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LE CITTÀ SONO PERSONE CHE FANNO COSE
Commento al libro di Pier Luigi Crosta e Cristina Bianchetti
Ota de Leonardis
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Per una volta bisogna avere il coraggio di dirlo senza mezzi termini: con tutto il rispetto per la disciplina richiesta dalla ricerca scientifica e dal lavoro della conoscenza in genere, l’incombente pressione verso il disciplinamento - tanto essenziale quanto esiziale - richiede contrappesi; richiede di prendere sul serio voci e forme della conoscenza indisciplinate. Tanto più quando, come ora, il disciplinamento ha preso la forma esasperata della standardizzazione, della riduzione della metodica della ricerca a tecniche, magari affidate a software, della dogmatizzazione. Tanto più quando, invece, voci e forme indisciplinate appaiono intellettualmente attrezzate e rigorose, come in questo caso: la voce è quella di Pier Luigi Crosta e sua l’indisciplina metodica di cui sto parlando; il libro, di cui si suggerisce caldamente la lettura, è Conversazioni sulla ricerca, edito da Donzelli nel 2021; e le conversazioni in questione sono tra lo stesso Crosta e Cristina Bianchetti, la quale ha anche introdotto e curato il testo. Esse concernono, come quest’ultima chiarisce nelle prime righe dell’Introduzione, il fare ricerca “avendo come campo di osservazione la ricerca territoriale”. Dunque, siamo dalle parti dell’urbanistica, di cui i due conversatori sono autorevoli esponenti, noti per la loro postura critica (e autocritica) che anche qui ha modo di dispiegarsi. Non è la mia disciplina, ma avendo fatto ricerca a mio modo sui territori e a ridosso degli studi urbani, mi permetto di interloquire. Anche perché, in ogni caso, le tematiche affrontate e le indicazioni di metodo che ne emergono hanno una valenza più generale.
Per dare una prima idea d’insieme dell’approccio che prende corpo dalle riflessioni di Crosta sollecitate dalle interlocuzioni di Bianchetti, colgo un suggerimento di quest’ultima, formulato nell’Introduzione: è la soggettività, quando sia messa in gioco e in valore nella ricerca, l’energia con la quale contrastare il conformismo del pensiero. La soggettività dell’osservatore come quella di chi è osservato: sono due lati della stessa medaglia. Occorre che il ricercatore segua la sua curiosità e la sua immaginazione per uscire dalle categorie precostituite, andando oltre la performance di ruolo, e cercando di mettersi a ridosso delle persone; la cui soggettività, d’altra parte, si esprime nel “fare cose” a modo loro, e facendole fanno – per così dire – la realtà in cui vivono, nella fattispecie “fanno i territori”, come Crosta sostiene da gran tempo. Torneremo a parlare di questo ”fare cose” e della soggettività che vi è implicata. Per ora mi limito a sintetizzare il punto con la nota affermazione di Foucault - "il n'y a que des pratiques" - sulla quale Paul Veyne ha scritto pagine straordinarie di metodo, con riguardo alla storia. Chiarisco, di nuovo un po’ fuori dai denti ma per evitare fraintendimenti: quell’affermazione non prelude a una qualche presa di posizione a livello ontologico per cui questa, e soltanto questa, sarebbe veramente la realtà. Al contrario implica modestia, il non dimenticare che quel che le persone “fanno”, le loro pratiche, interazioni, “transazioni”, è tutto ciò che abbiamo per far ricerca sui/nei territori, una guida, una chiave per farsi un’idea della suddetta “realtà”, di quel che succede, dei processi in atto.
Quanto alle soggettività di chi fa ricerca, mi pare che il modo migliore per sintetizzarne manifestazioni e implicazioni consista nel fare riferimento ai titoli dei capitoli in cui si articolano le conversazioni. Li riproduco qui perché non saprei far di meglio: 1. Che tipo di ricerca è la ricerca territoriale?; 2. Se hai familiarità, inventi; 3. Il paradosso dell’intenzionalità; 4. Attivisti e futurologi: in quanti modi si è esperti?; 5. I sotterfugi della regolazione; 6. L’orizzonte della politica; 7. La partecipazione è un rapporto a due; 8. I’m a dissenter; 9. Insegnare cosa?; 10. Le regole del gioco; 11. La ricerca è plurale; 12. Traiettorie di ricerca.
Nell’ambito specifico della ricerca territoriale, su cui come dicevo si sviluppano queste conversazioni, il primo pilastro della disciplina ad essere smontato è il planning. Naturalmente la riflessione di Crosta si colloca a valle del ripensamento che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ne ha messo in discussione i presupposti, la razionalità strumentale al servizio delle intenzioni e la relativa concezione lineare del rapporto tra obiettivi e risultati. Come è noto, Crosta è stato tra i primi in Italia - da cui la sua collaborazione con Carlo Donolo - a confrontarsi con la letteratura angloamericana sulle politiche che ha guidato questo ripensamento. Ma è andato oltre: come chiarisce bene anche qui, il piano è un processo ma non perché esso richieda la capacità di rettificarlo, di “correggere il tiro” per mirare meglio all’obiettivo, bensì in quanto è l’obiettivo stesso ad emergere dal processo. E perciò la ricerca è consustanziale al processo di piano, una ricerca che per l’appunto non è dettata da risultati già stabiliti ma scava nelle procedure del piano e le smonta; e innerva il processo di esplorazioni, capacità immaginative, invenzioni, scoperte. Non è ricerca se non c’è l’esperienza dello stupore.
Crosta lo dice anche in un altro modo: le innovazioni non possono essere pianificate, sono comunque un sotto-prodotto; almeno nel senso che esse sono l’esito plurale di diverse forme e registri di apprendimento, risultando perciò dalla combinazione di una pluralità di esiti voluti. E la ricerca prende le sembianze della social enquiry di Dewey - l’esponente del pragmatismo classico più amato da Crosta - in cui si dispiega intelligenza sociale. C’è un’implicazione importante di questa impostazione del rapporto tra planning e ricerca territoriale: quest’ultima si congeda, o meglio si emancipa dal vincolo - di dipendenza? di complicità? - che l’ha storicamente legata al governo politico del territorio. Almeno, ci prova. E questo è tanto più significativo oggi, mentre si vanno delineando forme di infeudazione, legami di lealtà e vassallaggio che legano il ricercatore (diventato “l’esperto”) e il decisore pubblico, ed entrambi a poteri economico-finanziari esterni, agli obbiettivi della redditività e agli imperativi della contabilità.
Non per questo la ricerca territoriale, che si fa autonoma dal governo, perde la sua consistenza politica. Anzi: in quanto cerca le possibilità così da farle emergere (e “ridefinirle”, come sottolinea Crosta, a pag. 43), la ricerca territoriale è precisamente politica, se quest’ultima è intesa nel significato pregnante di “arte del possibile”.
In queste Conversazioni più che mai Crosta dispiega le ragioni e i modi del possibilismo alla base della sua metodica, interloquendo con Hirschman che, come si sa, lo ha teorizzato e soprattutto praticato sistematicamente. E anche questo rapporto di Crosta con Hirschman è noto. Perciò non mi ci soffermo. È questo comunque il filo rosso delle conversazioni, anche quando esse sembrano divagare, o quando si soffermano per esempio sul posto del caso, dell’indeterminato, del “vuoto” (direbbe di nuovo Veyne); del resto, “dipende” è la risposta puntualmente formulata per qualunque domanda, per esempio a proposito del carattere “positivo” o “negativo” di certi fattori nel progettare una qualche strategia di sviluppo - e di nuovo è richiamato Hirschman -. L’ancoraggio al contesto (alla situazione, e alle persone che fanno cose) è cruciale.
A proposito di contesto vorrei spendere ancora due parole sul posto delle cose - le cose, si badi, non gli oggetti -. Anche questo è un tema ricorrente in queste conversazioni, benché non altrettanto esplicitato. Del resto, sappiamo come sia parte integrante della ricerca territoriale, e con un importante patrimonio alle spalle, l’attenzione dedicata alle concrezioni, agli artefatti, che risultano dai processi di policy. Che ne sono la punteggiatura. Ma non soltanto, dice Crosta a un certo punto (alle pagg. 65-66) a proposito dell’importanza del ”posizionamento”: “da vicino puoi mettere le mani… Un conto è vedere una cosa, un altro è mettere mano. Questo è un’implicita esortazione: significa proviamo! Ma apre un discorso che m’interessa perché mettere mano è da intendersi in modo molto materiale: i cinque sensi non sono equivalenti. Toccare ha molto rilievo sul piano dell’efficacia”. A questo proposito chiudo, con l’aiuto del commento di Cristina Bianchetti nei “Ringraziamenti”, invitando a osservare la fotografia della copertina, scattata nel settembre 2020 da Agim Kerçuku nella città di Halle: ci sono persone (poche per la verità) che fanno cose, e ci sono cose fatte che lasciano immaginare attività, interazioni, "transazioni", e così via. Questa in definitiva è la città, dice Cristina Bianchetti, molto più delle tipizzazioni a cui siamo abituati a ricorrere per descriverla: l’immagine - e l’immaginazione - dice molto di più e molto meglio perché “riecheggia la reverence for life suggerita da Hirschman”.
Ota de Leonardis
N.d.C. Ota de Leonardis ha insegnato Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Milano Bicocca. È stata presidente del Consiglio Scientifico dell’Institut d’Etudes Avancées di Nantes, nonché membro del comitato scientifico di Urban@it (Bologna). Ha studiato e studia le istituzioni, le politiche pubbliche, le trasformazioni della sfera pubblica, della cittadinanza e della democrazia.
Tra i suoi libri: Dopo il manicomio. L'esperienza psichiatrica di Arezzo (Il pensiero scientifico, 1981); a cura di, Il sapere della crisi. Per una storia della sociologia (Ianua, 1982); a cura di, Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale (Unicopli, 1988); Il terzo escluso. Le istituzioni come vincoli e come risorse (Feltrinelli, 1990); con Diana Mauri e Franco Rotelli, L'impresa sociale (Anabasi, 1994); Fabbisogni formativi e inserimento lavorativo dei giovani usciti dal circuito penale (Iard, 1995); con Lavinia Bifulco, a cura di, L'innovazione difficile. Studi sul cambiamento organizzativo nella pubblica amministrazione (F. Angeli, 1997); In un diverso welfare. Sogni e incubi (Feltrinelli, 1998; 2002); Le istituzioni. Come e perché parlarne (Carocci, 2001; 2011); con Serafino Negrelli e Robert Salais, a cura di, Democracy and capabilities for voice. Welfare, work and public deliberation in Europe (Lang, 2012); con Marco Deriu, a cura di, Il futuro nel quotidiano. Studi sociologici sulla capacità di aspirare (Egea, 2012); con Vando Borghi e Giovanna Procacci, a cura di, I discorsi delle politiche (Liguori, 2013); con F. Neresini, a cura di, “Il potere dei grandi numeri”, special issue, RIS, 3-4, 2015; “Il Mercato totale. Su diritto e democrazia”, postfazione a: Alain Supiot, La sovranità del limite, (Mimesis 2021); con Shigehisa Kuriyama, Carlos Sonnenschein et Ibrahima Thioub, a cura di, Covid-19. Tour du monde, (Manucius, 2021).
Sullo stesso libro, v. anche: Gabriele Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa (28 maggio 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 04 NOVEMBRE 2022 |
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