|
|
Facendo uno sforzo, e trovandomi costretto ad ammettere di sentire anche un po’ di imbarazzo, provo ad aprire questa recensione in un modo che a molt* lettor* potrà sembrare, se non assurdo, probabilmente sconveniente o inappropriato. Ma a tutto c’è un perché.
Sono nato in una ricca provincia industriale del Nord Italia. Con una punta di ironia direi di essere pure un 'indigeno' - almeno nel senso che sono uno de* poch* nat* in città che sente parlare il dialetto lombardo in casa. Per quanto Brescia sia ricchissima, sono nato dalla parte ‘sbagliata’ della barricata economica: sono il figlio di un operaio e di un’impiegata, una condizione che contraddistingue tutta la mia famiglia. Sono stato, orgogliosamente, la prima persona dell’albero genealogico ad aver mai completato il percorso universitario. Anche se, devo ammettere, per prendere la triennale in Sociologia ci ho messo quasi cinque anni: mio padre non ha ricevuto lo stipendio a causa della crisi durante i miei anni universitari, e mi sono trovato costretto a lavorare in un supermercato, dove in pausa pranzo studiavo i testi di Marx, Weber, Durkheim, Adorno & Horkheimer, David Harvey e compagnia bella. In tutto questo sono nato maschio – anche se riconoscermi come ‘uomo’ mi dà una sensazione di vertigine -, credo eterosessuale, e come dicevo prima sono pure indigeno, che per la storia di un’Italia divisa dal Po e da Garibaldi non è assolutamente una cosa da poco. Sono pure bianchissimo - e biondo, tanto che quando studiavo alla Universiteit van Amsterdam, la gente si stupiva quando dicevo loro di non essere olandese. Insomma, sotto molti punti di vista (non tutti forse, but still) sono un privilegiato – il mio grande problema è ovviamente cosa farmene di questo privilegio, ma di questo si parlerà in seguito.
Continuo questo preludio personalissimo con una nota che mi collega alla recensione vera e propria del libro curato da Camillo Boano e Antonio di Campli, Decoloniare l’urbanistica (LetteraVentidue, 2022): mi sono formato nei campi della sociologia e degli studi urbani, e da sempre mi sono trovato circondato da ricercator* provenienti dai miei stessi campi. A Padova, ad Amsterdam, pure quando studiavo negli Stati Uniti, sempre e comunque la sociologia e il lato social sciences degli studi urbani spadroneggiavano. Da quando lavoro al Politecnico di Torino, devo dire di essermi trovato a incontrare – e a scontrarmi – con la predominanza degl* architett*, e soprattutto con il ‘loro’ background accademico-disciplinare. Capisco solo ora il perché Boano, di Campi e le altre personalità coinvolte abbiano dovuto architettare questo libro. Non che la sociologia o gli studi urbani si siano decolonializzat* per i fatti loro; più semplicemente, gl* studios* di questi campi è da molto più tempo che si fanno certe domande – “e ci credo!” potrebbe anche rispondere un* lettor* attent*, considerando il ruolo giocato dall’antropologia nel progetto imperial-coloniale. Alcun* collegh* dottorand* al PoliTo non sono però stat* espost* a certi discorsi, prospettive, messe in discussione delle strutture dei ‘loro’ modi di produrre conoscenza scientifica. Mi rendo conto che, nella loro formazione, praticamente nessun* abbia dato loro, da un punto di vista disciplinare, gli strumenti per mettere in discussione il gigantesco taken-for-granted capitalista-coloniale-etero-maschio-white, che permea trasversalmente le università e le istituzioni italiane – ed europee in generale, perché per quanto Amsterdam sia una città che si crede apertissima alla diversity, la mostra dedicata al lavoro dell* più importanti fashion designer african* me la sono vista al Museo Coloniale, mica al Rijkes Museum.
Queste premesse, e lo stile con cui sono scritte, sono fondamentali alla recensione per quattro motivi. Primo, perché questa recensione la sto scrivendo io, partendo dal mio posizionamento intrecciato del mio essere lettore, ricercatore, recensore, scrittore, dottorando a Torino, indigeno bresciano, oltre che elemento della società europea in generale, e membro della sua comunità scientifica in particolare – among many other things. Secondo, perché questo mio posizionamento non è solo sociopolitico, ma anche disciplinare: in certi suoi passaggi, mi sono trovato quasi in imbarazzo nel rendermi conto che un libro come questo fosse ancora necessario. Questo significa riconoscere che finora pochissimo è stato fatto per decolonializzare l’urbanistica, e che tutto sia ancora lì, pronto da distruggere, ri-generare, ri-creare, ri-costruire, re-territorializzare, ri-progettare. Terzo motivo: è un libro le cui tesi sono estremamente semplici, eppure estremamente complesse. Decolonializzare il progetto e le sue discipline è tanto facile da dire quanto difficile da fare, e paradossalmente tanto difficile da dire quanto facile da fare, il tutto allo stesso tempo. Considerato il mio background personale, trovarmi a recensire questo libro è una condizione in cui mai mi sarei aspettato di trovarmi, ed in ogni caso mi sono sentito “a mio agio nel disagio”, come dice Borghi, nel constatare che, tutto sommato, sapevo orientarmi nell’ampissimo orizzonte intellettuale che ha ispirato di Campli, Boano e le altre personalità coinvolte nel realizzare questo progetto. È stato come ricevere un duplice attestato di stima, sia dalla possibilità di poterlo recensire, quanto dall’impressione di averne comprese le grammatiche più opache, arcipelagiche, frammentate, avventurose. Dulcis in fundo, l’ultimo motivo per cui queste premesse sono necessarie risiede nel modo in cui ho deciso di concepire lo spazio-territorio di questa recensione: per me si tratta di un esercizio di decolonialità, provando a fare mie alcune delle sollecitazioni più vibranti che emergono da questo libro-come-discorso. E questo territorio si costruisce tanto nei processi di produzione e assorbimento della conoscenza, quanto nei percorsi attraverso i quali il mio corpo e la sua posizionalità si rendono in forma di assemblaggio di discorsi, pratiche, idee, politicamente costruiti dalle micro-dinamiche di (de)colonializzazione del corpus collettivo.
Possiamo passare ora alla recensione ‘vera’ e ‘propria’ - insomma, quella che ci si aspetta essere nel mondo accademico la review di un libro scientifico.
Innanzitutto, è importante sottolineare che questo è un libro che non vuole essere un libro. E che si tratta del frutto di una ricerca che non vuole essere una ricerca. Questo libro è un discorso che sembra non avere entrate, né soprattutto uscite. Eppure, questa sensazione di mancanza è dovuta all’infinità di traiettorie che gl* autor* continuamente svelano e disvelano, che confondono, facendole incontrare ed allontanare, invertire e meticciare, parola dopo parola, in questo loro “avventurarsi” tra i meandri dell’architettura concettuale del progetto. In molti punti del libro si ha come l’impressione di entrare nel BIOS del pensiero spaziale occidentale, come se questo fosse una megalopoli oppressivamente ordinata e razionale, nella quale però si entra (e si esce, sempre che nella distinzione permangano davvero delle capacità descrittive) attraverso i tombini, le marmitte dei bus in coda, i canali di scolo, un avviso di sfratto in un quartiere gentrificato, prendendo sempre le strade più scomode - che in questo caso opera sicuramente più come concetto, che come aggettivo. E solamente attraverso queste strade tortuose si può entrare nella città concettuale così spavaldamente elegante del pensiero spaziale occidentale, perché è partendo dai margini e dai luoghi più inaspettati che diventa possibile mettere in crisi le pretenziose qualità del progetto coloniale. Questa tortuosità implica anche che sia difficile immaginarsi una recensione adeguata a questo libro, tanto nella forma quanto nei contenuti. Esattamente come il libro, anche questa recensione è una sperimentazione per forza di cose incompiuta e incompleta.
Come dicevo prima, Decoloniare l’urbanistica è un libro incredibilmente semplice e parecchio complesso allo stesso tempo. In particolare, Boano e di Campli hanno uno stile di scrittura che definirei “galattico”: ad ogni passaggio, letteralmente dopo ogni virgola – e ve ne sono a centinaia - le loro riflessioni aprono delle fratture profonde nell’asfalto delle convinzioni. In ogni singolo spazio compreso tra i segni di punteggiatura si possono trovare molteplici orbite e traiettorie di pensiero, non determinate, libere, sorrette da un meticoloso ma pur sempre pluriforme ed opaco modo di ragionare e di mettere a critica le realtà. Sono spazi che si aprono su mille mondi, così come su modi di pensare a questi territori in costante evoluzione, che hanno sempre una forma al plurale, spezzata, interrotta e contigua. Arcipelagica e sradicata, direbbero loro. Una recensione deve per forza fare i conti con la struttura che gl* autor* hanno deciso di darvi: la definiscono una ‘monografia scomposta’, ed i vari contributi dei curatori, di Borghi, Ortiz Arciniegas e Mejia Moreno, sono da considerare, cito, “i componenti di un luogo scisso ma interconnesso”. In un certo senso, mi sembra di poter affermare che la struttura arcipelagica del libro emerga abbastanza chiaramente: non vorrei sembrare un funzionalista, ma le diverse traiettorie tracciate dai saggi effettivamente permettono al* lettor* di avventurarsi nelle foreste dell’approccio decoloniale, e di esplorarlo a fondo, in tutte le sue questioni aperte, le sue opportunità e le sue contraddizioni, sia dal punto di vista accademico-disciplinare che quello più personale. Non per niente direi che anche l’affrontare il testo stesso è un progetto di intimità radicale. (Ri)conoscendo lo stile di scrittura di Boano e di Campli, devo ammettere che è stato molto interessante vedere come l’Introduzione al volume e il primo saggio siano stati scritti davvero a quattro mani, con la scrittura limpidamente torbida di Boano, assemblata come caffè e zucchero a quella cumulonembica di di Campli.
A livello strutturale, è possibile dire che l’Introduzione sia una territorializzazione concettuale del libro, come una serie di layers sovrapposti che, a partire dai margini di ogni pagina, servono a re-immaginare uno spazio-tempo nel quale questo libro possa, incompiutamente e riottosamente, situarsi. E quello che viene a generarsi di fronte al* lettor* è appunto un arcipelago, una big band di territori scissi e conflittuali, indigeni e (ri)connessi, un mundo donde quepan muchos mundos – come direbbero gli Zapatisti, a cui devo personalmente molto, in termini di passione politica. Il primo saggio è invece una cartografia del passato-presente del pensiero decoloniale. E sarebbe ingiusto definirla una revisione della letteratura – sebbene da ricercatore in erba possa comunque definirla “ottima” per chiunque si stia approcciando al pensiero decoloniale, e abbia bisogno di fare un po’ di chiarezza teorica, terminologica e metodologica. Ad esempio, ci sono importanti differenze tra il pensiero post-coloniale e quello decoloniale, si intendono cose diverse quando si parla di “decolonizzazione” e quando invece si discute di “decolonializzazione” – rimando al saggio per approfondire queste e molte altre questioni. Per farla breve, comunque, il primo saggio del libro - “Descamino” – definisce, da un lato, che cosa implichi la decolonializzazione del progetto, dall’altro di cosa sia composta la proposta decoloniale in termini del progetto. Il termine descamino si riferisce al “movimento imprudente, incerto azzardato, di cose, merci, pensieri di contrabbando, e degli effetti della loro presenza in territori ostili”. Come sostengono gli autori, questo movimento istituisce legami concettuali e politici tra il pensiero decoloniale e gli studi urbani. Lo scopo è quello di individuare le architetture di potere che hanno sostenuto, e sostengono, la dominazione coloniale occidentale, della whiteness, del capitalismo e del patriarcato, in ambito economico, politico, ecologico, per poter sovvertirne e ridefinirne le logiche discorsive, le pratiche e le strategie riflesse nel progetto urbanistico. Cartografando – per forza incompiutamente – attraverso la letteratura che cosa si possa intendere per colonialità e di conseguenza le strategie per muovervi guerriglia, di Campli e Boano aprono la strada al secondo saggio del libro, un percorso visuale dal titolo “Terapia Paradossale – spazi nuovi dal momento che la politica non può nulla”. Le immagini compongono un mosaico di strategie dell’abitare e di forme di coesistenza delle differenze, uno dei topos del libro, muovendosi dall’America Meridionale (Cile, Ecuador) e Centrale (Messico), al Medio Oriente (Libano) fino al Sud-Est asiatico (Myanmar). E qui l’arcipelago discorsivo si fa racconto di luoghi nudi e spogliati, di spazi infra-strutturanti progetti di differenze, che coesistono in maniera disarmonica e compromissoria, sempre in maniera instabile ma generanti nuovi modi di concepire le relazioni alla base del progettare lo spazio della vita, dell’abitare, dell’esistere.
Se nel saggio visuale la frammentazione e i margini si mostrano sul piano politico-geografico, il pezzo di Borghi che lo segue continua il discorso spostandosi su un ulteriore livello, comunque intessuto con il precedente. Ricostruendo le sovrapposizioni politiche tra corpo individuale e corpus collettivo nei termini del rovesciamento del privilegio accademico, quello di Borghi somiglia ad un manifesto programmatico-politico più che ad un saggio accademico – chiaramente una caratteristica non solo voluta, ma anche perseguita. Non è proprio un “Che fare?” di leniniana memoria, tuttavia propone una serie di metodologie, rigorose, serissime, di cosa farsene di questo privilegio, come renderlo una forza di guerriglia contro il progetto coloniale, come trasformare la ricerca e la nostra personalissima esperienza del mondo in una forza rivoluzionaria. Un saggio, insomma, che se diventassi il Megarettore Galattico dell’accademia italiana metterei come obbligatorio in tutte le facoltà di ingegneria, visto che in fondo gl* architett* sono tutt* un po’ filosof* e ci si ragiona, mentre con gl* ingegner* mi è di solito impossibile discutere di queste tematiche senza perdere le staffe. Normalmente mi vengono sempre dei dubbi quando vedo le discussioni sulle architetture del potere contemporaneo partire dalla dimensione dei privilegi. Non che le consideri come non necessarie, ci mancherebbe, ma sento come ancora ci siano alcuni punti oscuri nel collocare questa dimensione nella cartografia dei processi e delle strategie di emancipazione. Ho spesso esperito il dissolversi di queste discussioni in una retorica del senso di colpa che dovrei per forza di cose sviluppare, come se patriarcato, etero-normatività, capitalismo e whiteness fossero colpa mia, per la sola ragione che sia nato maschio, etero e brescianamente white - a prescindere da qualunque strategia di decostruzione e auto-coscienza io possa sviluppare, e dal fatto che sia nato da una famiglia di proletari di fine millennio. Tuttavia, come ho già visto fare da Borghi in molti altri suoi lavori, anche in questo caso riesce in una manciata di pagine a proporre un progetto dell’autoconsapevolezza-come-organizzazione, che vede nell’azione diretta il legame profondo tra individuale e collettivo, il personale ed il politico. Insomma, nel pomolo rotondo del pugnale di Caserio ci potremmo specchiare tutt*, e tutto questo risulta in un discorso convincente e persuadente, integrato perfettamente alla (de)colonial mentality del libro – per citare almeno una volta quel genio maledetto di Fela Kuti.
Seguendo le rotte sconnesse dell’arcipelago, si arriva ad una nuova tappa, rappresentata dal saggio di Catalina Ortiz Arciniegas, intessuto intorno alla figura del sentipensante e dell’azione del sentipensar. Attraverso questo termine, sviluppato dal sociologo colombiano Orlando Fals Borda nei suoi numerosi lavori sull’America Latina, Ortiz sviluppa una proposta teorico-concettuale per pensare ad una pratica urbanistica decoloniale. Partendo dal presupposto che la conoscenza e la vita non possano essere separate, tale nozione intende una forma di “pensare e sentire lo spazio attraverso gli affetti collettivi ed economie popolari” – rendendosi dunque il centro concettuale per “definire i rapporti tra territorio, corpo, mente, affetto”, o tra corpo-territorio-terra, come sostengono le attiviste latinoamericane. L’influenza di Fals Borda è anche in termini metodologici: ad esempio, pratiche come lo story-telling e la PAR, secondo Ortiz, possono offrire degli slanci fondamentali per costruire degli approcci propriamente decoloniali alla pratica urbanistica. La discussione di Ortiz propone inoltre quattro strategie per operativizzare il sentipensar nella ricerca urbanistica. La prima è quella di favorire le “narrazioni di liberazione”; dove questo termine implica un progetto individuale quanto collettivo, spirituale quanto politico, in grado di aprire ed operare all’interno di uno spazio caratterizzato dalla violenza fisica, epistemologica, ontologica e simbolica del capitalismo estrattivista. L’urbanista sentipensante può dunque promuovere una pratica di progetto vocata alla giustizia epistemologica, in grado di sovvertire i processi di produzione delle soggettività e delle narrazioni che li sostengono. La seconda strategia è quella di iscrivere le storie sul territorio, partendo dal presupposto che corpi e territori siano una singola entità in termini ontologici. Se dinamiche socioculturali, microcosmi regionali e bio-spazi sono considerati come interdipendenti, allora l’urbano e le sue dimensioni possono essere re-inquadrate all’interno di una metodologia di corpo-territorio, in cui il primo diviene il “primo territorio di lotta e centro della vita comunitaria”. La terza strategia riguarda la polifonia delle storie: affinché lo spazio e le sue narrazioni diventino strumenti politici di liberazione devono per forza di cose divenire luogo di pluralità perché solo in questa forma possono prendere effettivamente parte all’elaborazione di una prassi progettuale decolonializzante. La tensione verso la pluralità richiede l’abbandono delle narrazioni egemoniche occidentali, e questo può avvenire attraverso il porre l’orizzontalità della coesistenza come imperativo emancipatorio della pratica urbanistica. L’ultima strategia si basa su una delle dimensioni fondamentali del sentipensar, il suo essere cioè “un’arte di vivere basata sul pensare sia con il cuore che con la mente”. In Fals Borda, l’uso della geografia e la configurazione dei territori stanno al cuore della liberazione sociale: le lotte fanno parte di una “ricostituzione ontologica del pianeta”, che ri-colloca l’umano nei flussi incessanti della vita, promuovendo così la giustizia riparativa. In questo modo, diviene possibile ri-costruire gli spazi delle comunità, ed allo stesso tempo la ri-connessione con la natura, intesa non in termini dicotomici ma piuttosto come un processo di interscambio fondato sulle conoscenze empatico-affettive sviluppate attraverso le esperienze di lotta territoriale. Queste quattro strategie, secondo Ortiz, hanno il potenziale di costruire un’urbanistica decoloniale fondata sulla liberazione, finalmente in grado di intrecciare lotte territoriali, affetti collettivi, narrazioni, nella comprensione e la manipolazione dell’urbano contemporaneo.
La nozione di sentipensar è importante anche nel saggio seguente, una riflessione costruita a partire dal femminismo decoloniale elaborata da Catalina Mejia Moreno. Il contribuito di Mejia è basato su alcune questioni aperte dal femminismo decoloniale, in particolare sul fatto che le pratiche di cura del corpo, e del rapporto del corpo con il territorio, sono da sempre indissolubilmente – e opacamente – legate alle pratiche architettoniche, urbane e spaziali, un legame reso visibile nelle interrelazioni tra razza, genere, territorio e potere. In altre parole, da un punto di vista femminista-decoloniale è cruciale che l’analisi urbanistica parta dal riconoscere la centralità dei corpi razzializzati, delle dinamiche di genere e dalla divisione delle classi, come punto di partenza fondamentale per intessere qualunque discorso o pratica spaziale. Partendo da alcuni esempi tratti dagli impianti idro-elettrici colombiani, Mejia discute di come l’erosione dei paesaggi naturali e sociali presenti nel territorio colombiano sia il prodotto delle pratiche estrattive delle multinazionali sostenute dal governo, e da come esse siano legate allo sfruttamento dei corpi e alla dis-possessione delle comunità di queste aree. Inoltre, si mostra come la costruzione dell’alterità, attraverso le narrazioni costruite intorno alle questioni di razza, etnia, classe e genere, sia uno dei “pilastri bio-politici” del governo di alcune regioni, dimostrando che il capitalismo globale, per forza di cose egemonico, presuppone un elemento di colonialità. Le pratiche di alterità servono a legittimare non solo la violenza fisica del capitalismo estrattivo, ma anche tutti gli altri atti di violenza ambientale, economica, razziale, di classe, compiuti attraverso lo sfruttamento dei corpi. In questo contesto, le pratiche delle Lideresas, attiviste di comunità dell’America Latina, rappresentano un importante esempio di resistenza, essendo queste basate sulla conoscenza corporea e accumulata, oltre che essere centrate sulla difesa del comune. Secondo Mejia, le pratiche delle Lideresas sono accomunate al progetto femminista decoloniale dal fatto che entrambe vedono i corpi e i territori come una cosa sola, o in altre parole, “i corpi umani come estensione della terra stessa”. In questo senso, il corpo diventa il primo territorio di lotta, oltre ad essere la linea più avanzata di quella lotta. Attraverso riflessioni su vari progetti artistico riguardanti la rappresentazione della triade corpo-territorio-terra, in particolare le opere di Carolina Caycedo e del suo approccio geocoreografico, Mejia sostiene la fondamentale differenza che intercorre tra le pratiche spaziali derivanti da questa concezione spaziale e le pratiche dis-umanizzanti delle dighe colombiane, intese come “istanze di potere che interrompono il flusso delle organizzazioni sociali e comunitare [attraverso] la repressione sociale”. Nel discutere il suo lavoro “Con la selva en el piel”, che occupa l’ultima sezione del saggio, Mejia utilizza il metodo artistico per mostrare come i corpi razzializzati e il territorio del Pacifico colombiano “siano la stessa cosa”, poiché mappare e cartografare un dato territorio implica il rappresentare anche i corpi che in esso vi abitano, e le loro interrelazioni di coesistenza, dipendenza, mutua produzione.
L’ultima tappa di questa traiettoria scomposta è il saggio conclusivo del libro, anche questo frutto del lavoro cooperativo di Boano e di Campli. Secondo gli autori, il progetto decoloniale richiede non solo di stravolgere le strutture cognitivo-disciplinari che sostengono il progetto della modernità; è anche necessario ri-costruire le modalità di ricerca, didattiche, di diffusione e produzione del sapere progettuale interno all’accademia. Se l’università è un corpo centrale nello sviluppo delle pratiche del capitalismo globale e neoliberista, allora essa rappresenta uno dei luoghi cruciali per la produzione del pensiero coloniale. Decoloniare il syllabus, allora, diviene un imperativo politico, una necessità per individuare e smontare le gerarchie di potere e sapere coloniali che l’università concorre a riprodurre, per poter configurare una proposta attraverso la quale far emergere ontologie, epistemologie, e pedagogie alternative ed aperte – sia in senso scientifico, quanto in termini di ‘proprietà’ della conoscenza. La conoscenza e l’esperienza universitaria devono dunque essere pensate oltre la produttività e la competenza. Piuttosto, occorre esplicitare e decostruire il rapporto tra la società e i suoi processi conoscitivi, attraverso i quali si producono significati, soggettività, pratiche, territori.
Questo libro che non vuole essere un libro è chiaramente un primo passo, incompleto e incerto, per smontare lo sguardo spaziale piantato, come l’occhio di Sauron, sugli spazi-territori che pulsano e tremano dolcemente al di sotto e oltre l’ottusa eleganza del pensiero occidentale. Preso nel suo complesso, le sue proposte suonano come una risata isterica di fronte alle porte di un tribunale, nel quale si sta celebrando un processo politico. E suona suadente, accattivante, e invoglia a immergersi nel cuore della giungla per portare l’attacco al cuore del potere coloniale. Ancora molto c’è da fare, ancora molto c’è da pensare e ancora molto c’è da scrivere. Ma il tentativo di Boano, di Campli e degli altri autori presenti nel libro è quello di tracciare un primo solco, che rimbombi nell’omertoso silenzio del foglio bianco. Questo sarà pure il frutto di una ricerca incompleta e claudicante; tuttavia, sono sicuro che questo libro risulterà utilissimo per quegl* student* e ricercator* che sentono la necessità di confrontarsi con loro stess*, con i loro dati-per-scontato, la propria posizionalità, con il proprio bagaglio disciplinare ed esistenziale.
E per tutt* coloro a cui, come me, in fondo piacerebbe un sacco vivere in un mundo donde quepan muchos mundos.
Marco Alioni
N.d.C. - Marco Alioni è Ph.D. candidate in Urban and Regional Development presso il DIST – Dipartimento Interateneo di Scienze del Territorio del Politecnico di Torino.
Tra i suoi scritti: Valsaviore. Differenziali di potere tra il mondo sociale urbano e quello montano. Uno studio empirico sullo spopolamento delle Alpi Italiane, in «Culture della sostenibilità», vol. 19, 2017, pp. 113-131; Essere (in)appropriate. Rigenerazione delle periferie e forme intrusive di violenza urbana, in «lo Squaderno», vol. 59, 2021, pp. 53-57; Ruralità come ideologia. La costruzione del rurale e il potere dell’urbano nelle Alpi italiane: l’esempio della Valsaviore (provincia di Brescia), in «Contesti», pp. 77-98; “Viral politics. Protection lifelines granting differentiated conditions of vulnerability during the COVID-19 outbreak in Brescia”, in Camillo Boano, Cristina Bianchetti, Lifelines. Politics, ethics, and the affective economy of inhabiting, Jovis, Berlino 2022, pp. 274-287.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 09 DICEMBRE 2022 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Luca Bottini Oriana Codispoti Filippo Maria Giordano Federica Pieri
cittabenecomune@casadellacultura.it
iniziativa sostenuta da:
Conferenze & dialoghi
2017: Salvatore Settis locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
2018: Cesare de Seta locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
2019: G. Pasqui | C. Sini locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
Gli incontri
Gli autoritratti
2017: Edoardo Salzano 2018: Silvano Tintori 2019: Alberto Magnaghi
Le letture
2015: online/pubblicazione 2016: online/pubblicazione 2017: online/pubblicazione 2018: online/pubblicazione 2019: online/pubblicazione 2020: online/pubblicazione 2021: online/pubblicazione 2022:
P. Perulli, L'urbanità non è marketing, commento a: Carlo Ratti, Urbanità (Einaudi 2022)
G. Nuvolati, Anche lo spazio fa la società, commento a: M. Bergamaschi, A. Lomonaco, Esplorare il territorio (FrancoAngeli 2022)
M. Agostinelli, Più ecologia, meno disuguaglianze, commento a: E. Scandurra, La svolta ecologica (DeriveApprodi 2022)
P. Vitillo, Urbanistica? Contrattare si può, commento a: L. Gaeta, Urbanistica contrattuale (FrancoAngeli, 2021)
O. de Leonardis, Le città sono persone che fanno cose, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli 2021)
F. Governa, Un'idea di geografia, commento a: G. Dematteis, Geografia come immaginazione (Donzelli 2021)
R. Pavia, Le strade sono architetture (ma non solo), commento a: R. Secchi, L. Bochicchio, L’architettura della strada (Quodlibet 2020)
D. Patassini, Sul pensiero critico di Massimo Quaini, commento a: D. Poli et al. (a cura di), Il pensiero critico fra geografia e scienza del territorio (Firenze University Press 2021)
A. Balducci, Innovazione sociale e pianificazione, insieme, commento a: E. Manzini, Abitare la prossimità (Egea 2021)
G. Consonni, Le parole come abito morale, commento a: G. Scaramuzza, In fondo al giardino (Mimesis 2015)
G. Amendola, Progettare il futuro della città impresa, commento a: G. Dioguardi, L’impresa enciclopedia (Guerini Next 2022)
G. Pasqui, Case pubbliche: una questione aperta, commento a: A. Delera, E. Ginelli, Storie di quartieri pubblici (Mimesis 2022)
C. Olmo, Per una progressive age, riflessione a partire da: D. T. Rodgers, Atlantic Crossings (Harvard University Press 1998)
R. Budini Gattai, Abitare le città storiche, patrimoni viventi, commento a: I. Agostini, D. Vannatiello, Une ville à habiter (Eterotopia France 2022)
G. Fossa, Urbanistica a Milano tra guerra e dopoguerra, commento a: R. Busi, 1944-1946 Piani per la Milano del futuro ovvero La solitudine del tecnico (Maggioli 2020)
A. di Campli, Forme ed ecologie della coesistenza, commento a A. Gabbianelli, La differenza amazzonica (LetteraVentidue 2021)
M. C. Ghia, Roma: una città reale, molte immaginarie, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet 2021)
G. Consonni, Una città visionaria per catturare l'incanto, commento a: N. Dal Falco, Un viaggio alla Scarzuola (Marietti 2021)
L. P. Marescotti, Pianificare è necessario, nonostante tutto, riflessione a partire dai libri di: F. Schiaffonati (Lupetti 2021), P. Portoghesi (Marsilio, 2019), G. Piccinato (Roma-Tre Press), et al.
L. Rossi, La cartografia come spazio di vita, commento a: D. Poli, Rappresentare mondi di vita (Mimesis 2019)
C. Tedesco, Una cultura urbana che riparta dal vissuto, commento a: C. Cellamare, F. Montillo, Periferia. Abitare Tor Bella Monaca (Donzelli 2020)
M. Barzi, Indagare i margini, ovunque si trovino, commento a: J. L. Faccini, A. Ranzini, L’ultima Milano (Milano, Fondazione G. Feltrinelli 2021)
C. Mazzoleni, Riaffermare il ruolo dell'Urbanistica, Commento a: C. Doglio, Il piano aperto, a cura di S. Proli (Elèuthera 2021)
A. M. Brighenti, Il fascino discreto dell'interstizio urbano, commento a: B. Bonfantini, I. Forino, (a cura di), Urban interstices in Italy (Lettera Ventidue 2021)
R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis 2020)
S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni 2020)
D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi 2021)
F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi 2020)
E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi 2022)
A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni 2021)
M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi 2021)
V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet 2021)
M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer 2019)
G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli 2021)
E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella 2021)
C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi 2021)
A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)
R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue 2020)
G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni 2021)
G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce 2021)
|