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Era l’11 maggio del 2020, nel pieno della pandemia, quando sul MES scrivevo così: “Agli oppositori irriducibili del MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità, meglio conosciuto come Fondo salva-Stati) vorrei ricordare, innanzitutto, che l’attuale formulazione è completamente diversa da quella che fu utilizzata per il salvataggio (ma a che costi) della Grecia. Si tratta oggi, data l’emergenza Covid, di un fondo a disposizione degli Stati (pari al 2% del PIL: nel nostro caso 38-40 miliardi di euro) da investire in interventi sanitari diretti o indiretti. Questa è l’unica condizione al suo utilizzo: non ve ne sono altre”. E ancora: “Si tratta, va detto, di un prestito, che andrà restituito nell’arco di 10 anni, al tasso dello 0,1% certamente più vantaggioso (nella misura di 5-6 miliardi, di qualsiasi altro prestito. Ma la considerazione da fare è un'altra: trattandosi di un fondo vincolato a spese sanitarie, è proprio questa l’opportunità da non lasciar perdere e da utilizzare, senza indugio”
Bene. Chi erano gli oppositori di allora? I 5 stelle, che esprimevano il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni, allora all’opposizione. Gli stessi di oggi, a ruoli invertiti, con l’atteggiamento ambiguo di Forza Italia, allora decisamente favorevole all’utilizzo, oggi apparentemente contraria, per solidarietà di Governo. Ma il MES va approvato oggi come allora, per due ragioni. La prima di metodo: l’Italia è l’unico paese europeo che ancora non l’ha approvato, e il suo non-voto rappresenterebbe una sorta di “veto” al suo utilizzo (quel diritto di veto che noi rimproveriamo ad altri Stati, Orbán in testa, su altri provvedimenti). La seconda di merito: il MES va o non va utilizzato?
Basta fare due conti: il fondo sanitario nazionale è stato finanziato per 124 miliardi di euro nel 2022 (pari al 7.0% del PIL). La finanziaria 2023 prevede un incremento di “soli” 2 miliardi che, a fronte di una inflazione quasi in doppia cifra, porterà il rapporto col PIL al 6.6%; analogo incremento nel 2024, col risultato di far scendere il rapporto al 6.3%. Pochi, troppo pochi ne parlano. Ma il risultato, per la tenuta stessa del sistema, rischia di essere devastante. Le ovvie conseguenze: ci sarà un taglio e una caduta nella erogazione di servizi e prestazioni; ci sarà un ulteriore allungamento dei tempi di attesa; e i cittadini che vorranno accedere alle stesse prestazioni che avevano prima dovranno sborsare di tasca propria. Già oggi il privato pesa per oltre il 30% della spesa complessiva su tutti i cittadini italiani (e quasi il 40% per i lombardi). Dove si arriverà? Il pericolo è che, a un certo punto, il Servizio Sanitario Nazionale si riduca a compiti essenziali, ma limitati e residuali, e che il cittadino debba ricorrere alle assicurazioni per integrare le prestazioni necessarie. E’ quello che vuole l’attuale governo?
Se si vuol difendere un sistema davvero universalistico occorrono più risorse, sia economiche che umane. Mancano oggi circa 30.000 medici, e un numero circa doppio di infermieri. Come si può correre ai ripari? E qui il MES offre una opportunità unica e non rinviabile: il fondo potrebbe consentire già nel 2023 la disponibilità di circa 10 miliardi, che sarebbero un’ottima iniezione di risorse nel SSN. Il timore del Governo è quello che alcuni dei suoi cavalli di battaglia, come la flat tax e la cosiddetta “pace fiscale”, possano essere inibite dall’Europa? Hic Rhodus, hic salta. Rispetto alle stucchevoli discussioni in atto per le briciole della manovra di bilancio, dove ogni partito pretende di porre la sua bandierina, questa è la discussione di gran lunga più impegnativa, ma rispetto alla quale si sentono solo imbarazzati silenzi.
Gli interventi oggi più necessari alla riorganizzazione della sanità per garantire il fondamentale diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione sono: il riaccorpamento e l’implementazione dei servizi di prevenzione in un unico dipartimento operativo; la ricostituzione e il rafforzamento dei Distretti socio-sanitari, in stretto contatto con i Comuni; la revisione della organizzazione e del modo di operare dei Medici di Medicina Generale, promuovendo la medicina di gruppo, come servizio attivo e non di pura attesa, e implementando la telemedicina, la digitalizzazione, e la condivisione del fascicolo sanitario elettronico. Sono troppe, del resto, le Case della Salute già inaugurate, soprattutto in Lombardia, con i soldi del PNRR, ma sostanzialmente vuote, per la mancanza di operatori.
Sarà necessario, per realizzare questi obiettivi, che una legge nazionale intervenga sui processi formativi e di specializzazione del Medico di Medicina Generale (per superare le carenze strutturali oggi evidenti) e per normare lo stesso rapporto di lavoro dei medici che, almeno per i nuovi inserimenti, non dovrà più essere per convenzione, ma per dipendenza diretta dal SSN, come già per i medici ospedalieri.
Quanto alle liste di attesa, dovranno essere riviste le normative in vigore, legandole a obiettivi di massima trasparenza e contenimento dei tempi, arrivando anche al blocco della libera professione intramuraria nel caso di superamento dei limiti previsti. In particolare, sia i servizi pubblici che i privati dovranno rendere esplicite e verificabili le liste di attesa per ricoveri e prestazioni, garantendo contrattualmente gli stessi tempi per gli assistiti del SSN come per tutti gli altri paganti in proprio o coperti da tutele assicurative.
Tenendo conto, infine, che proprio la pandemia ci ha insegnato che il nostro Paese non può permettersi venti diversi sistemi sanitari, e che il divario andrà, nel tempo, colmato piuttosto che accentuato, la richiesta avanzata da alcune Regioni, tra cui la Lombardia, di autonomia differenziata in materia sanitaria (oggi rimessa in campo dal ministro Calderoli) dovrà non solo essere ripensata ma ritirata.
Questi sono i nodi veri in campo. Se le forze politiche credono a un sistema sanitario universalistico devono battere questa strada. Il traccheggiare sul poco o nulla non fa che mettere in discussione la tenuta stessa del SSN.
Pino Landonio Nato nel 1949, padre di due figli e nonno di 5 nipoti. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1973, e specializzato in Ematologia (1978) e in Oncologia (1986). Ha lavorato come ematologo e poi come oncologo all’Ospedale Niguarda, dal 1975 al 2006. Dal 2005 al 2010 è stato Consigliere Comunale a Milano. Dal 2011 collabora con l’Assessorato al Welfare del Comune di Milano e coordina, a Palazzo Marino, l’iniziativa “Area P” (incontri mensili di poesia). Ha pubblicato, per Ancora, tre raccolte di “Dialoghi immaginari” con poeti di tutti i tempi e paesi (2015, 2017 e 2019) e “Guarda il cielo”(30 racconti, 2016). Ha inoltre pubblicato "Modello Milano " (Laurana, 2019); "Modello Lombardia?" (Ornitorinco, 2020); "E la gente rimase a casa" (La mano, 2021). (ndr) © RIPRODUZIONE RISERVATA 13 GENNAIO 2023 |