continuano a valere le critiche di Farinelli, almeno altri due testi di Quaini insistono sull’argomento: La costruzione della geografia umana (1975) e Dopo la geografia (1978). È in contrapposizione ad una presunta funzione descrittiva e alla sua neutralità che Filippo Celata discute l’esperienza di Geografia Democratica (citando Dematteis, Bonora ed altri), chiedendosi come sia possibile una geografia sovversiva e al tempo stesso al servizio delle politiche pubbliche. La risposta al quesito non è univoca, ma possibile: specie se delle geografie si apprezza il contributo spaziale nell’analisi delle politiche, così come nella costruzione di scenari. E qui le geografie acquistano vigore se si riconosce il ruolo dell’utopia, del mito e dell’immaginario (Francesco Surdich), oltre all’importanza della storia (Rombai) e della guerra. Nell’abbinamento storia e guerra la cartografia viene considerata con la lente degli ingegneri geografi di Napoleone (Valentina De Santi): una fonte decisiva in prospettiva tecnologica e semantica, ma che oggi assume rilevanza ancora maggiore come supporto digitale e in tempo reale all’osservazione, al controllo e alla punizione, se non direttamente all’azione bellica. L’evoluzione storica della cartografia restituisce un prodotto polisemico, dotato di un linguaggio multiplo, che spesso si dissolve in mappe mentali. Da qui maturano concetti di paesaggio lontani dal riduzionismo realista (in versione ecologica, storico-culturale o comportamentale), oltre ai discutibili spunti critici proposti da Quaini nei confronti della geografia quantitativa (discutibili, a mio avviso, perché vittime di un triplo abbaglio: sul significato del dato, sul rapporto dato-informazione e sulla fertile integrazione fra esplorazione e spiegazione).
Nella terza sezione, forse troppo sinteticamente chiamata Paesaggio e territorio, emerge un Quaini “geografo e pianificatore” (Giuseppe Dematteis), in grado di sfruttare le dimensioni critiche ed emozionali della geografia. Questa “figura” sembra suggerire ulteriori risposte al quesito “può una geografia sovversiva porsi al servizio delle politiche pubbliche?”. La geografia innovativa e sovversiva di Quaini considera basilare la descrizione culturale, progettuale e valutativa del territorio, con effetti linguistici significativi, come i concetti di “patrimonio territoriale”, di “descrizione fondativa” o “statuto dei luoghi” assunti con chiarezza ed impegno etico in alcuni testi di legislazione urbanistica regionale. Questi termini hanno un significato forte e alludono a decise pratiche di attivazione. In essi si avverte una tensione volta a superare la dicotomia fra conservazione e valorizzazione, a trattare il luogo come operatore attivo e strutturato in chiave bio-regionalista. Interessanti sono gli stimoli esemplificativi provenienti dalla ‘”sezione di valle” e da logiche di transetto ricordate da Alberto Magnaghi.
Risulta dunque breve il passo verso il progetto di un “dizionario territorialista”, un lessico multidisciplinare per la scienza del territorio che, nella sua formazione, sembra privilegiare un bricolage artigianale, più che dilettantesco. Rinviando al bricoleur di Lévi-Strauss, in grado di adattare i propri schemi mentali e le proprie categorie d’azione, Marcello Tanca ricorda come il bricoleur operi con oggetti che gli sono spesso estranei e posseggono già un loro significato. Egli li riplasma e rinomina, li prova, costruendo nuove configurazioni (come paesaggi e sistemi di valore), utilizzando queste configurazioni come spunto di inferenza e comparazione. In questo agire diventa improprio il richiamo al concetto di identità, per la sua intrinseca staticità e astrazione dalla storia.
Già questi elementi basterebbero a presentare il Quaini “geografo e pianificatore”. Ma ve ne sono degli altri, non meno rilevanti, come l’importanza attribuita alla cartografia storica in sede urbanistica e pianificatoria, il concetto di “museo aperto” e i nessi culturali suggeriti dalle dimensioni emozionali della geografia. Daniela Poli evidenzia come il cartografo operi da “mediatore di saperi”, in un dominio strutturabile per percorsi e posizioni, il cui significato muta nella storia e con i suoi sequenziali lasciti. Paola Pressenda e Maria Luisa Sturani vedono nel museo aperto (landscape museum o ecomuseo) forme di patrimonializzazione del paesaggio più che scenari e contenitori: una convergenza tra museologia e heritage studies. In questa convergenza potrebbero essere messi a punto più efficaci strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica e assumere più forza e valore contestuale gli stessi osservatori del paesaggio (Anna Marson). Francesco Vallerani sottolinea le relazioni fra impegno civile e riflessione culturale che connotano le geografie emozionali di Quaini. Poesia e letteratura operano come “mediazione artistica”, consentono una più profonda comprensione delle stratificazioni di senso e, con i loro linguaggi, aiutano a costruire quadri conoscitivi ‘culturali’ in grado di ridimensionare lo scontro tra retoriche diverse.
La quarta sezione raccoglie contributi sotto la comune denominazione “ricerca” con frequenti rinvii alle sezioni precedenti, ma soprattutto alla vasta produzione scientifico-culturale di Quaini. I temi trattati riguardano il significato di storia locale, la “geograficità” della geografia storica e il rapporto fra geografia e storia, il nesso fra geografia storica, archeologia del paesaggio e dell’ambiente, l’interazione fra geografia e letteratura, la dimensione del viaggio. Emerge un dominio complesso che consente di apprezzare agevolmente il lascito culturale di Quaini.
Nella storia locale si intrecciano gli sguardi epistemologico e storico-geografico (nomotetico e idiografico, viene detto): una ‘apertura’ su diverse declinazioni proposte nel ricco laboratorio ligure (Carlo Alberto Gemignani). Come sottolineano Roberta Cevasco e Diego Moreno, l’approccio dell’ecologia storica (in Italia in più occasioni formulato come ‘microanalisi geografico-storica’) è iscritto da Massimo Quaini all’interno dello sviluppo della geografia. Ma una collocazione analoga, anche se limitata al periodo 1971-74, occupava il nesso fra geografia, archeologia e storia. Anna Maria Stagno e Vittorio Tigrino ricordano come il più noto esito di quell’incontro fossero la fondazione della rivista Archeologia Medievale e le meno note (ma non per questo meno influenti) prime elaborazioni di quella che si presenterà come Archeologia Rurale. Qui la storia della cultura materiale non si intendeva semplicemente come studio archeologico della cosiddetta “cultura materiale” (degli oggetti, per intendersi), ma la storia della società fatta a partire dagli oggetti e non necessariamente attraverso fonti archeologiche. L’approccio creò, com’era da aspettarsi, un conflitto insanabile.
Maggiore successo ebbero, invece, le ricerche che cercavano di far dialogare la geografia storica con l’archeologia del paesaggio e dell’ambiente (Alessandro Panetta e Valentina Pescini). In queste ricerche emergono stimoli interessanti per l’archeologia del paesaggio. Ad esempio, processi di popolamento (o spopolamento) sono correlati a cambiamenti negli ordinamenti colturali e progetti di archeologia di superficie nascono come corollario topografico di scavi archeologici. Inoltre, prende forma una concezione “topografica” dell’archeologia del paesaggio che informa una specifica Archeologia delle risorse ambientali e porta alla creazione di un laboratorio ad essa dedicato.
Ma se il valore dei luoghi e dei paesaggi viene indagato con la precisione dell’archeologo, a Quaini non manca la sensibilità del letterato, e non soltanto alle “geografie letterarie” o ai più noti “parchi letterari”. Nicola Gabellieri evidenzia come Quaini considerasse la fonte letteraria una sorta di “terza via” con valore di “allegoria euristica” (aspetto già evidenziato da Vallerani). Si tratta di un criterio di ricerca ampiamente utilizzato negli studi di Quaini sui cartografi liguri. Qui (riprendendo notazioni di Diego Moreno), l’uso della letteratura come strumento euristico per la caratterizzazione storico-ambientale del paesaggio si sposa con strategie di ricerca tipiche della scuola genovese: l’incrocio tra fonti diverse, la critica filologica della fonte e l’approccio diacronico multi-scalare. La produzione testuale geografica come forma letteraria sembra alludere alla nascita di un nuovo genere letterario, il “romanzo geografico”. La sezione si chiude con il contributo di Claudio Greppi sulla dimensione del viaggio e il ruolo della verticalità che porterà al ‘Manifesto della montagna’ e al convegno nel monastero di Camaldoli (Novembre 2019), nel quale si è sentita la mancanza di una voce.
La quinta e ultima sezione discute i rapporti di Quaini con il Cisge, Centro italiano di studi storico geografici. Si tratta di un contributo biografico con note di Annalisa D’Ascenzo, Elena Dai Prà, Anna Guarducci, Carla Masetti, Massimo Rossi e Luisa Rossi, e con Appendice a cura di Valentina De Santi. I rapporti con il Cisge sono articolati. Ispirandosi a Braudel e Sereni, essi ribadiscono la preferenza per l’approccio tematico, l’interesse per la storia locale e la scala topografica (ancor di più che per la microstoria). Si ricodifica lo stesso concetto di paesaggio che Quaini rintraccia nella Enciclopedia Einaudi. Il riferimento è alla voce redatta da Pomard e Raison, ma ispirata al pensiero del geografo francese Georges Bertrand vicino a Gambi (che riesce a mediare tra dimensione fisica e immateriale). Nei rapporti con il Cisge viene ribadita l’utilità del modello territorialista per le politiche dei beni culturali della Regione Emilia Romagna, condiviso da Andrea Emiliani, Pierluigi Cervellati ed Ezio Raimondi.
Ma ritorniamo alle principali dimensioni del pensiero critico di Quaini. Con una efficace inversione, il testo approda alle sue difficoltà accademiche, ai problemi di riconoscimento, ai testi cestinati (il testo si chiude così), come se un marchio giovanile (con i suoi paesaggi fondativi) accompagnassero ogni sua azione fino alla fine. Nel concorso a cattedra del 1980 il (prof.) Cucagna lo definì “figura scomoda, eversiva, contraddittoria, ancorché di più elevata statura rispetto agli altri concorrenti”, una figura di polemista, un ‘non geografo’, insomma. Ma le controverse valutazioni accademiche non facevano che enfatizzare l’importanza del pensiero critico di Quaini: un fertile feedback, potremmo dire, che ne connotava lo scetticismo riflessivo, da geografo radicale e polemico, molto attento ai geografi anomali e spesso dimenticati. Con quella venatura marxista che resiste alle intemperie ed è sempre attenta alle differenze, essa assume spesso la forma di esercizio di validazione/confutazione, per diventare, con l’aiuto di sguardi incrociati, dilatazione del possibile: uno scetticismo riflessivo che informa anche la sua “postura euristica”. Quaini sembra incline all’abduzione (anche se non ne parla esplicitamente). Nelle pratiche di inchiesta, essa consente di sviluppare esercizi linguistici e metaforici molto fertili. E, in questa postura, la verifica epistemologica non è disgiunta da una verifica storica ‘aperta’, ancorata alla interpretazione delle dinamiche di potere, senza cadere in banale storicismo. Non è solo un piacevole “esercizio di stile”, come viene detto nel testo. Si tratta, invece, di uno ‘scarto’ deciso rispetto al mainstream. In Come nascono i valori Hans Joas la definirebbe una positiva “esperienza di auto-formazione”, di fusione con la natura storica, con i paesaggi, un’entusiastica relazione con il ‘documento’. Nel dibattito sul comunitarismo (e questo lo sanno bene i territorialisti) emerge come ogni sforzo di protezione o riattivazione di valori in pericolo rinvii alla questione della loro genesi. Perché sorgono e tramontano? Quaini evidenzia come i valori di una pratica nascano da esperienze individuali e sociali che mettono in discussione i limiti dell’approccio seguito e presunte identità. Opportunamente declinati, questi valori possono essere trasmessi agli oggetti analitici: luoghi, paesaggi, rappresentazioni, transizioni, e così apprezzati.
L’inchiesta per Quaini ha valore critico (questo è abbastanza ovvio), ma restituisce soprattutto il valore maieutico del sapere locale sia per la fonte (il sapere comune), sia per chi ascolta e indaga. E non si tratta di valori in sé (potrebbero anche esserlo), ma in relazione alle strategie territoriali, non soltanto pianificatorie. Il rapporto fra microanalisi e microstoria locale re-imposta la relazione fra globale e locale, dà significato ai topoi nell’ecologia storica, li posiziona nei cultural landscape à la Geddes, rendendoli tuttavia più spessi, più solidi. In questi esercizi si sovrappongono domini di ricerca e si creano quei depositi linguistici che avrebbero dovuto ispirare il Dizionario. Sembra che il progetto di Dizionario stia nella genesi di questi depositi e che, al di là di una improbabile convivialità, alluda ad un approccio selettivo di temi, problemi, approcci. Un Dizionario severo. Quel progetto avrebbe ancora un senso contingente, di fatto superabile al momento stesso della sua edizione. Ma anche qui emerge con forza una dimensione critica e sommessamente autocritica del pensiero di Quaini.
La sua è una pratica senza confini contro le derive geografiche (che non si stanca di denunciare quando ne ha l’occasione), una forzatura dei confini disciplinari in generale (non solo nello specifico geografico). Nella sua critica non dimostra disagio. Anzi, alimenta quello sforzo rifondativo che il territorio, inteso come laboratorio ed esperienza corporea, sembrava suggerirgli: vivere, cioè, la profondità, evitando le separazioni uomo-natura riprese anche dalla pur eversiva deep ecology e dalla stessa ecologia politica. Il “territorio-laboratorio” è accumulatore di metafore ed esercizio di mapping: come pratica di cittadinanza, di posizionamento spazio-temporale. Nella provvisoria connessione fra problemi, Quaini riconosce opportunità esplorative e costruttive, orienta esercizi comparativi; declina operativamente i concetti di sostenibilità, vulnerabilità, rischio, degrado. Qui si possono collocare gli Osservatori del paesaggio, intesi come dispositivi ‘critici’, non mere casse di risonanza o cinghie di trasmissione tipiche di alcune finzioni o intenzionali ambiguità.
Quaini forza i confini disciplinari e denuncia la loro autoreferenzialità. Se ciò ha reso “orfana” la geografia, l’ha comunque riscattata da discutibili gradi di libertà, ponendola di fronte al suo ‘essere’. Questa forzatura avveniva secondo un approccio filologico alla ricerca di significati comuni, liberandosi delle ridondanze di cui si nutre l’autoreferenzialità disciplinare. E siccome l’approccio filologico è comparativo, comparando ciò che è sopravvissuto in un determinato territorio, si può ricostruire ciò che è andato perduto, si può risalire all’estinto e quindi a ciò che non siamo più o avremmo potuto essere. Il suo sforzo rifondativo in campo geografico è continuo: va oltre gli esiti, il difficile dialogo fra naturalisti, ecologi e storici. Riconosce forme di determinismo geografico anche in chi oggi prende le distanze da un neo-biologismo “aumentato” dall’intelligenza artificiale. Ma in questo caso Quaini ha lasciato il testimone. L’intreccio fra dimensione fisica e digitale (l’essere nel grafo globale) dilata l’indagine sul campo, pone in modo inedito il rapporto fra microstoria e global history, richiede una reinterpretazione dello stesso concetto di stratificazione, di deposito o di patrimonio. Mutano le stesse pratiche di attivazione: non si tratta più soltanto di oggetto geo-storico, perché gli ancoraggi non sono più gli stessi. Anzi, da ancoraggi diventano gradi di libertà rendendo vertiginoso ogni sforzo analitico-progettuale. Diventa difficile (anche se non impossibile) riconoscere “principi di realtà”. La stessa declinazione del “principio territoriale” e la valutazione delle sue pratiche in atto diventano complicate, e Quaini ce ne dà la prova.
Domenico Patassini
N.d.C. - Domenico Patassini, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica allo IUAV di Venezia, è stato preside della Facoltà di Pianificazione della stessa università. Fino al 2020 ha insegnato Cultura della valutazione, collaborando al Collegio docenti della Scuola di Dottorato veneziana. È stato presidente della Associazione Italiana di Valutazione (AIV) ed è tuttora membro del comitato editoriale della rivista "Rassegna Italiana di Valutazione" e della relativa collana edita da FrancoAngeli. Ha svolto e svolge attività di ricerca in campo urbanistico, territoriale, trasportistico e ambientale, assieme ad attività di consulenza come pianificatore e valutatore in Italia e all'estero, in particolare in Africa. In questi domini ha accumulato un vasto repertorio pubblicistico con editori nazionali e internazionali.
Per Città Bene Comune ha scritto: Lo spazio urbano tra creatività e conoscenza (27 ottobre 2017); Urbanistica: una pratica più che una disciplina (14 dicembre 2018); Urbanistica per la città plurale (18 luglio 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 OTTOBRE 2022 |
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