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L’ultimo libro di Giuseppe Dematteis – Geografia come immaginazione. Tra piacere della scoperta e ricerca di futuri possibili (Donzelli, 2021) – raccoglie nove testi scritti fra il 1986 e il 2009 e precedentemente pubblicati in volumi e riviste (1). Sono testi che hanno una vita propria e affrontano diverse questioni – dal paesaggio ai beni culturali, dalla metafora geografica alla biodiversità e diversità culturale nei processi della globalizzazione – ma che, nel loro insieme, costruiscono un dialogo, fra loro e con l’introduzione di Dematteis e la postfazione di Arturo Lanzani, attorno a un’idea di geografia. Un dialogo che prende sul serio la domanda: cos’è (cosa può essere) la geografia in un momento in cui tutto il mondo è già stato scoperto ed esplorato? Tale domanda riecheggia, più o meno direttamente, alcune di quelle che pone Dematteis nelle prime pagine de Le metafore della terra. La geografia umana fra mito e scienza (1985), un libro che attraversa molte delle pagine di questo volume e che costituisce uno dei più importanti contributi della geografia italiana alla messa in discussione della “presunta innocenza” della descrizione geografica, superando al contempo il vecchio paradigma determinista e la fascinazione modellistica degli anni Sessanta. Arturo Lanzani, nella postfazione del volume, ne scrive come di «un potente lampo di pensiero non adeguatamente colto dai geografi contemporanei» (p. 165) sia per la mancata traduzione in inglese sia per la resistenza della cultura geografica italiana del periodo. Nonostante l’almeno parziale indifferenza della geografia del periodo, Le metafore è un libro importante e ha comunque scavato nel profondo, segnando un solco in coloro che si sono avvicinati alla geografia in Italia negli anni successivi.
Se le domande con cui si apre Le metafore della terra sono il filo rosso che lega i testi raccolti in questo volume, a esse fa da corollario una questione centrale. Proprio quando il mondo sembra essere tutto noto, e abbiamo a disposizione (più o meno facilmente) dati, mappe, tecnologie ecc. che producono e riproducono certezze, una geografia poetica che, come scrive Dematteis, «fa emergere dal fondo oscuro della Terra mondi nuovi che prima non esistevano» (p. 17), appare quanto mai necessaria. La necessità di geografia non è però una difesa aprioristica della disciplina (attività in sé noiosa, senz’altro poco rilevante e interessante), ma l’urgenza di confrontarsi con la “carne del mondo” per citare Merleau-Ponty, un autore caro a Dematteis. Una carne quanto mai esposta in questo momento e che richiede di provare a praticare una geografia che usa l’incertezza e il dubbio (e Dematteis cita, a questo proposito a pagina XVI, Italo Calvino che scriveva: «la geografia si istituisce come scienza attraverso il dubbio e l’errore»), che formula domande, che si avvale di intuizioni poco certe e poco chiare; una geografia ricorsiva ed esplorativa, che prova continuamente ad aprire l’esistente a nuove interpretazioni e scelte. Necessaria è cioè una geografia che, come scrive Dematteis, ci aiuti a «sospendere per un istante la forza cogente del mondo, ovvero quella delle sue rappresentazioni [e ci porti ad adottare] una disposizione d’animo analoga a quella dello stupido, cioè l’attitudine a considerare con stupore ciò che per il buon senso è normale» (p. 19). Domande, dubbi, sospensioni fanno la geografia di Dematteis e rimandano e trovano il loro fondamento nella irriducibile (e feconda) ambiguità della disciplina che, come l’oracolo di Delfi, «non dice né nasconde, ma indica» (Eraclito, framm. 93; cit. p. XVII); come un Giano bifronte, oscilla fra ciò che rassicura e ciò che inquieta, «fra l’illimitata apertura delle immagini poetiche e il rigore definitorio delle scienze dure» (p. XVII). Una geografia che non può che essere immaginativa e ripetitiva, rivoluzionaria e conservatrice, che «invece di usare le rappresentazioni spaziali per affermare la necessità di questo mondo, (…) [apre] a nuovi mondi possibili e ne (…) [dimostra] al tempo stesso la contingenza» (p. 125). Una geografia lontana da ogni semplificazione e riduzione, che si nutre e rivendica la molteplicità delle possibili letture del mondo, che pone al centro del discorso l’immaginazione e afferma il ruolo politico del campo delle possibilità. Invece di contenere e ridurre l’irriducibile complessità del reale, la geografia di Dematteis usa l’astrazione per mediare tra quadri di riferimento diversi spogliandoli della loro presunta assolutezza e amplifica il portato creativo della metafora per situarsi nell’ecologia del mondo in termini positivi e propositivi.
I testi raccolti nel volume girano attorno a questa idea di geografia, andando avanti e indietro nel tempo, riprendendo miti e autori classici, della geografia e della filosofia, intrecciando riferimenti a letterature e luoghi. Da questo intreccio emergono tre aspetti che connotano, mi sembra, la geografia di Dematteis. Il primo aspetto è il farsi contaminare da tanti autori, scritti, esperienze: l’idea di geografia che troviamo in questo volume è, per il suo contaminarsi, una geografia non disciplinare e, al contempo, risolutamente disciplinare. È infatti sempre rivendicato il compito, il ruolo, la specificità della geografia; è sempre richiamato il valore della classica descrizione geografica, senza alcuna concessione, invidia o scorciatoia, ma prendendo coscienza e praticando il suo lato oscuro. Il secondo aspetto è la dimensione pubblica della geografia che deriva non solo (o non tanto) da un diretto impegno politico, ma dall’ambiguità e dalla non neutralità della descrizione geografica, dal ruolo dei valori come “forme di ragionamento” che definiscono specifiche “visioni del mondo” capaci di fare «fare emergere del senso che, pur andando contro il buon senso, può produrre consenso» (p. 24). Il terzo aspetto, infine, è il rapporto con la Terra che attraversa, da sempre, la geografia di Dematteis e che, soprattutto nei testi più recenti, si configura come invito a un radicale ripensamento delle relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente, alla discussione critica di letture con cui a lungo Dematteis ha intrecciato dialoghi e ricerche, come ad esempio il territorialismo di Alberto Magnaghi, a superare i limiti di visioni comunque intrise di antropocentrismo.
Tre percorsi di lettura, tre fili di ragionamento
Ci sono tanti modi per leggere questo volume, sia per chi è più avvezzo alla geografia sia per chi non lo è. Credo che, per questi ultimi, il libro sia soprattutto una scoperta: la scoperta di un mondo, di una visione del mondo, aperta e dialogante, che va avanti e indietro nel tempo, che intreccia riferimenti, che mostra quanto e come la geografia sia (possa essere) bella ed emozionante, e sia fatta anche di bellezza ed emozioni. Ma accanto alla scoperta, sono tre i possibili fili che possono essere seguiti nella lettura del volume.
Una lettura biografica: le metafore della geografia e la poetica dello spazio
Il primo filo è forse il più banale. Benché i testi raccolti nel libro non siano presentati in ordine strettamente cronologico, un possibile filo per leggere il volume è una sorta di lettura biografica, alla quale sembra invitare lo stesso Dematteis nell’introduzione quando, ad esempio, racconta il suo “apprendistato” da geografo nella lettura dei romanzi di avventura e nei viaggi immaginati sfogliando un atlante; nell’esplorazione delle valli occitane della montagna piemontese; nelle lezioni di Norberto Bobbio e Luigi Firpo; nell’ingresso nella geografia accademica insieme a Ferdinando (Dino) Gribaudi. Brevi note che ci parlano però di alcune delle passioni di Dematteis: la letteratura, la montagna, la “filosofia militante“ di Norberto Bobbio (e degli studi di Bobbio su Carlo Cattaneo) e, ovviamente, la geografia (2).
La lettura biografica permette di seguire il farsi del pensiero di Dematteis, un pensiero che si intreccia con altre discipline e altri campi del sapere e che ci parla anche del dibattito della geografia e dei tanti saperi che si interrogano sulla città e sul territorio, dei loro cambiamenti, ma anche del cambiamento dei fenomeni, delle urgenze che si pongono con evidenza a Dematteis, pur essendo in qualche modo inscritte fin dall’inizio nella sua geografia (penso, in particolare al rapporto con la Terra, alle relazioni ecologiche e al loro intrecciarsi con le questioni inerenti alla diversità culturale). La lettura biografica permette di individuare alcuni capisaldi. Il primo, e forse anche il più presente, è Lucio Gambi (1964 e 1973) e la sua geografia dei valori e dei problemi. Partire dai problemi è, per Gambi, la ragion d’essere della geografia. Scrive Gambi (1973): «la geografia è formata da un nodo di specifici problemi e vive in funzione di questi problemi» (p. 205). Formulazione cui si collega l’impegno sociale e civile della ricerca, inscritta pienamente nella concezione di Carlo Cattaneo cui Gambi si riferisce in maniera esplicita: se per Cattaneo la scienza è utilità sociale, Gambi rivendica un ruolo attivo per la geografia che, come ogni disciplina e ogni attività di ricerca, deve operare intrecciando indissolubilmente la dimensione scientifica e la dimensione politica.
La concezione attiva della geografia di Gambi sottolinea il contenuto ineludibilmente politico del sapere geografico e costituisce, come ricorda Pasquale Coppola (altro interlocutore importante nel farsi della geografia di Dematteis), una delle radici di Geografia Democratica, un collettivo di geografi e geografe radicali attivo fra il 1976 e il 1981, che intendeva contrastare «i segni e le ragioni di una normalizzazione del mondo e delle sue letture» (Coppola, 2007, p. 270) (3). Geografia Democratica porta a compimento la critica al vecchio paradigma determinista avviata dalla visione storicistica di Lucio Gambi (e del gruppo raccolto attorno a Francesco Compagna e alla rivista Nord e Sud) e, benché costituisca un’esperienza ingombrante (Cavallo, 2007) e per tanti versi ancora da interpretare compiutamente (Celata, 2021), rappresenta una delle basi su cui Dematteis costruisce la critica alla descrizione geografica “normale” e la discussione circa le possibilità (ma anche i limiti e le difficoltà) di una geografia come rappresentazione metaforica dello spazio geografico. Una geografia che, come scrive Dematteis, è «metaforica, immaginativa, aperta, poetica, non deterministica e nichilista» (p. 6).
La lezione della geografia metaforica di Dematteis si situa su diversi piani. Prima di tutto, ci riappacifica con la geografia, che non è quella cosa finita e chiusa che pensavamo, ma è sempre esplorazione e continua scoperta. Ma, più nello specifico, la geografia metaforica riformula il compito della classica descrizione regionale chiamata a descrivere non già le certezze e la stabilità, ma l’inatteso e il mutamento. Essa è dunque un invito a riconoscere e praticare il processo creativo, e potenzialmente sovversivo, proprio di ogni descrizione: con la metafora, la geografia diventa nuovamente “esplorazione e scoperta”; con la metafora, la geografia si apre a descrivere non il mondo così com’è, ma i mutamenti e le innovazioni che cambiano incessantemente e richiedono incessantemente di essere decodificati e descritti; con la metafora, «lo spazio geografico non sarà più usato per mostrare stati di cose solidificati, ma per scoprire le propensioni insite in essi, per passare dalla necessità dei fatti al dispiegarsi delle possibilità che essi racchiudono. In sintesi: per mostrare quali sono oggi le condizioni di un divenire possibile» (p. 158).
La ricerca del mutamento e di un divenire possibile può però essere di segno diverso; la geografia, l’ambiguità costitutiva della geografia, può cioè servire, con le sue descrizioni, una varietà di interessi e disegni. Se lo spazio geografico non è la realtà, ma un operatore soggettivo con cui descrivere la realtà, sia le geografie normali sia quelle metaforiche sono infatti delle astrazioni, dei modi attraverso i quali proviamo a decodificare la complessità del reale. Si pone qui un problema non da poco che costituisce una delle questioni affrontate nella discussione sul postmodernismo in geografia e nella presa di distanza che ne fa Dematteis nel testo “La metafora spaziale è postmoderna?”. Se la geografia metaforica permette di riconoscere e praticare la pluralità delle possibili geografie di ogni luogo (e quindi supera le pretese, le illusioni e i rischi di assolutezza della descrizione geografica normale), questo non implica l’intercambiabilità di ogni descrizione (e visione) del mondo.
Per confrontarsi con questo problema, Dematteis si concentra sulla progettualità descrittiva della geografia. Per Dematteis, infatti, la descrizione geografica è sempre, anzitutto, un’interpretazione dei luoghi e, come tale, rivolta a delimitare il campo “del possibile”: delle attese, degli interventi, delle trasformazioni, di modo che essa è sempre intrinsecamente valutativa e implicitamente progettuale. Non potendo esserci una descrizione esaustiva, descrivere significa selezionare secondo certi criteri di pertinenza che, coscientemente o meno, corrispondono ai motivi per cui si descrive: «Insomma - scrive Dematteis nel 1999 - descrivere vuol dire scegliere e la scelta deve far riferimento a certi obiettivi. Ciò che ci fa dire che una descrizione è vera o falsa è la sua coerenza con gli obiettivi che essa si propone, cioè la pertinenza di ciò che mette in scena, dei modi con cui lo presenta, degli ordini in cui lo dispone» (p. 167).
La pertinenza, dunque, criterio operativo certo, ma anche scivoloso. Nell’ultimo testo contenuto nel libro (“Zeus, le ossa del bue e la verità degli aranci”, del 2008) la pertinenza rispetto agli obiettivi della descrizione è messa in discussione con riferimento alle possibilità di azione che si aprono a partire da una certa descrizione del mondo e ai contenuti etici che ogni azione pone. Verità e giustizia sono i due concetti attorno ai quali ruota la riflessione: quale, fra le molte geografie possibili, è quella vera? Qual è, in definitiva, la verità della geografia? E, soprattutto, qual è la connessione, teorica e pratica, fra verità e giustizia, descrizione geografica e norma etica? Secondo Dematteis «il vero si applica alla reale esistenza dei fatti e delle loro relazioni spaziali, il giusto si riferisce all’agire che deriva da come questi componenti vengono scelti e combinati nelle descrizioni geografiche» (p. 159). In sostanza, il vero si riferisce alla “qualità” della descrizione e alla competenza di chi la svolge, benché la «verità della geografia riguarda più il futuro che il passato e il presente» (p. 158), riguarda cioè il campo delle possibilità, il ciò che può essere anche se ancora non è. Il giusto rimanda invece a un criterio di tipo performativo: «per vero si intende dunque un’efficacia performativa giusta. E giusto non significa solo quello che risulta da una dimostrazione teorica (…), ma anche e soprattutto ciò che (…) si rivelerà sostenibile» (p. 160).
Il collegamento fra verità e giustizia, il richiamo alla sostenibilità, l’idea che ci sia qualcosa che vada bene per ogni essere (umano e non umano) e per ogni luogo sono tutte assunzioni che lasciano sullo sfondo la dimensione del conflitto, delle diseguaglianze e delle diversità che appaiono elementi ineludibili, anzi costitutivi, delle dinamiche spaziali (così come di ogni possibile declinazione della verità e della giustizia della geografia) (4). O rivelano forse il non posizionarsi fra i conflitti, le diseguaglianze e le diversità, la ricerca del consenso più che di disgiunzioni e contrapposizioni. Una simile concezione è pienamente inscritta nel dibattito anglofono sulla public geography (cfr., in particolare, Ward, 2006), ma mi sembra problematica per diversi motivi che rimandano principalmente al significato che attribuiamo alla parola consenso (e a quello di verità geografica) (5). Cosa significa infatti consenso? Il raggiungimento di un accordo? L’individuazione di un denominatore comune? Un processo, continuo, di scambio, di mutuo apprendimento e conoscenza fra una molteplicità di attori? Ma, ancora: consenso intorno a cosa? Al “fare” la trasformazione del territorio, in una prospettiva performativa e di efficienza? Ai problemi da trattare? Ai percorsi di cambiamento possibili e a quelli non possibili? E la costruzione dei problemi, così come la possibilità e impossibilità delle trasformazioni territoriali, da cosa dipendono? Dall’accordo fra attori (come spesso accade) o anche dalle componenti dure e “oggettive” della verità geografica, cioè da quella “verità degli aranci” che ci ricorda Dematteis citando Antoine de Saint Exupéry: «la verità non è affatto ciò che si dimostra. Se in questo terreno, e non in un altro, gli aranci sviluppano delle solide radici e si caricano di frutti, è questo terreno la verità degli aranci» (p.160). La geografia metaforica, inoltre, è più volte presentata da Dematteis come modalità di ragionamento attraverso cui descrivere ciò che non fa parte dei luoghi comuni, il poco noto, il disturbante. Tutto ciò, insomma, intorno a cui è difficile costruire consenso tanto che, secondo Fassin (2009), «la justesse d’une analyse se peut mesurer à l’inconfort qu’elle suscite chez celui qui la produit comme chez celui qui la reçoit» (p. 203).
È la parte meno convincente della geografia di Dematteis, che ha però un orizzonte più ambizioso, e nello stesso tempo più vago, rispetto a quello relativo alle sue possibilità operative così come non è esclusivamente riassumibile nella sua (presunta? auspicata?) utilità. I limiti di una visione banalmente utilitarista della geografia rimandano ai più volte ricordati rischi di asservimento, strumentalità e, in fondo, banalizzazione della geografia che tende ad appiattirsi in una descrizione del mondo che trascura il contenuto critico che può (deve) fornire nella individuazione del “non visibile”, del poco noto, del ciò che può essere anche se (ancora) non è. Al contrario, la geografia poetica di Dematteis usa l’indeterminatezza delle immagini metaforiche per evocare e comunicare il non esplicitabile e, al contempo, per «operare come poiesis nel senso etimologico di fare, enact, eseguire nel dire» (p. XIX).
Le intersezioni e la geografia come progetto
Un secondo filo che può essere seguito nel leggere questo libro è quello di attraversare le tante discipline e i tanti saperi con cui dialoga la geografia di Dematteis (e di cui si nutre la geografia di Dematteis). La letteratura, in primis. C’è molto Calvino, nella geografia di Dematteis (e ce n’era anche molto nella geografia di Massimo Quaini, ad esempio), ma ci sono anche Luis Borges, Wolfgang Goethe e tanti altri. La filosofia: Norberto Bobbio, Maurice Merleau-Ponty, Martin Heidegger, François Julien. C’è l’economia, e soprattutto l’economia dei distrettualisti, di Giacomo Becattini e Giorgio Fuà, ad esempio. Ci sono però soprattutto le discipline del progetto: il progetto urbano, il progetto urbanistico, il progetto di architettura, il progetto delle politiche. In realtà, le discipline del progetto non solo dialogano con, e nutrono la, geografia di Dematteis, ma ne sono anche l’interlocutore privilegiato pur distinguendo bene, come è chiarito nel testo “Geografia, poetica e architettura nella costruzione dei luoghi”, ruoli, responsabilità, ambizioni dei diversi punti di vista e dei diversi saperi. La scelta delle discipline del progetto come interlocutore privilegiato non è scontata per la geografia e, in specifico, per una geografia che si vuole (anche) critica. Anzi. È una scelta per tanti versi eterodossa. L’orientamento al progetto della geografia di Dematteis è, ad esempio, uno degli aspetti al centro della “rilettura controfattuale” de Le metafore della terra di Juliet Fall e Claudio Minca pubblicata nel 2013 su Progress in Human Geography. L’articolo presenta Le metafore della Terra e discute gli incontri mancati fra Dematteis e la geografia internazionale, indica il portato rivoluzionario de Le metafore, che anticipa alcune delle questioni al centro della geografia critica anglofona degli anni successivi, ricostruisce gli orientamenti seguiti da Dematteis dopo il 1985 e la mancata svolta della geografia italiana verso un chiaro orientamento critico e radicale. Senza attribuire a Dematteis e ai dialoghi quasi inesistenti fra Dematteis e la geografia internazionale le colpe della mancata svolta critica della geografia italiana (comunque perseguita testardamente da alcuni, mentre i più si sono acquietati in uno stanco ecumenismo), Fall e Minca si chiedono cosa sarebbe potuto succedere se le idee contenute nel libro del 1985 avessero circolato nel mondo (della geografia anglo-americana, ma anche della geografia italiana in cui la portata della critica radicale contenuta ne Le metafore è stata per lo più trascurata). Al contempo, se la geografia di Dematteis è sempre stata in bilico fra dimensione critica e dimensione operativa, Fall e Minca individuano un progressivo scivolamento verso la dimensione operativa (6). Una parabola che si risolve nella pratica della progettualità implicita della geografia anche, e forse soprattutto, attraverso l’interlocuzione privilegiata con le discipline del progetto quasi che il contenuto sovversivo della geografia metaforica tenda progressivamente a disperdersi nell’operatività e lo stesso Dematteis a ritrarsi dal generoso (e anticipatore) slancio rivoluzionario de Le metafore.
Al di là di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, su cui tornerò nella parte conclusiva di questo testo, rimane da chiedersi quali siano le ragioni dell’interlocuzione privilegiata tra la geografia di Dematteis e le discipline del progetto. Una ragione è forse che, dalla metà degli anni Ottanta, Dematteis ha insegnato in una scuola di Architettura, di modo che molti dei suoi allievi e delle sue allieve erano (eravamo) studenti di Architettura. Un’altra è forse che le scuole di Architettura erano allora luoghi divertenti e vivaci, dove c’erano persone (e personalità) di rilievo, che hanno intrecciato discorsi e ricerche con Dematteis e la sua geografia (da Bernardo Secchi, richiamato da Lanzani nella postfazione, a Luigi Mazza; da Aimaro Isola ad Alberto Magnaghi a Carlo Olmo e Roberto Gambino). Una terza ragione, infine, è forse che la progettualità descrittiva della geografia di Dematteis era davvero “necessaria” nel ridefinire le pratiche di azione dei saperi progettuali, in specifico nello smontare la linearità del rapporto fra conoscenza e azione, per cui prima si conosce – bene – e poi si agisce – bene. Se questa ragione è, almeno in parte, vera, credo che questa necessità sia anche ora quanto mai urgente vista la svolta tecnocratica e neopositivista che pervade molta della ricerca in campo urbano, la potenza semplificatrice della urban science anglofona, le tante ricerche e i tanti progetti che si appoggiano su parole d’ordine insopportabili e insopportabilmente ripetute.
Le aperture possibili: imparare ad andare per il mondo
Chiudo con una terza possibile suggestione per leggere questo libro. E cioè i rapporti, i dialoghi che secondo alcuni, come i già ricordati Fall e Minca nell’articolo del 2013, sono mancati fra la geografia di Dematteis e la geografia internazionale. In realtà, a me sembra che la geografia di Dematteis sia inscritta nella geografia internazionale e nel dibattito geografico internazionale, e ci sia nell’unico modo in cui ha senso esserci: cioè, portando se stessa. Non credo per altro ci sia niente di simile a una geografia italiana, una geografia francese ecc.: credo ci siano autori, autrici, scritti. In questo senso, Fall e Minca (2013) riconoscono quanto e come «Writing about geography through geographers, rather than through national schools or concepts or narratives of progress, means no longer simply narrating tales of linear change in the subject’s traditions (…), but instead remaining open to the institutional sites of the making and reception of knowledge, specifically to ‘the fundamental importance of the spaces where reading literally takes place, for knowledge is produced in textual encounter’ (Livingstone, 2005: 392)» (p. 544). Se è così, è anche possibile iniziare a tracciare una geografia della geografia di Dematteis. Penso ad esempio alle relazioni con Yves Lacoste, in particolare durante l’esperienza di Geografia Democratica, a quelle con Gunnar Olson, con Denis Cosgrove, al lungo scambio con Claude Raffestin. Ma anche al fatto che la geografia di Dematteis, l’esplicitazione e la pratica dell’ambiguità e della soggettività dello spazio geografico, la parzialità e pluralità dei punti di vista della descrizione, la rivendicazione della non neutralità di ogni geografia e dei principi (e valori) che informano (comunque) la definizione delle diverse geografie possibili sono tutti aspetti che riecheggiano nel dibattito della geografia critica anglo-americana, quella erede della geografia radicale degli anni Sessanta e Settanta (che nasce come critica della geografia tradizionale) e della “svolta” neo-marxista della metà degli anni Settanta (radici cui anche Dematteis è in qualche modo legato, e di cui senz’altro si coglie l’influenza ne Le metafore), ma erede anche dell’affermarsi della visione critica e controcritica degli anni Ottanta, con l’avvio della geografia femminista e degli studi sul locale, fino ad arrivare all’eclettismo della svolta post-strutturalista più recente, all’affermazione dei tanti modi di essere critici e all’approccio critico non dogmatico di Ash Amin e Nigel Thrift di cui si ritrova eco nei testi più recenti raccolti in questo volume. Se il dialogo con il dibattito internazionale è mancato (o forse è stato meno intenso di quanto avrebbe potuto) non credo che il problema sia che la geografia di Dematteis (e in specifico Le metafore) non è stata pubblicata in inglese. Credo sia una risposta semplice e forse anche consolante. Non è (solo) un problema linguistico, ma di “privilegio linguistico” che si esprime in termini di controllo e normatività e nella rigida definizione di chi e cosa conta e chi e cosa non conta, di chi può parlare (ed essere ascoltato) e di chi no, da dove si può parlare (ed essere ascoltati) e da dove no (Muller, 2021). Non bastava cioè la traduzione in inglese. La geografia internazionale, angloamericana in verità, è fondamentalmente una geografia chiusa su se stessa e solo adesso, e con grande fatica, si sta aprendo al dialogo con geografie “altre”. Gli spiragli che faticosamente si stanno aprendo mi sembrano collegati a due percorsi diversi: da un lato, un percorso più biografico, che ha a che fare con la mobilità dei percorsi di formazione e ricerca dei più giovani ricercatori e ricercatrici che si laureano in Italia, vanno a fare il dottorato all’estero, ritornano e poi ripartono per poi, eventualmente, tornare di nuovo; dall’altro lato, un percorso epistemologico (e anche politico), difficile e conflittuale, aperto e praticato dalla geografia femminista e post-coloniale, in specifico per quanto riguarda il carattere necessariamente situato della conoscenza, le mutevoli geografie della produzione teorica (Sheppard, Leitner e Maringanti, 2013), la necessaria apertura a posizioni plurali e persino contraddittorie (McKittrick, 2006; Roy, 2015; Robinson, 2015). Non è semplice, non è scontato e non è fatto. Credo però, o almeno mi auguro, che la geografia di Dematteis, il suo posizionamento definito da Lanzani “laterale” (una lateralità positiva e non rivendicativa), il suo modo di praticare una geografia al contempo critica e operativa, poetica e immaginativa, ci possa aiutare nel costruire adesso un dialogo e uno scambio con e nel dibattito internazionale per contribuire, da qui (dall’Italia) a superare i limiti fisici, culturali, epistemologici e mentali in cui ci muoviamo e che hanno forse a che vedere con quello Abyssal thinking del pensiero occidentale moderno (de Sousa Santos, 2007) e della miriade di distinzioni, visibili e invisibili, che operano anche nel campo della nostra capacità di immaginare.
Francesca Governa
Note
1) Questo testo deve molto alle riflessioni di Filippo Celata, Paolo Giaccaria, Chiara Giubilaro, Enzo Guarrasi e Michele Lancione pubblicate nel dicembre 2021 sulla Rivista Geografica Italiana in un forum di discussione sul volume Geografia come immaginazione e sulla geografia di Giuseppe Dematteis, così come a quelle proposte da Laura Montedoro e Filippo Celata il 24 maggio 2022 durante la presentazione del volume alla Casa della Cultura di Milano.
2) Sulla concezione “militante” della filosofia cattaniana, cfr. Bobbio (1971); per Bobbio, una filosofia militante è fondamentalmente una filosofia del dubbio: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. (…) Non vi è nulla di più seducente, oggi, che il programma di una filosofia militante contro la filosofia degli “addottrinati”. Ma non si confonda la filosofia militante con una filosofia al servizio di un partito che ha le sue direttive, o di una chiesa che ha i suoi dogmi, o di uno stato che ha la sua politica. La filosofia militante che ho in mente è una filosofia in lotta contro gli attacchi, da qualsiasi parte provengano - tanto da quella dei tradizionalisti come da quella degli innovatori - alla libertà della ragione rischiaratrice» (Bobbio, 2005, p. 3-4) e, ancora, «al di là del dovere di entrare nella lotta, c’è, per l’uomo di cultura, il diritto di non accettare i termini della lotta così come sono posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione» (p. 5).
3) Coppola (2009) indica nella geografia civile il “centro” del suo fare geografia, collegandola direttamente alla concezione di una geografia per problemi di Gambi, in un itinerario culturale e politico che intreccia Hannah Arendt e gli utopisti, la reine Geographie ed Elysee Réclus. In questo itinerario, la responsabilità del sapere geografico non è solo quella di «costruire un plausibile racconto e una credibile figura del mondo, ma anche nell’orientarvi, posizionandole, le dinamiche del sociale. Convinto – senza protagonismi eccessivi – di avere qualcosa da dire per mettere a nudo le pratiche dell’ingiustizia e dell’esclusione che si dispiegano (nutrendole) nelle dinamiche territoriali e per sondare (non per percorrere in prima persona) le vie del cambiamento, per rischiarare le vie della giustizia socio-territoriale» (p. 10).
4) Ho provato ad argomentare in maniera più ampia la mia distanza rispetto a parte della geografia di Dematteis, in Governa (2014) cui mi permetto di rimandare sapendo quanto l’insegnamento di Dematteis sia sempre stato improntato alla libertà di pensiero e a coltivare il carattere anarchico di parte almeno della mia (e della sua) geografia.
5) Walter Benjamin (trad. it., 2006), nel saggio su Le affinità elettive, scriveva: «La critica cerca il contenuto di verità di un’opera d’arte, il commentario il suo contenuto reale. Il rapporto fra i due determina quella legge fondamentale della letteratura per cui, quanto più significativo è il contenuto di verità di un’opera, e tanto più strettamente e invisibilmente esso è legato al suo contenuto reale» (p. 106).
6) Nella relazione al Convegno dell’Associazione dei Geografi Italiani svoltosi a Varese nel 1980 Dematteis propone una sorta di programma per una geografia critica e operativa: “critica nel senso che non accetta di rappresentare la realtà in nome di un potere o di un ordine dato, senza esercitare sul rapporto tra questo e il territorio una riflessione e un giudizio (…). Operativa nel senso che non si limita a dibattere e criticare, ma interviene praticamente esplorando e indagando in modo sistematico le condizioni geografiche della trasformazione, assieme alle forze sociali capaci di realizzarla (p. 489).
Riferimenti bibliografici
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N.d.C. – Francesca Governa è professore ordinario di Geografia economico-politica al Politecnico di Torino dove insegna Urban geography nel corso di laurea di 1° livello in Architettura e Urban studies nel corso di laurea magistrale in Architettura costruzione città.
Tra i suoi libri: Il milieu urbano. L'identità territoriale nei processi di sviluppo (F. Angeli, 1997; 1999); con Giuseppe Dematteis, a cura di, Contesti locali e grandi infrastrutture. Politiche e progetti in Italia e in Europa (F. Angeli, 2001); con Silvia Saccomani, a cura di, Periferie tra riqualificazione e sviluppo locale. Un confronto sulle metodologie e sulle pratiche di intervento in Italia e in Europa (Alinea 2002); con Egidio Dansero e Cesare Emanuel, a cura di, I patrimoni industriali. Una geografia per lo sviluppo locale (FrancoAngeli, 2003); con Giuseppe Dematteis, a cura di, Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLoT (FrancoAngeli, 2005); con Egidio Dansero e Paolo Giaccaria, a cura di, Lo sviluppo locale al Nord e al Sud. Un confronto internazionale (FrancoAngeli, 2008); con Umberto Janin Rivolin e Marco Santangelo, Costruzione del territorio europeo. Sviluppo, coesione, governance (Carocci, 2009); con Maurizio Memoli, a cura di, Geografie dell'urbano. Spazi, politiche, pratiche della città (Carocci, 2011); Tra geografia e politiche. Ripensare lo sviluppo locale (Donzelli, 2014); con Michele Bonino e Angelo Sampieri, a cura di, The City after Chinese New Towns: Spaces and Imaginaries from Contemporary Urban China (Birkhauser, 2019); con Michele Bonino, Francesco Carota e Samuele Pellecchia, China Goes Urban. La nuova epoca della città-The city to come (Skyra, 2020; catalogo della mostra presso il Mao - Museo d’Arte Orientale di Torino, ottobre 2020-ottobre2021). Ha inoltre curato, con Michele Lancione, l’edizione italiana di: Ash Amin, Nigel Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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