Mi sembra opportuno, prima di prendere la parola, collocare il mio discorso, per quanto marginale, nella storia del pensiero delle donne. La mia età, 84 anni, legittima la convinzione di aver partecipato a entrambe le fasi del femminismo italiano, della parità e della differenza. Ma ritengo di distinguermi per aver tentato, in modo solitario, di definire l’identità femminile al di fuori dal confronto col maschile, riconoscendo la nostra specificità nel progetto materno che ci abita.
In tempi d’ identità multiple, per usare un’espressione di Remo Bodei, quella materna non è certo prevalente ma ha il vantaggio di essere una predisposizione che esiste in tutte le donne. Non intendo soltanto la maternità realizzata ma quella potenziale, rappresentata dal corpo e dall’immaginario femminile.
Evocarla e condividerla ci permette di affermare che la Pace è possibile, pensabile e realizzabile. Quando una donna entra in contatto con le sue risorse e con le sue possibilità trova, già predisposto, un modello di Pace.
Un modello latente nel corpo e nella mente femminile, ma che, una volta espresso, diventa una proposta valida per tutti, soprattutto in questo momento storico.
Vediamo di che cosa si tratta.
Il rapporto sessuale, complementare e reciproco, è geneticamente finalizzato a generare un figlio, ma per le donne comporta un impegno in più perché dovranno contenerlo, nutrirlo e infine lasciarlo andare perché viva la propria esistenza e la prolunghi nella specie.
Nulla di più lontano dalla guerra e dai suoi fantasmi di distruzione e di morte.
Poiché le donne non hanno mai fatto la guerra, anche se ne sono state vittime, né finora si sono attribuite, come gli uomini, il diritto di uccidere (per secoli l’esercito è stato esclusivamente maschile) ritengo che la loro parola in ordine alla Pace meriti di essere ascoltata.
Grazie dunque a Marco Tarquinio, direttore di Avvenire e a Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura, per avere, e non solo oggi, dato valore al pensiero femminile.
Con voce di donna
Analizzando la crisi che sconvolge noi stessi e il mondo, Edgard Morin invita a pensare, a riflettere, senza precipitarci a fare, ad agire.
Quella che stiamo vivendo non è soltanto una crisi economica, sociale ed ecologica afferma. Questa è soprattutto una crisi del pensiero. “Svegliamoci!” è il titolo del suo ultimo libro, che lascia incerti se dobbiamo destarci da un sogno o da un incubo.
La contraddizione è particolarmente evidente oggi, nel momento in cui tutto sta cambiando. La natura, abusata da secoli, si sta ribellando; la scienza mostra l’irrazionalità dei fini celata dall’apparente neutralità dei mezzi; l’economia scopre l’impotenza contenuta nelle sue pretese di onnipotenza e la società si confronta con l’incapacità di governare un mondo globalizzato La minaccia atomica, che incombe come “soluzione finale” di un conflitto irrisolvibile, rinvia alla “fine della storia” profetizzata trent’anni fa dal politologo Francis Fukiyama.
Da tempo Freud aveva denunciato tre fondamentali impossibilità: governare, educare e curare. Eppure i loro scopi, impossibili da portare a compimento, sono i soli, concludeva, che valga la pena di perseguire.
Tutti e tre (il governo, l’educazione e la cura) sono coinvolti nella parola Pace, tra le più antiche del mondo divenuta, attualmente, necessaria e urgente.
Come avverte Papa Francesco, non siamo di fronte a un’epoca di crisi ma alla crisi di un’epoca, a un crollo repentino, che coinvolge tutti. Di qui l’invito a restare umani. Ma siamo capaci di pensare in termini di “umanità” ? Il pensiero delle donne ha dimostrato (Mi riferisco in particolare al libro “Nonostante Platone” della filosofa Adriana Cavarero) che il concetto universale di Uomo (con la U maiuscola) apparentemente neutrale, ha riguardato, nella storia plurisecolare del pensiero, soltanto gli uomini liberi e adulti escludendo l’altra metà del cielo: il genere femminile. Un genere che si è pensato e modellato dal punto di vista degli uomini, introiettando le loro valutazioni, condividendo i loro scopi.
Vi sono state, storicamente, vistose eccezioni ma, in generale, la comunità delle donne ha intrapreso da poco a pensare partendo da sé, dalla propria specificità: mezzo secolo contro millenni di pensiero maschile. Il femminile materno non ha potere ma potenza. Non chiede autorità (che può essere imposta con la forza) ma autorevolezza (che solo gli altri possono attribuire).
La presenza delle donne (che tali sono non per anagrafe ma per coerenza con la loro identità) avviene in un momento particolarmente difficile, quando il pensiero umano si sta rivelando inadeguato a se stesso.
Si ha l’impressione che conseguenze del progresso tecnico e scientifico, come gli algoritmi, il multiverso, l’intelligenza artificiale o la robotica più avanzata, eccedano le nostre possibilità di controllo.
Inoltre, anche quando riusciamo a capire razionalmente, ci sfugge il comprendere, il sentirci emotivamente coinvolti nella realtà, che non è solo circostante, ma fuori e dentro di noi.
Alla contrapposizione tra dentro e fuori, micro e macrocosmo, si sottrae il corpo femminile, retto da cicli cosmici, collegato con le fasi lunari, in sintonia con le maree, sensibile all’alternarsi delle stagioni, prossimo a quello che gli antichi chiamavano “anima mundi”. E al tempo stesso partecipe della società, coinvolto nelle sue contraddizioni.
Tutto quello che abbiamo pensato come separato si è rivelato interconnesso, tutto quello che abbiamo pensato come rassicurante si è rivelato perturbante.
Persino il concetto di “natura” ha perso la funzione convalidante e normativa svolta da Aristotele in poi.
Da quando la Madre Terra, con la visione meccanicistica e l’utilizzo industriale delle sue risorse, è stata dissacrata, ci sentiamo autorizzati a sfruttarla irresponsabilmente. Benché gli scienziati si affannino a spiegare che il disastro ecologico è la conseguenza del nostro comportamento, il coinvolgimento collettivo non scatta e la responsabilità non si mobilita.
Eppure la fecondità umana, entrata in una crisi che si teme irreversibile, ci pone di fronte, non solo al rischio di perdere la più radicata e potente delle relazioni, il rapporto tra i sessi nella filiazione, ma anche alla possibile sparizione della nostra specie. Tuttavia la previsione non ci spaventa perché riguarda uomini e donne sempre più vecchi, egoisti e soli.
Il desiderio di generare pertiene a uomini e donne, ma l’immagine di figlio, che chiamo il “bambino della notte”, emerge inizialmente nella fantasia femminile mentre il desiderio paterno entra in scena in un secondo tempo, condividendo l’immaginario della partner. Nelle giovani donne però la prospettiva della maternità, rinviata a data da destinarsi, sopraffatta da altre istanze - la carriera, il successo, la popolarità, - rischia di diventare l’impensato della nostra epoca. L’anestesia del desiderio di maternità costituisce il sintomo più rappresentativo della crisi complessiva della nostra epoca. Ed è significativo che Sofocle, quando elenca le terribili conseguenze delle colpe di Edipo, citi l’infecondità delle donne.
“La città, come tu stesso vedi, dice un Sacerdote a Edipo, ormai è troppo agitata, e non riesce più a sollevare il capo fuori dagli abissi e dalla micidiale tempesta, languendo nei germi fruttiferi della terra, languendo negli armenti …e nelle donne, che non possono più generare; e …. una terribile pestilenza, abbattutasi sulla città la flagella ….e Ade si arricchisce di singhiozzi e di pianti.”
La catastrofe annunciata richiama l’eterna competizione tra Eros e Thanatos, Amore e Odio, Principio di vita e Principio di morte, una concezione antagonista del mondo che inizia con Empedocle e procede, attraverso Platone e Aristotele, sino e oltre Freud.
È indubbio che la guerra d’aggressione si collochi dalla parte dell’odio, del male, del Principio di morte, soprattutto quando lo scopo diviene la guerra stessa, quando non se ne prevede la fine, né si contemplano limiti e misure al suo inesorabile procedere.
In questo conflitto eterno l’intervento della riflessione femminile si pone dalla parte del principio di vita, di Eros, non in modo astratto e impersonale ma dando voce a un “pensiero incarnato”, secondo una concezione centrale nel verbo cristiano, anche se inteso qui in un’accezione meramente terrena.
Come premesso, quando dico “pensiero materno” non mi riferisco esclusivamente alle donne che hanno figli ma lo considero una potenzialità di tutte le donne in quanto tali.
Nella convinzione che il pensiero è corporeo e il corpo è pensante, come testimoniano le esperienze mistiche, invito a considerare il corpo e la mente femminili contraddistinti, non dalla necessità, ma da un’autonoma, libera disposizione a procreare. Una possibilità che si può accettare, rifiutare oppure sublimare pensando e agendo maternamente.
Ma che trova il suo modello nella procreazione, nel senso creativo di mettere al mondo un individuo unico, irripetibile, inconfrontabile, uguale solo a se stesso, in ogni caso un “capolavoro”, nel senso artistico del termine.
Un evento che pur singolare, produce una totalità universale.
Come scrive Adrienne Rich: “Tutta la vita umana nel nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna…Per tutta la vita e persino nella morte, conserviamo l’impronta di questa esperienza”.
Con questa osservazione, sinora incontrovertibile, siamo approdati, iniziando dalla singolarità di ogni nato, a una dimensione universale, quella dell’umanità partorita da corpi femminili e materni.
Se la condizione di figlio costituisce un universale, lo stesso accade per la condizione di madre, estesa a tutte le donne in quanto portatrici di un programma di vita che rappresenta, nella sua idealizzazione, un paradigma etico.
Un paradigma destinato a divenire un residuo storico se non riusciamo a proiettarlo in un futuro possibile e desiderabile, a iscriverlo in una società giusta, non mortifera ma generativa.
Suppongo tuttavia il concetto di “maternità” possieda una permanenza che resiste alle contingenze storiche costituendo un riferimento perenne.
Premetto che quando il pensiero affronta questo ideale, che potremmo definire, con Platone, un “paradigma in cielo”, s’imbatte in una zona d’ombra che non riuscirà mai a perimetrare e a illuminare del tutto. Cerniera tra corpo e mente, dentro e fuori, conscio e inconscio, natura e cultura, identità e alterità, immanenza e trascendenza, la maternità è un laboratorio aperto di pensieri e immagini. “Come ogni archetipo, scrive Jung[1], anche quello materno possiede una quantità pressoché infinita di aspetti”.
Aspetti ambigui e contradditori come rivelano le figure della strega e della matrigna che si celano dietro la Fata e la Madre.
Ciò nonostante, il processo di “mettere al mondo”, di “dare alla luce”, possiede elementi positivi che si oppongono a Thanatos, alla distruttività della guerra, al nichilismo del non senso, al prevalere del negativo che genera e perpetua i conflitti.
Ed è proprio questi elementi che intendo recuperare per offrire ai pensieri di Pace un riferimento etico declinato al femminile.
Questo modello prescinde dalla contrapposizione elementare di amico-nemico, cara a Carl Schmitt, così come dalla valutazione dei torti e delle ragioni, delle cause e degli effetti del pensiero logico e calcolante.
La maternità, in quanto contempla un’accettazione totale dell’altro, l’appartenenza a una comune umanità, precede ogni distinzione, differenza, opposizione.
Ne evocherò qui alcuni tratti che ritengo eticamente significativi.
Il percorso materno inizia prima della nascita: è previsione, immaginazione, attesa, apertura al futuro. Proprio quello che manca al nostro mondo, incapace di emergere dall’esistente, di affrontare l’azzardo dell’ignoto.
Dopo la fecondazione, l’embrione viene accolto nel grembo materno senza suscitare resistenze. Eppure si tratta geneticamente di un estraneo che, come mostrano le difficoltà dei trapianti d’organo, dovrebbe essere colpito da reazioni immunitarie. Ma il rigetto non avviene e i “due in uno” convivono in una forma di ospitalità incondizionata che contraddice l’originaria ostilità hobbesiana dell’homo homini lupus.
La differenza tra questa accoglienza e i mortiferi respingimenti attuati dalle nazioni di confine nei confronti degli immigrati mostra da sola quanto la maternità possa costituire un paradigma morale.
Durante la gestazione si attua una sintonia fisica e psichica unica e insostituibile.
Ma il corpo materno non è una prigione e il cordone ombelicale non è una catena, tanto che, dopo nove mesi, a “ lavoro ben fatto”, come recita la formula dell’artigianato medioevale, prodotto e produttrice si separano.
Dopo il parto, quando madre e figlio s’ incontrano per la prima volta, quando per la prima volta i loro sguardi s’incrociano, avviene un riconoscimento che trasforma un cucciolo della razza umana in un figlio. In quel momento il nuovo nato, inserito nel triangolo edipico della famiglia, diviene un membro della società.
Un riconoscimento che attualmente, come mostra l’opposizione allo ius soli, persino allo ius scholae, è ostacolato, per quanto riguarda i figli di immigrati, dal riflesso immunitario del corpo sociale, un rigetto così irrazionale da contraddire persino i propri interessi.
Il neonato umano giunge sulla terra pieno di potenziali risorse ma impreparato a vivere. A lungo rimane dipendente da un altro, per lo più la madre, per la sua stessa sopravvivenza
Winnicott, analizzando questa condizione, sostiene che i figli dovrebbero rispondere alla dedizione materna con una gratitudine profonda. Ma poiché nessuno, in particolare i figli maschi, vuole ammettere di essere stato, in un periodo della sua vita, totalmente dipendente da una donna, questo “ grazie” non viene mai formulato col risultato, conclude Winnicott, che gli uomini hanno paura delle donne e che forme d’odio nei loro confronti si riscontrano in tutte le culture.
Ma che c’entra questo con la Pace e con la Guerra? C’entra perché l’odio, se non è stato riconosciuto ed elaborato, cerca obiettivi sui quali riversarsi, argomenti con i quali giustificarsi, corpi sui quali rivalersi e la Guerra offre in questo senso una risposta esauriente.
Ma proseguiamo: nel primi anni di vita del bambino il rapporto con la madre è caratterizzato da un attaccamento esclusivo e incondizionato.
Se lo consideriamo come una delle possibili interazioni umane, esso si mostra così dissimmetrico da configurarsi come la più estrema forma di dominio.
La madre possiede nei confronti del suo piccolo più potere di quanto un tiranno ne eserciti sui propri sudditi.
Il possesso del padrone sullo schiavo, il dominio del signore sul servo, dell’aguzzino sul prigioniero risultano ben poca cosa nei confronti della presa materna sul neonato.
Gli adulti possono mantenere margini di libertà interiore - come raccontano i prigionieri che, nei campi di sterminio, sono sopravvissuti ai tentativi di annientare la loro identità rievocando brani dei poemi omerici - mentre i bambini piccoli, assolutamente dipendenti dalla madre, non possono neppure pensare di vivere senza di lei. Il loro attaccamento è totale e incondizionato.
Eppure il possesso materno non diviene mai, salvo patologie, arbitrio, volontà di soggezione, annichilimento dell’altro.
Invece di occupare il posto del potere assoluto, la madre si sdoppia: da una parte accoglie e protegge il bambino, dall’altra ne promuove l’ emancipazione a costo di favorire ciò che più teme, la loro separazione.
Rinunciando al bambino perfetto che aveva vagheggiato durante l’attesa, lascia, non senza ambivalenze e contraddizioni, che il figlio divenga se stesso, magari molto diverso da come lo aveva sognato e cresciuto. Contribuiscono alla realizzazione di un reciproco allontanamento anche l’intervento del padre e l’impulso del bambino all’autonomia. Tuttavia la presa di distanza promossa dalla madre non si trasforma mai in abbandono perché non sospende il coinvolgimento, la disponibilità, la responsabilità.
Sempre in senso figurato, la vicenda materna testimonia che la libertà trova il suo modello nei primi passi, quando la madre abbandona la presa con cui sorregge il piccolo e lo guarda allontanarsi insicuro, ma determinato a divenire se stesso. Non da solo ma in riferimento agli altri.
La dialettica del riconoscimento costituisce la precondizione per la Pace e credo che essa possa realizzarsi con più facilità tra donne in nome dell’identità materna che unisce indipendentemente dalla lingua dai confini, dalle differenze sociali, dalle ideologie, dai costumi.
La madre, in quanto principio di Vita, non rientra nelle logiche mortifere del conflitto bellico. Perché sopravviva una speranza di Pace deve conservare almeno un figlio. Ricordate il film “ Salvate il soldato Ryan” ?
La guerra, mandando i giovani a morire, colpisce innanzitutto le madri che nel lutto si uniscono e lottano insieme come nel caso delle Donne in nero e delle Madri della “Plaza de Majo”.
Ma perché non farlo prima, finché i figli sono vivi? Perché non ora ? I Greci avevano immaginato, nella commedia “Lisistra” di Aristofane, che le donne ateniesi e spartane si siano alleate per costringere, con uno sciopero sessuale, i loro uomini a fare la pace.
È uno scherzo, ma rivela che le donne hanno, in quanto tali, la possibilità di intervenire sul conflitto, di porre fine allo scontro.
Pensare, sentire, parlare e agire in conformità alla propria identità di genere è performativo, trasformativo. Le donne si alleano più facilmente quando, sottraendosi alla logica maschile che divide e contrappone, si riconoscono simili, prossime, fluide come acqua nell’acqua.
Pensieri ed emozioni si espandono finché una mente li accoglie sospendendo le difese immunitarie costituite da abitudini, stereotipi, pregiudizi. Ciò vale per tutti ma in particolare per le donne che, nella gestazione, si contengono l’una nell’altra, di madre in figlia, come le matrioske russe.
Lacan insegna che i significanti (le espressioni simboliche) fanno Rete, prolificano e si diffondono indipendentemente di chi li ha pronunciati e Bion parla di un “pensiero senza pensatore”, costituito da “pensieri vagabondi, pensieri che sono nell’aria, da qualche parte”.
Pensare la Pace, Pregare per la Pace, testimoniare la Pace in nome di una identità femminile e materna produce un’eco che valica i confini tra nazioni sino a raggiungere donne che vivono isolate nelle immense pianure della steppa russa, sui monti del Caucaso o in Siberia, così come nelle città e nei paesi eucraini colpiti, talora distrutti, dalle bombe. I loro gesti sono i nostri, le loro passioni ci appartengono.
Probabilmente non le conosceremo mai ma se le evochiamo dentro di noi, se proviamo per loro sentimenti di sorellanza, riusciremo a pronunciare insieme la parola Pace (MIR tanto in russo quanto in eucraino), un’aspirazione alla Vita che, condivisa, può cambiare il corso della storia.
Come scrive Gabriella Golzio, con le capacità sintetiche delle poesie:
mater materia misura forma formula madre magra di dio dedita lacera lamina fera avida pavida ruvida giara foemina trepida rapida piena lacrima lumen: luce leggera.
[1] Jung, “aspetti psicologici dell’archetipo della madre” in “OPERE” , Boringhieri, pag. 82.)