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Il titolo è di quelli che affascinano subito perché evoca l'unico vero modo per comprendere le città - quello di camminarci dentro, attraverso, senza fretta, lasciandosi guidare dalla capacità narrativa dei luoghi, magari ascoltando il rumore dei propri passi - e allo stesso tempo ne indica la misura ideale. Già perché gli spazi aperti delle città - le strade, i viali, le piazze che ogni giorno percorriamo - e le città stesse, il cui corpo nei prossimi anni è destinato a crescere enormemente in diverse parti del mondo, dovrebbero secondo l'autore avere o ritrovare una misura: la misura del passo dell'uomo, quello delle città dell'antica Roma, quella misura che comprendiamo bene quando attraversiamo il cuore di Venezia, Bergamo o Perugia e che riguarda tanto le distanze da un punto all'altro dei tessuti urbani quanto le dimensioni spaziali dei luoghi, i rapporti tra e con le architetture. Stiamo parlando de Il passo della città di Rosario Pavia, sottotitolo: Temi per la metropoli futura, pubblicato quest'anno per i tipi di Donzelli (133 pagine; 20,00 Euro): un libro di urbanistica, disciplina dall'immagine appannata da insuccessi, scandali, incapacità di incidere davvero nella realtà che ci circonda, che soprattutto nella sua dimensione progettuale vive - a detta dell'autore e di molti altri - 'una condizione di smarrimento e di impotenza ' e a cui invece, per le sfide che l'attendono, andrebbe restituita - sostiene ancora l'autore, in questo caso contrariamente ad altri - 'una diversa consapevolezza [ma soprattutto], impegno politico, responsabilità civile, capacità di misurarsi con le contraddizioni del presente e di proiettarsi nelle incertezze del futuro'.
Locale e globale sono le due dimensioni problematiche e progettuali tra cui oscilla costantemente la riflessione di Rosario Pavia. La prima nella convinzione che 'la scarsa qualità della città [debba] molto alla contrazione degli spazi pubblici aperti e alla loro discontinuità '. La seconda perché è solo facendo proprie le grandi tematiche ambientali - in particolare quelle connesse alla gestione, lo smaltimento e il riciclo dei rifiuti a cui il libro dedica ampio spazio - che il piano urbanistico può ritrovare una sua pienezza di senso agli occhi della società contemporanea. Partiamo dalla prima. Secondo il professore della Facoltà di Architettura di Pescara 'l'assenza di urbanità nella città contemporanea [da un lato è attribuibile al] frantumarsi della pedonalità, alla progressiva riduzione di ruolo del sistema delle reti minori, alla loro sconnessione dalle reti infrastrutturali ', dall'altro alla qualità dello spazio pubblico, ai rapporti tra l'architettura e lo spazio aperto: un'architettura che - scrive - frequentemente 'insegue la spettacolarità, le mode formali e linguistiche, si è distaccata dal contesto, dall'ordinario, dai bisogni quotidiani della gente, dalle loro esigenze culturali '. Tutto ciò generando indifferenza verso i luoghi urbani e dunque degrado, contribuendo a ottundere quel legame identitario che per secoli in Italia e in Europa ha legato le comunità alle loro città, riducendo le possibilità (nostre e delle generazioni future) di un abitare civile, quell'abitare che va oltre le quattro mura domestiche per includere gli spazi pubblici delle città.
Le cause di tale situazione sono complesse e non tutte interne alla disciplina, questo è evidente. Ma la cultura del progetto urbano - anche questo è evidente - ha le sue responsabilità. E Pavia, onestamente, le riconosce quando per esempio scrive che 'l'urbanistica funzionalista ha contribuito alla separazione tra strada e tessuto edilizio '. Sarebbero cioè stati 'la specializzazione funzionale dello zoning, il distacco dal suolo degli edifici e la condanna della 'strada dell'asino' di Le Corbusier in favore di una città geometrica, in cui i flussi pedonali sono separati da quelli automobilistici, [ad aver] prodotto nelle pratiche urbane una generale banalizzazione degli spazi pubblici esterni '. Banalizzazione che però ha scatenato anticorpi che se non hanno guarito la città dai suoi mali hanno almeno fatto sì che fosse possibile circoscriverne la diffusione o, se non altro, riconoscerli. L'autore - per fare qualche esempio - ci ricorda il contributo critico del gruppo Team 10 agli ultimi Congressi internazionali di architettura moderna nel secondo dopoguerra, quello di Jane Jacobs, Kevin Lynch, Bernard Rudofsky, Jan Gehl, Gordon Cullen, Colin Buchanan fino al new urbanism che - scrive - ha assunto 'il camminare come paradigma di una nuova progettualità urbana '. Un paradigma che andrebbe ripreso, sviluppato, esteso a tutti i contesti urbani in omaggio a 'una umanità che - afferma Pavia - ha trovato nel passo e nella libertà di movimento nello spazio la sua identità, le sue origini, ma anche il suo futuro '. Dunque è da qui che sarebbe necessario ripartire perché - sostiene - 'è questo legame tra passato e futuro che fa del camminare un atto etico e progettuale '. Sembra cioè 'giunto il momento di porre la questione del camminare e dello spazio pubblico in termini nuovi, legandola al tema della sostenibilità ambientale ' e strutturandola sul principio della rete, della interconnessione delle reti, in modo da esaltarne le potenzialità relazionali e connettive. In altri termini, 'la città se vuole essere smart, ecologica e resiliente deve - secondo l'autore - recuperare la misura del passo e la dimensione sensoriale del corpo, il valore dello spazio pubblico'.
L'estremo opposto della riflessione condotta nel libro riguarda un possibile carattere globale, o meglio geografico, della pianificazione. 'La sfida ecologica - argomenta Pavia - ha rivoluzionato la dimensione del progetto aprendolo a tutte le scale, da quella micro e locale a quella macro e planetaria '. E tra le questioni più urgenti che - secondo l'autore -andrebbero affrontate a tutte le scale progettuali c'è quella dei rifiuti. Questi - è vero - 'fanno parte della storia urbana ' perché 'da sempre le città convivono con i loro scarti, ma - osserva - è nella modernità che [questo tema] emerge con forza, invadendo uno spazio sociale e urbanistico ancora informe ' ed è nella contemporaneità che il problema deflagra assumendo dimensioni globali. 'Negli oceani - ci ricorda l'autore - galleggiano in superficie e in sospensione circa 100 milioni di tonnellate di detriti di plastica con un impatto devastante per la vita della fauna marina e l'inquinamento delle acque '. Una questione enorme la cui manifestazione più evidente è probabilmente la Great Pacific Garbage Patch: 'un accumulo di spazzatura composta prevalentemente da rifiuti plastici che galleggiano in uno spazio compreso tra la California e le Hawaii [le cui] dimensioni […] supera[no] i 700.000 chilometri quadrati'.
Quello dei rifiuti, tuttavia, non è solo un problema operativo o gestionale. 'La città contemporanea [infatti] è la città che allontana e nasconde i suoi scarti per non vederli. Li getta all'indietro piuttosto che in avanti '. Ciò a cui stiamo assistendo - secondo l'autore - è una vera e propria 'rimozione culturale dell'immondizia [che, tra le altre cose,] ha portato a separare la gestione dei rifiuti dai piani urbanistici e territoriali '. Piani che, al contrario, dovrebbero trovare il modo di fare proprio questo tema perché - sostiene - 'i rifiuti sono reali, occupano spazio, sono visibili, e solo attraverso un artificio mentale abbiamo imparato a escluderli dal nostro sguardo '. Dunque, accanto alle politiche volte a una riduzione della loro produzione, si tratterebbe di contribuire a un cambio di prospettiva tale per cui - com'è avvenuto in alcuni contesti - i rifiuti si trasformino in risorsa o almeno possano servire a sensibilizzare le comunità circa la necessità di una loro gestione razionale assumendo perfino un ruolo pedagogico. 'Le città - conclude l'autore - [dovrebbero cioè] apprendere dalla spazzatura e rappresentarsi anche attraverso di essa'.
Renzo Riboldazzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA 23 SETTEMBRE 2015 |