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DEMOCRAZIA IDEALE, DEMOCRAZIE REALI


Non esiste crisi della democrazia ma problemi nelle democrazie






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Un contributo alla discussione de

LA DEMOCRAZIA NEL XXI SECOLO. Riflessioni sui temi di Alfredo Reichlin, a cura di Giuliano Amato, Roma, Treccani, 2022, pp. 329

 

 

1 Da quasi un decennio, la mia tesi, che esprimo ripetutamente e ripetitivamente è che, sulla scia di Giovanni Sartori, bisogna assolutamente distinguere fra la democrazia ideale e le democrazie reali, realmente esistenti, e che la crisi della democrazia non esiste, ma costantemente e più o meno frequentemente fanno la loro comparsa problemi, difficoltà, inconvenienti di funzionamento nelle democrazie realmente esistenti. Chi non coglie queste distinzioni finisce soltanto per contribuire alla confusione analitica prevalente, resa ancora più fitta dall’affermazione che ognuno ha/avrebbe la sua definizione di democrazia. Autore dell’importante volume Democrazia e definizioni pubblicato nel 1957 (Bologna, il Mulino) e variamente ristampato, ma oggi purtroppo non più disponibile, Sartori sarebbe profondamente irritato dalla faciloneria di quell’affermazione. Delle parole e dei concetti esistono sempre definizioni prodotte dalla storia e definizioni concordate (stipulate) dagli studiosi, non da ciascuno di loro, ma dalla convergenza delle loro vedute, opinioni, ricerche e analisi dopo confronti pubblici. In materia, nessuna definizione di democrazia può prescindere dalla etimologia: potere del popolo. Poi si tratta di chiarire le caratteristiche del popolo e il significato di potere. Ma, naturalmente, se il potere è nelle mani di uno, di pochi, di nessuno non possiamo avere dubbi: non è democrazia.

Chiudo questa premessa riportando con minime variazioni alcuni paragrafi che scrissi nel 2014 ai quali sono particolarmente affezionato e che ritengo mantengano tuttora la loro validità. Anzi.

“Seduti in qualche caffè parigino, una Gauloise fra le dita e un Pernod sul tavolino; rifugiatisi nella loro casetta per il fine settimana su un lago tedesco; raggruppati in vocianti tavolate che criticano aspramente uno qualsiasi dei governi latino-americani; ad un congresso fra colleghi politologi e sociologi in una ridente località balneare esotica; partecipando alla riunione di redazione di un quotidiano progressista romano, molti pensosi intellettuali dei più vari tipi dichiarano con faccia triste che la democrazia è in crisi, è una causa persa, non può essere salvata. Rannicchiati in qualche prigione cinese; agli arresti domiciliari nel Sud-Est asiatico; braccati dalla polizia in diversi stati africani; nascosti sotto protezione perché è stata lanciata una fatwa contro di loro; malmenati in Piazza Tahrir, migliaia di oppositori, uomini, donne, studenti, lottano in nome della democrazia – sì, proprio quella, occidentale, che hanno visto in televisione e nei film americani, sperimentato come studenti a Oxford, Cambridge, Harvard, La Sorbona – organizzano attività, reclutano aderenti, qualche volta mettono in gioco consapevolmente la vita. Per nessun altro regime, mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate allo stremo” (Politica e istituzioni, Milano, Egea, 2014, p. 118).

 

2. Quanto di questo testo, che non è un appello alle emozioni, ma un invito razionale a fare qualche riflessione e qualche conto su che cosa è la democrazia, su che cosa può essere, su chi è in grado di costruirla, di migliorarne il funzionamento e di accrescerne la qualità si trova nelle pagine dei molti libri e articoli dedicati al ripiegamento e al disfacimento, al backsliding (scivolamento all’indietro) dei sistemi politici democratici e che giungono saccentemente a spiegare “come muoiono le democrazie”? La mia personale e preliminare risposta è davvero molto poco, quasi nulla. Ovvio che “armato” dalle idee che ho espresso sopra, non sono incline ad essere indulgente nei confronti di analisi che non escano dai binari già tracciati e troppo spesso battuti. Tuttavia, apprezzo gli sforzi tesi a illuminare le sfide, ad approntare le soluzioni, a valutarne le conseguenze. Proprio come scrive Giuliano Amato nell’introduzione a questo libro bisogna concentrare l’attenzione sui prerequisiti di una democrazia funzionante; sull’impatto sulle democrazie delle grandi innovazioni del nostro tempo; sulle condizioni delle democrazie le cui culle furono gli USA e l’Europa e sulla sfida non-democratica della Cina. E sia.

Purtroppo, moltissime riflessioni e analisi contemporanee (anche nei capitoli di questo libro) sono inquinate (sì, questo è il verbo che ritengo appropriato) da un grave equivoco, vale a dire che la democrazia abbia promesso l’eguaglianza. Giuliano Amato, curatore del volume, lo scrive in maniera più sfumata: “Sappiamo da molto tempo che non può esservi democrazia senza un tasso ragionevole di eguaglianza” (p. 11). Che cosa sappiamo esattamente? E da quanto tempo? È possibile essere più precisi riguardo a cosa è “ragionevole” in termini di eguaglianza, ad esempio, per i norvegesi e per i messicani? Per gli americani e per gli europei? Posso sentirmi autorizzato a pensare che se l’eguaglianza “ragionevole” non viene conseguita e mantenuta, ma, al contrario, crescono indistintamente le diseguaglianze, allora la democrazia ha fallito, è fallita, fallirà? No, non è affatto così. Una breve digressione è indispensabile.

Nella definizione e nel concetto di democrazia che nasce in Grecia non c’è nessun riferimento all’eguaglianza. Meno che mai all’eguaglianza economica e di esiti materiali. Quanto all’eguaglianza di condizioni, gli uomini greci che partecipavano al governo della polis condividevano condizioni sociali e culturali molto simili. Scherzosamente, ho spesso messo in evidenza come, in un modo o nell’altro, in tempi diversi, quegli uomini avevano appreso la filosofia passeggiando con Socrate, Platone e Aristotele: la “buona scuola” (!). Come ha giustamente sottolineato più volte Sartori (si veda, in particolare, il densissimo capitolo Eguaglianza nel suo volume Democrazia Cosa è, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 178-194), i greci si riferivano ad una sola eguaglianza indispensabile per la democrazia: la isonomia, vale a dire l’eguaglianza di fronte alla legge. La mia interpretazione estensiva di questa eguaglianza va fino ad includere i diritti, civili e politici, di cui, in democrazia, debbono godere tutti i cittadini, diritti che debbono essere protetti e promossi appunto per tutta la cittadinanza. Grazie a quei diritti ciascuno e tutti saranno in grado di perseguire la felicità che, è presumibile, soltanto una minoranza interpreterà in termini economici, come eguaglianza di guadagni, e come livellamento delle condizioni di vita. Probabilmente, la grande maggioranza dei cittadini desidererà/desidera eguaglianza/e di opportunità. Forse, su questo punto, un libro che è dedicato al pensiero politico di Alfredo Reichlin e alla sinistra che lui voleva rinnovare, sarebbe stato cruciale prevedere un capitolo apposito.

Molto interessante è notare che l’eguaglianza non figura nel famoso elenco stilato da Norberto Bobbio delle “promesse non mantenute” della democrazia (Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, 1991, 1995). L’eguaglianza, ovvero, meglio, la ricerca dell’eguaglianza, fece la sua comparsa dieci anni dopo nel fortunatissimo saggio Destra e sinistra. Ragioni di una distinzione (Roma, Donzelli, 1994) come criterio differenziante il pensiero e l’azione della sinistra rispetto alla destra sostanzialmente disponibile a prendere atto delle diseguaglianze come esito, sostanzialmente giusto e ineluttabile, delle attività, dell’impegno, delle capacità dei singoli, e ad accettarle.

 

 

3 Le mie osservazioni critiche non intendono affatto chiudere il discorso sui rapporti fra democrazia e (dis)eguaglianze. Al contrario, mirano a riorientarlo più produttivamente. Pur seriamente apprezzando lo sforzo di documentazione della dinamica delle diseguaglianze effettuato nel suo capitolo da Andrea Brandolini (Democrazia politica e eguaglianza economica) non posso non rilevare due carenze degne di essere accuratamente colmate. La prima riguarda l’individuazione la più articolata possibile dei fattori che conducono alle diverse situazioni di diseguaglianze misurate con riferimento ai mutamenti nelle distribuzioni del reddito. La seconda concerne l’impatto che ha la politica sulle scelte di ciascun paese. A utile essenziale integrazione (non completamento che altri elementi dovrebbero entrare in gioco) del capitolo di Brandolini, viene l’ottima ricognizione di Gianni Toniolo, Democrazia e stato sociale (avrei scritto tutto al plurale; infatti, “pluralista” è la trattazione dell’importante tematica). La creazione, la manutenzione, la trasformazione dello Stato sociale è stata storicamente la risposta della sinistra al problema delle diseguaglianze, non per farle sparire, impossibile, ma per contenerle, renderle tollerabili, meno influenti sulla vita delle persone, creare situazioni nelle quali a quelle persone si possano offrire opportunità che, poi, ciascuno sfrutterà secondo le sue capacità, le sue preferenze, i suoi obiettivi.

Nel quadro di regole, procedure e istituzioni che definiscono le democrazie, sono le donne e gli uomini che prescelgono le loro strategie di vita. Sappiamo che nel non troppo lontano passato dell’Europa occidentale, in alcune democrazie si giunse ad un insiemi di convergenze e accordi fra le forze sociali e politiche che andò sotto il nome di compromesso socialdemocratico. Consistette in triangoli virtuosi nei quali sotto l’egida di un partito socialdemocratico/laburista/dei lavoratori capace di vincere e rivincere le elezioni e di andare e rimanere al governo, sindacati unici potenti e rappresentativi della classe operaia accettavano di moderare e differire le loro richieste salariali in cambio di politiche di investimenti e di impiego ad opera delle associazioni industriali che, messe a conoscenza dei progetti e delle direttive dei governi socialdemocratici garanti del compromesso, agivano di conseguenza con sicurezza. Tutto questo, tranne la fiducia reciproca e la consapevolezza che le situazioni di conflittualità comportano alti costi specifici, particolaristici e sistemici, è venuto strutturalmente meno. La classe operaia è numericamente diminuita in maniera molto significativa e si è frammentata. Hanno fatto la loro comparsa ceti di persone “post-materialiste”, non organizzabili poiché convinte di potere difendere le loro preferenze e avanzare i loro interessi grazie alle proprie capacità personali. La tecnologia consente, spesso obbliga le imprese ad assumere personale specializzato a prescindere da qualsiasi accordo con i governi i quali, raramente, hanno solida base socialdemocratica. Infine, le politiche keynesiane di deficit spending sono state rese impossibili dalla globalizzazione e impraticabili nell’ambito dell’Unione Europea.

Densi capitoli di questo libro mettono in evidenza le sfide, ma anche gli spazi di eventuale democrazia economica, che vengono alla democrazia dalla tecnologia (Salvatore Rossi), dalla trasformazione energetica (Valeria Termini), dalla “Produttività perduta dell’Occidente” (Philippe Aghion), dai mutamenti dei valori (la mia interpretazione sarebbe piuttosto focalizzata sul mancato aggiornamento della cultura politica delle sinistre) nell’ambito di elettorati potenzialmente di sinistra (Colin Crouch). In questo contesto si situa l’Unione Europea della quale, forse troppo severamente, Lucrezia Reichlin mette in evidenza le inadeguatezze e gli errori piuttosto che le realizzazioni e gli apprendimenti concludendo con l’individuazione di tre scenari per il futuro: scenario autoritario (sovranismo economico e solidarietà transnazionale nel quale, però, non vedo l’autoritarismo); Scenario di democrazia deliberativa sperimentale, ritenuto lo scenario più auspicabile, ma ancora da concettualizzare e approfondire; Scenario dello status quo, da lei stessa ritenuto il più improbabile. Concordo e aggiungo che, in effetti, in ogni momento l’Unione Europea avanza e che, pertanto, dovremmo forse pensare ad un Scenario federale di maggiore integrazione. Sono rimasto affezionato ai tre procedimenti indicati circa una ventina di anni fa: Allargare, Approfondire, Accelerare, che mi paiono ancora tutti plausibili e esperibili. Un po’ estraneo dal resto del libro è il capitolo di Pietro Reichlin: L’Italia, il Mezzogiorno. Riflessioni sull’economia italiana dell’ultimo ventennio, dal quale mi sarei aspettato critiche non soltanto “economiche”, ma politiche, alle classi politiche meridionali che darebbero maggiore senso ad un’affermazione dell’autore altrimenti prigioniera degli stereotipi: “penso che il Mezzogiorno possa crescere più del resto del paese solo se ha la capacità di valorizzare le sue diversità, una vocazione specifica e non omogenea rispetto alle altre aree del paese” (p. 299).

 

 

4 Non so se lo scontro del XXI secolo sarà un duello fra gli Stati Uniti d’America e la Cina. Però, in qualche modo, non soltanto in maniera sotterranea, sia Pierluigi Ciocca (L’America, un colosso d’argilla?) sia Ignazio Musu (Democrazia ed economia in Cina) procedono a effettuare una serie di confronti. GLI USA non ne escono bene: “gli Stati Uniti sono in crisi profonda” (p. 221) scrive Ciocca; “la classe politica è frantumata e mediocre” (p. 222); esiste “un’insicurezza isterica del vertice di Washington che non può non preoccupare” (p. 223); “la democrazia USA è fragile” (p. 224). Dopo qualche cenno comparato Ciocca offre una conclusione che trovo molto discutibile: “la Cina antepone la soluzione dei problemi sociali del popolo ai diritti civili degli individui: l’economia prima, la democrazia dopo. Gli Stati Uniti, come le altre democrazie liberali, invertono la sequenza [più precisamente, osservo che non hanno mai avuto un’altra sequenza]. Forse i due sistemi sono destinati a convergere” (p. 239). Questa convergenza fra sistemi politici e economici tanto diversi fu suggerita sessant’anni fa da due grandi politologi: Zbigniew Brzezinski e Samuel P. Huntington ( Political Power: USA/USSR, New York, The Viking Press, 1963). Sbagliarono alla grande.

Certo, la Cina di Xi Jinping non è l’Unione Sovietica degli anni Ottanta dello scorso secolo, ma porre il problema della democrazia in Cina come se fosse all’ordine del giorno mi appare piuttosto sconcertante. Musu afferma che i cinesi “sembrano soprattutto preoccupati della libertà di scelta delle opportunità di consumo piuttosto che della libertà di espressione politica” (p. 250) e aggiunge che “in sostanza, il sistema politico cinese può contare su una sostanziale adesione da parte della società” (Ibidem) e, anche se non c’è il godimento delle libertà politiche, una quota crescente della popolazione gode della possibilità di decidere come vivere, dove abitare, come e cosa consumare, quali occupazione cercare, e dove e come studiare” (p. 251). Peraltro, conclude Musu, “quella cinese appare … come una società che tende volentieri a fare meno della politica” (p. 251, c.vo mio, lo accompagno con il quesito: come è possibile sapere che i cinesi sono disposti a fare a meno della politica?). Nel confronto con la Cina che garantisce il benessere sociale al prezzo che Musu sembra considerare adeguato del sacrificio delle libertà di scelta politiche individuali, l’autore avvisa l’Occidente che, se esalta senza limiti tali libertà, “corre il rischio di perdere la sfida, magari con il paradossale risultato che la conclamata esaltazione delle libertà di scelta individuale finisca per servire come base per l’ascesa a un potere di governo che verrà poi esercitato in modo autoritario” (pp. 261-262) Confesso di non avere mai visto nulla del genere a fondamento dell’ascesa dei regimi autoritari. Al contrario, l’espandersi del benessere e la crescita quantitativa di una classe media colta e benestante potrebbero diventare sfidanti temibilissimi del regime totalitario cinese.

 

 

5 Il capitolo conclusivo di Salvatore Biasco non tira le impossibili fila di discorsi talvolta troppo dispersi e dispersivi. Mi limito a citare la sua netta affermazione con la quale concordo: il “riconoscimento dello Stato come centro e guida della vita collettiva è un passo in avanti nella ripresa delle potenzialità democratiche” (p. 326). Ricominciamo da qui nella consapevolezza che quello “Stato” si trova Bruxelles e che la democrazia nella e della Unione Europea ha solide basi e notevoli capacità di attrazione e espansione.

 

 

GIANFRANCO PASQUINO, socio dell’Accademia dei Lincei, è Professore Emerito di Scienza Politica. I suoi libri più recenti sono Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana e Tra scienza e politica. Una autobiografia, entrambi pubblicati da UTET, rispettivamente 2021 e 2022.

 


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13 GENNAIO 2023