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Quello di Valeria Lupo – Marcello Vittorini ingegnere, urbanista. Dall’uomo alla città (Gangemi 2020) – è un libro utile, importante, ben illustrato, che colma una lacuna inspiegabile, riportando all’attenzione dei critici e degli storici una personalità fin qui poco indagata, forse perché difficile o perché diversa da tutte le altre. Un libro scritto in modo chiaro, capace di estrarre da una mole formidabile di documenti d’archivio i fili intrecciati di una lunga ricerca e di esporli in un racconto che ne dipana con attenzione tutte le articolazioni. A ragione, l’autrice mette in evidenza il ruolo che Vittorini ha avuto: quello di proporre l’urbanistica come “cerniera tra collettività, istituzioni e potere politico” e soprattutto il fatto che si possa “cogliere, attraverso il suo operato, lo sviluppo della cultura urbanistica del secondo dopoguerra”.
Il libro si avvale di alcune introduzioni scritte da persone strettamente coinvolte nella sua preparazione. Giuseppe Imbesi spiega la definizione dell’“urbanista condotto” delineato da Vittorini, vale a dire il lavoro di un professionista che segue e cura nel tempo l’attuazione e la verifica degli strumenti che ha messo in atto nel piano, di un tecnico come figura militante da rivalutare per il proprio impegno, oggi che si vive una fase di ripiegamento del pensiero. Angela Marino, che ha coordinato l’operazione, racconta la complessa vicenda dell’Archivio Vittorini, il quale ha voluto lasciare i documenti del proprio lavoro alla sua città natale, individuando nell’Università di Ingegneria de L’Aquila l’Istituzione che meglio avrebbe potuto comprendere, ordinare e valorizzare il materiale grafico, cartografico, fotografico, gli scritti e i carteggi accumulati in una vita di attività professionale e didattica; di qui la tesi di dottorato da lei affidata a Valeria Lupo, origine del libro. Alessandra Vittorini che sottolinea il valore verso il futuro che gli archivi stessi devono assumere. Giulio Tamburini che parla dell’operato di Vittorini nelle istituzioni, a partire a partire dalle mansioni svolte per il Ministero dei Lavori Pubblici e all’INU.
Il lungo saggio di Valeria Lupo si intitola L’impegno civile di un urbanista per il “buon governo” dell’Italia e si articola in tre capitoli. Nel primo si traccia il senso stesso della monografia. Nel secondo si delinea la vita professionale di Vittorini dalla formazione negli anni Quaranta alla Facoltà di Ingegneria di Roma fino agli anni Novanta. Nel terzo si parla del territorio, città e abitazione come tre aspetti di una sola visione operativa. Ma vale, soprattutto, un nuovo metodo: lavorare insieme agli altri, scegliere gli altri, i migliori, per scambiare con loro le proprie opinioni, condividendo e imparando. Perciò la lezione di Luigi Piccinato, antesignano dell’urbanistica italiana dell’era moderna, Giuseppe Nicolosi professore alla Facoltà d’Ingegneria di Roma con il quale si laurea, Ludovico Quaroni figura chiave dell’architettura e dell’urbanistica della Ricostruzione, Giovanni Astengo che Vittorini ritiene il proprio maestro, Federico Gorio col quale fonda a Roma uno studio professionale, Bruno Zevi col quale promuove all’INU e all’IN/ARCH importanti convegni e dibattiti, Giancarlo De Carlo teorico dell’“architettura della partecipazione”, Edoardo Salzano che ne illustra il metodo di lavoro. E poi quelli della sua generazione, come Benevolo, Melograni, Valori, Aymonino, Cicconcelli, Lugli, Barucci, Passarelli coi quali collabora e discute.
L’urbanistica di Vittorini è analizzata da Valeria Lupo nelle varie fasi di un lungo cimento, con articolazioni disciplinari che man mano si differenziano, restando però sempre legate alla scelta di lavorare a fianco della società: un’attività che in concreto procede dal basso per incardinarvi i valori della propria esperienza professionale, tecnica e culturale. Rispetto a quanto esprime legge urbanistica del 1942, che di fatto sancisce una divisione tra urbanistica e architettura, si riafferma una antica regola di connessione tra le due discipline, dall’invenzione dei Borghi del Fucino negli anni Cinquanta fino al dispiegarsi di una urbanistica come strumento continuo e dinamico per il governo della città e del territorio nell’esperienza trentennale di Ravenna dagli anni Settata agli anni Novanta.
Nel secondo dopoguerra si è determinata una cesura storica. L’Italia democratica, postfascista è poverissima e deve rinnovarsi completamente con la Ricostruzione, un compito immane. Vittorini decide di ancorarsi alla sua terra, avvalendosi di tre capisaldi: la storia antica, il drammatico recente passato, la modernizzazione scaturita dalla sua formazione di ingegnere. Perciò la saldezza del territorio medievale, dove i borghi sono uno strumento fondamentale tra città e contado per la loro capacità di assicurare un territorio tutto abitato, tutto coltivato, pertanto solidissimo e capace di resistere a tutti i dissesti naturali o bellici. Vittorini li studia, li rileva, talvolta li cita nei suoi progetti. Per gli anni più vicini, viene in mente il Fontamara di Ignazio Silone, scritto in esilio negli anni Trenta e diffuso in Italia all’inizio degli anni Cinquanta. Il libro parla della povertà dei contadini, i “cafoni”, e della grettezza avara e sfruttatrice dei proprietari terrieri. Il rapporto tra possidenti e popolo emerge plasticamente nella figura di Berardo, il ‘terrone’ umile e buono che cerca invano di ottenere il pezzo di terra da coltivare che gli spetta, ma soccombe ai padroni latifondisti, intuendo però in modo quasi primordiale i valori del comunismo. Il borgo stesso ne è una metafora formale. Scrive Silone: “A chi guarda da lontano, dal feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri. Ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite e morti amori, odii invidie lotte disperazioni”
Ebbene, nel progettare i Borghi del Fucino a cominciare dal 1952, Vittorini sembra ancorato a questi eventi storici di guerra, di ribellione, di fede comunitaria. Nel secondo dopoguerra, sostituirà alle tegole rotte dei tetti e alle mura dissestate dei borghi antichi, al disordine morfologico, la perizia tecnica costruttiva imparata nel suo formarsi come ingegnere. Dunque, un piano urbanistico molto chiaro, i vuoti delle strade e delle piazze, segno di vita comunitaria, spazi dove si vive all’aperto lungo le quali o intorno alle quali di allinea l’edilizia abitativa, con i servizi e le scuole. Le case ripropongono una tipologia antica e collaudata, la casa a schiera: un modulo semplicissimo a due piani che l’architettura contemporanea ha spesso rivisitato. Vittorini, però li pensa per una doppia lettura. Le costruisce con perizia, usando tipologie ben congeniate, ma le realizza con i materiali della tradizione, riportandole all’archetipo antico di villaggi come Assergi. Ma d’altra parte allude alla casa duplex al centro della cultura europea sull’abitazione e si ricorda anche della “casa nel bosco” di origine organica, wrightiana. Vittorini dedica ogni attenzione tecnica alle mura di mattoni a cortina, alle scale, ma vi inserisce anche elementi prefabbricati del tutto originali. Il Villaggio 8000 è un riuscito punto di arrivo. Dal ricominciamento sociologico del popolo si arriva al nucleo comunitario che è premessa del rinnovamento urbano. Vittorini chiama i Borghi del Fucino “città nascenti” e Valeria Lupo vi ravvisa quasi la premessa al quartiere Ina Casa Incis di Via Cavedone.
Dalla vicenda dei piani regolatori di Piacenza, Faenza e soprattutto dall’esperienza di Ravenna − già indagata da Gianluigi Nigro – emerge, poi, la più importante attività di Vittorini, laddove la sua urbanistica può definirsi insieme pratica sociale e tecnica di governo, vale a dire strumento di lavoro nella continuità dell’azione politico amministrativa. Vittorini riesce ad instaurare con il Comune di Ravenna, col suo sindaco e con l’Ufficio di Piano, un rapporto trentennale che svilupperà strumenti programmatori per fasi di dieci anni e non più di venticinque. Si susseguono così tre piani per Ravenna: nel 1973, nel 1983, nel 1993. Ebbene, questi tre piani sono anche occasione per mettere a punto metodi innovativi. Nel primo si stabiliscono gli obiettivi, che spostano il destino della città da polo industriale e siderurgico ai valori ambientali e di tutela del centro storico; nel secondo si parte dalla verifica di quanto fatto e si prefigura poi la struttura per viali e parchi della città, giungendo alla Legge speciale per Ravenna; nel terzo si delinea la disciplina di tutela e la riqualificazione della darsena per i nuovi servizi. Ne emergono concetti che avranno lungo corso e che sono tuttora in discussione: il diritto alla città, il piano delle qualità, l’autonomia delle amministrazioni locali nei confronti dello Stato, la partecipazione della cittadinanza alle scelte, la “pianificazione sequenziale”, l’organizzazione policentrica del territorio, la riqualificazione urbana.
E veniamo al tema della casa, là dove precipita in modo palpabile, plastico, ciò che Vittorini intende come proprio obiettivo: “assicurare alla collettività un ambiente di vita civile”. L’urbanistica potrebbe definirsi una scienza invisibile, fatta di idee, di procedure, di proiezioni in un futuro difficilmente controllabile, spesso disattese. L’architettura, invece, è l’arte della forma e dello spazio costruito, subito evidente; che perciò può immediatamente convincere o può al contrario essere contestata, ma rimane. E se ne scorge immediatamente il vincolo col passato, il cimento del presente, l’anticipazione di un futuro possibile.
Se già nei Borghi del Fucino Vittorini aveva impostato il ragionamento sulla casa, nel quartiere di via Cavedone (1956-1964), progettato e costruito a Bologna con Benevolo, Calzolari, Danielli, Esposito, Carini, si registra una svolta. Si sceglie la tipologia in linea a corte con scale agli angoli del quadrilatero: due alloggi più grandi nel lato corto, quattro alloggi più piccoli nei lati lunghi. É il teorema del blocco che costituisce la cellula della città. L’organizzazione del cantiere precisa e i materiali adatti alla costruzione fanno il resto. Sociologia urbana che si fa forma: nasce il modulo del quartiere come collimazione tra tipologia edilizia e morfologia della città, concetto poi sviluppato da Carlo Aymonino. Ma le case e i blocchi del Quartiere di via Cavedone − è una sorpresa e una lezione − vengono criticati dagli abitanti perché “poco moderni”. La tecnica misurata di Vittorini sembra non bastare loro. Le corti chiuse vengono sentite come una reclusione. Ci vorranno anni perché gli abitanti si persuadano dell’efficacia dello spazio raccolto. Dunque, il progetto ha un effetto pedagogico e conserva una sua spartana bellezza nei dettagli attentamente calibrati
Nel Concorso per le Barene di San Giuliano (1958-1959), Vittorini disegna un piano che ripropone il modulo a corte, ma questa volta aperta, con una casa alta a quinta di testata, che aggrega anche case duplex, riprendendo coevi modelli europei. Il progetto di Vittorini collima con quello di Saverio Muratori che sta ragionando, da altri presupposti, sul farsi della tipologia urbana a partire dai campi di Venezia. S’impone, però, nella cultura italiana il progetto del gruppo Quaroni che segna una impennata verso la grande dimensione, l’architettura come nuova forma simbolica che riassume in sé il piano urbanistico, la ricerca di un nuovo linguaggio autoriale, introducendo la ricerca internazionale sul town-design.
Vittorini rimane invece ancorato alle sue idee misurate, non va oltre, vedi il quartiere Emilia Levante a Bologna (1963), dove sviluppa l’organizzazione del cantiere prefabbricato e applica i pannelli per le pareti-finestra pavimento-soffitto, ripresa della “finestra Perret”. Data fatidica: è quella del Concorso per il Centro Direzionale di Torino, con i progetti memorabili del gruppo Quaroni e del gruppo Samonà che proseguono nella ricerca della grande dimensione, estesa ormai a una fitta schiera di altri architetti, tra i quali emergono Aymonino e Canella. La grande dimensione, è chiaro, non appartiene a Vittorini. Egli ritiene, evidentemente, che non abbia vere radici sociali, non vi sia partecipazione, né controllo democratico: c’è la supremazia della forma, un nuovo linguaggio immaginato per la modellazione della megalopoli. E qui viene fuori un aspetto decisivo del carattere di Vittorini, la sua ritrosia a primeggiare − la sua “umiltà”, così la chiama Giuseppe Imbesi − oggi così fuori moda. Attivissimo nelle istituzioni, ma schivo nel proporsi come personalità di riferimento, egli non può seguire questo tipo di architettura dove non vede metodo, non vede misura, non vede tecnica. Ci si può chiedere se ci sia in questo atteggiamento qualcosa di antistorico, o se invece ci sia l’intuizione di procedimenti che la città e i suoi abitanti, nonché le istituzioni, avrebbero in quel momento storico rifiutato.
Ci sono, però, i suoi “frammenti di città” che segnano una nuova strada intermedia: lavori fatti in collaborazione con Gorio, e che lo avvicinano a ricerche analoghe proposte da Michele Valori. Si tratta di complessi di una scala più piccola, quella che Vittorini padroneggia bene, e che sono importanti perché creano una continuità non solo ideale o simbolica, ma concreta, con lo spazio della città. Se in Valori la casa in città è trattata come snodo, attraversamento tra esterno urbano e interno come spazio di vita privato, in Vittorini e Gorio la questione si fa più esplicita. Essi riescono a costruire nel Complesso edilizio Barattelli, 1960-1963 a L’Aquila, un legame importante con la città attraverso l’articolarsi diagonale delle cellule abitative e il sistema della grande rampa circolare, quasi un gancio con lo spazio esterno, come lo erano le strade nella città medievale. I progetti di Fontana Candida e di Castel Giubileo, a Roma, ne sperimentano la caratura urbanistica.
Per concludere, un libro aperto, che pone molti problemi e ci presenta un personaggio fuori dal comune. Il ricco apparato che conclude il volume, con l’elenco delle opere e degli scritti di Marcello Vittorini, l’ampia bibliografia e il regesto dettagliato dell’archivio, sono gli strumenti che Valeria Lupo mette a diposizione di quanti vorranno sviluppare queste scottanti tematiche.
Alessandra Muntoni
N.d.C. Alessandra Muntoni, già professore ordinario di Storia dell’Architettura alla Facoltà di Architettura della Sapienza, Università di Roma, ha fatto parte del Collegio dei docenti del dottorato di Storia dell’Architettura. Ha partecipato a convegni nazionali e internazionali e ha organizzato con Antonino Terranova, “Zevi, per l’Architettura” (2002) e, con Corrado Bozzoni e Daniela Fonti, “Luigi Moretti architetto del Novecento” (2010). Ha lavorato e collaborato con lo studio Passarelli (1970-1972, 1992) ed è tra i soci fondatori dello studio Metamorph.
Tra i suoi libri: Barcellona 1859. Il piano senza qualità (Bulzoni, 1978); con Renata Bizzotto e Luisa Chiumenti (catalogo a cura di), 50 anni di professione (Edizioni Kappa, 1983); Lo studio Paniconi e Pediconi 1930-1984 (Edizioni Kappa, 1987); (a cura di) Sabaudia (Multigrafica, 1988); Il Palazzo Stoclet di Josef Hoffmann, 1905-1911; (a cura di), Latina (Multigrafica, 1990); I due progetti per il palazzo dei congressi di Cesare Cattaneo, Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni a Rebbio (Como), 1936-37 (Centro internazionale di Studi di Architettura 'Andrea Palladio', 1994); Lineamenti di storia dell'architettura contemporanea (Multigrafica Ed., 1989; Laterza, 1997; 1998; 2000; 2002; 2003; 2004; 2005; 2007; 2008; 2009; 2010; 2011; 2013; 2023); (a cura di), Bruno Zevi, Una vita di scelte (Università degli studi di Roma 'La Sapienza', 2002); con Gabriele De Giorgi e Marcello Pazzaglini, Metamorph: architetture. Works and projects, 1965-2003 (Edizioni Kappa, 2003); Architettura nell'era elettronica (Mancosu, 2005); con Antonino Terranova (a cura di), Bruno Zevi per l'architettura, atti del Convegno internazionale di studi, Roma, 14-15 marzo 2002, aula magna dell’Ateneo della Sapienza Università di Roma (Mancosu, 2005); (a cura di), Cesare Cattaneo e i Littoriali della Cultura e dell'Arte 1934 e 1935 (Archivio Cattaneo, 2008); con Cesare De Sessa e Luigi Prestinenza Puglisi, Studioschiattarella (Mancosu, 2008); Roma tra le due guerre 1919-1944. Architettura, modelli urbani, linguaggi della modernità (Edizioni Kappa, 2010); con Corrado Bozzoni, Daniela Fonti (a cura di), Luigi Moretti. Architetto del Novecento, Sapienza Università di Roma, Dipartimento di storia dell'architettura, restauro e conservazione dei beni architettonici: atti del convegno Roma, 24-25-26 settembre 2009 (Gangemi, 2011); con Maria Luisa Neri (a cura di), Michele Busiri Vici, architetto e paesaggista 1894–1981 (Campisano, 2017); a cura di, Bruno Zevi, 100 (LetteraVentidue, 2018); con Maurizio Petrangeli (a cura di), Roma, un futuro possibile/Rome a Possible Future (Mancosu 2020).
R.R.
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