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Il libro di Margherita Bernardi, Francesca Cognetti e Anna Delera, Di-stanza. La casa a Milano in tempi di Covid 19 (LetteraVentidue, 2021), è articolato in due parti: la prima è redatta dalle autrici e su questa tornerò più avanti. La seconda è affidata al contributo di vari studiosi ed esperti che, pur da punti di vista differenti, forniscono tutti un quadro molto preoccupato della drammatica condizione abitativa a Milano per un numero di famiglie e individui sempre più significativo: situazione ulteriormente aggravatasi nelle difficili condizioni lavorative determinate dalla pandemia. Nel libro affiorano così – sostanzialmente simili nei vari interventi – i dati sconfortanti sul caro affitti, sugli sfratti, sull’aumento esponenziale dei senzacasa, sui processi di gentrificazione; a fronte dei quali, tra l’altro, non sembrano intravedersi politiche di contrasto efficaci, anche se non manca qualche segnale di speranza, come quelli di cui scrivono Valentina La Terza e Sara Travaglini – nel capitolo intitolato Gestione integrata e abitare giovane, una sperimentazione milanese – relativi ad alcuni programmi volti a facilitare l’accesso dei giovani ad abitazioni in affitto. Nel loro intervento – Milano città esclusiva – Mattia Gatti ed Ermanno Ronda, responsabili del Sicet, fanno invece solo desolato riferimento a quelle politiche di welfare che avevano nel secolo scorso costruito alcune importanti protezioni sociali e che, abbandonate da anni, si ha ormai quasi pudore a evocare. E infine il giornalista Francesco Floris – Le 4 C: Cittadini e Capitale nella Città del post Covid 19 – fa emergere l’aspetto più inquietante, quello che nel destino infelice di tante persone riconoscendo l’effetto di una trasformazione in atto nella città di Milano dove: “si ha l’esempio plastico della capacità dei capitali finanziari di cogliere occasioni dentro una crisi strutturale di sistema. Una dinamica quasi scollegata dai fondamentali economici, sintetizzabile nell’inedita formula: città vs cittadini: dove lo sviluppo urbano e periurbano della prima non passa più dallo sviluppo sociale e dai destini dei secondi. (grassetto mio) Il settore pubblico degli anni a venire andrà giudicato dalle capacità di sapere prendere decisioni rispetto a questa dissonanza”. (p.89)
A questo punto, mi piace tornare al testo che dà corpo alla prima parte del volume perché qui viene introdotto un tema, quello dell’affitto, che nella situazione attuale di particolare mobilità (o, come si dice, di liquidità) sociale, pare rappresentare una delle principali possibili strategie per una politica che, pur a fronte delle forti torsioni spaziali che il capitale finanziario va imprimendo sulla città, possa garantire una accettabile equità nella distribuzione dell’offerta abitativa. Così, nel rilevare il sostanziale fallimento delle politiche per la casa perseguite disordinatamente negli ultimi anni, le autrici danno una particolare attenzione al patrimonio edilizio privato e pubblico della città e alle logiche che ne hanno caratterizzato e guidato in passato la valorizzazione e la gestione. Logiche estremamente varie, intricate e in parte anche sconosciute agli stessi uffici preposti alla loro regolazione; con la conseguenza di un sostanziale spreco edilizio, con una sotterranea e spesso ingiusta distribuzione di occasioni abitative, di tassazioni, di affitti. Siamo infatti in presenza di quel diffuso regime proprietario che connota l’Italia in una dimensione che, nelle città, non è paragonabile con quella di altri paesi. A Milano, per esempio, già a partire dal primo dopoguerra con il diffondersi dei condomini, i dignitosi stabili borghesi facenti capo a un unico proprietario che ne gestiva gli alloggi – io ricordo nella mia infanzia il mitico “padrone di casa” che raccoglieva periodicamente gli affitti – si sono frammentati in proprietà molteplici, riducendo o quantomeno irrigidendo il patrimonio complessivo destinato all’affitto. Ma è soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale che la proprietà della casa si diffonde massicciamente, favorita da politiche che, con la concessione del suolo urbano a prezzi ridotti, con la facilitazione di mutui agli acquirenti e con incentivi al settore edilizio sollecitavano il consenso insieme dei costruttori e di una popolazione anche modesta che, in un momento di stabilità del lavoro, riponeva la sua sicurezza economica e affettiva nella proprietà della casa. A questo pulviscolo proprietario, che introduce capillarmente sul mercato le proprie offerte – e che sarà il principale interlocutore e contestatore della legge sull’Equo canone del ’78 introdotta a sostegno dell’inquilinato – si aggiungevano i grandi patrimoni immobiliari privati e pubblici, i quali – ultimi nello scenario milanese –mantenevano spesso affitti quasi di favore e non regolati dal mercato.
Insomma, siamo in presenza di un sistema complesso – che tra l’altro le autrici non per la prima volta tentano di dipanare – sul quale si inseriscono le dinamiche più recenti determinate dai grandi interessi finanziari che – come ricorda Floris – dal controllo del patrimonio edilizio urbano tendono a ricavare il massimo del profitto. Cosicché, mentre i quartieri pubblici di edilizia sociale, sguarniti e maltenuti boccheggiano sotto la pressione crescente delle famiglie sfrattate, dei nuovi poveri, dei migranti, nelle posizioni urbane più attrattive si concentra e moltiplica un patrimonio edilizio appartenente a finanziarie spesso straniere attratte dal nuovo ruolo di Milano in campo internazionale. Queste creano un circuito totalmente autoregolato con affitti altissimi, per i propri dipendenti, i propri dirigenti, i propri uffici di rappresentanza; dando lavoro, contemporaneamente, a un folto personale subalterno di servizio, per pulizie, guardianie, sorveglianza e altro: una apparente restituzione alla città dei benefici ricevuti su cui la sociologa Saskia Sassen da diversi anni ha fornito analisi lucidissime relative ad altri contesti. Si aggiunga che questi grossi interventi, se inseriti in zone caratterizzate da palazzi borghesi o signorili – come nel caso del nuovo quartiere di City Life – generano effetti “di trascinamento” sul livello dei canoni di affitto qui praticati; ma, in generale, anche se in zone più modeste o popolari, la loro presenza si ripercuote sinistramente sui prezzi dei servizi urbani circostanti.
A fianco di tali iniziative, si è assistito negli ultimi anni a un moltiplicarsi di attività da parte dei numerosi piccoli e meno piccoli proprietari che le proprie difficoltà economiche e/o le opportunità del mercato invogliano alla messa a frutto dei loro alloggi per affitti brevi a turisti o a quegli studenti fuori sede che la nota carenza pubblica di accoglienza induce ad arrangiarsi sul mercato. Questi processi mentre penalizzano alberghi e strutture di accoglienza tradizionali, sottraggono contemporaneamente occasioni di affitto stabile, accessibile per le famiglie, portando a una progressiva riduzione dell’offerta abitativa all’interno della città storica e alla contemporanea espulsione di individui e famiglie a basso reddito in sempre più lontane periferie o nei comuni dell’hinterland (a loro volta sottoposti a tensioni dagli esiti ancora incogniti) con ricadute quindi sul contesto territoriale più ampio.
Rispetto a questa situazione – scrivono le autrici – “appare centrale rafforzare le politiche per l’accesso alla casa, così come ragionare su nuove politiche per la locazione, in controtendenza rispetto al periodo passato”. Ciò in nome di una vera e propria “difesa”, non solo delle fasce più deboli della popolazione ma del carattere, del volto complessivo della città. Questi problemi non sono solo di Milano ma investono in modo vario tutte le metropoli europee, dove alcuni amministratori pubblici – o più spesso amministratrici – stanno sperimentando interventi anche di controllo avvalendosi pragmaticamente di molteplici strumenti, ma anche di pratiche in certo senso antiche o più semplicemente di buon senso. Nel testo, per esempio, si fa riferimento a più casi:
- quello di Berlino, dove il costo degli affitti, enormemente aumentato negli ultimi lustri, è stato calmierato e congelato per cinque anni in tutti gli immobili precedenti il 2014, riconoscendo però un risarcimento ai proprietari; l’amministrazione pubblica ha inoltre acquisito tramite una sua società immobiliare, con un investimento di 360 milioni di euro, 8000 alloggi da rimettere sul mercato attraverso affitti calmierati; - quello di Barcellona, dove la sindaca Ada Colau, in difesa del centro della città per la popolazione popolare che lo abita, oltre ad aver revocato le licenze a 597 appartamenti turistici, ha imposto che 194 alloggi appartenenti a quattrodici banche e tenuti vuoti per usi turistici, fossero dati in affitto, minacciandone l’esproprio e la rivendita sul mercato al 50% del loro prezzo; - quelli di Lisbona e di Porto, dove numerosi sono i provvedimenti delle amministrazioni locali messi in campo per proteggere i loro centri storici dagli stravolgimenti sociali determinati da un indiscriminato uso turistico; - quello di Parigi, dove la sindaca Anne Hidalgo ha introdotto radicali controlli sugli affitti brevi a scopo turistico nel centro della città.
In tutti questi casi, così come negli altri citati nel testo, le autrici sottolineano che i programmi e le politiche volti a favorire l’accesso alla casa non si esprimono attraverso incentivi alla proprietà ma privilegiando strumenti che garantiscano una maggiore fluidità nell’utilizzo del patrimonio edilizio sia privato sia pubblico attraverso l’affitto – anche per rispondere a quella specifica esigenza di mobilità e di libertà di movimento che è propria della nostra società, specie nelle fasce più giovani. E anche in ragione di ciò giudicano negativamente il decreto Sostegni bis per l’acquisto della casa da parte dei giovani sotto i 36 anni che il Governo italiano ha emanato qualche tempo fa, adeguandosi in ciò alla nostra tradizionale politica di appoggio alla proprietà privata della casa.
A provvisoria conclusione le autrici invitano quindi le amministrazioni locali e regionali– ma anche i livelli istituzionali centrali – ad affrontare il difficile tema dell’equità dell’offerta abitativa utilizzando soprattutto strumenti che amplino e controllino il patrimonio edilizio destinato all’affitto, favorendo una interpretazione del bisogno di casa come parte di una strategia urbana ecologica in senso lato, che ha nel capitale umano la guida prioritaria per una riconsiderazione della città come bene comune da difendere. Una proposta positiva in questo senso parrebbe essere quella contenuta nei programmi di rigenerazione urbana promossi su scala nazionale, nei quali si sottolinea la necessità che l’abitare sia studiato come sistema integrato con servizi di prossimità e con il concorso di capitali pubblici e privati. Si tratta di uno snodo concettualmente stimolante che richiede, come negli esempi virtuosi sopra citati, un rigoroso controllo pubblico sui sistemi di esclusione e di stratificazione sociale che questi interventi possono ingenerare se le scelte localizzative restano dominate dai meccanismi incontrollati della rendita urbana e dalle potenti logiche di profitto. Richiede altresì attenzione agli equilibri nella distribuzione delle qualità ambientali e nella accessibilità ai servizi urbani, alla chiarezza logica dei percorsi, alla valorizzazione dei luoghi simbolici e di incontro: cioè a quei disegni di vita che non siamo più abituati a leggere nei grandi e ambiziosi progetti che tante archistar ci propongono.
Bianca Bottero
N.d.C. – Bianca Bottero, già professore ordinario di Tecnologia dell’architettura, ha insegnato Progettazione ambientale presso la seconda Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ha svolto attività di ricerca nel campo della progettazione urbana, della sostenibilità e dell’abitazione sociale col Laboratorio ABITA da lei diretto. Ha creato con Lorenzo Spagnoli e altri nel 1987 l’annuario internazionale “Housing” che ha diretto fino al 2000. Da dieci anni collabora con l’Associazione di volontariato Alfabeti, insegnando italiano alle donne extracomunitarie che vivono nel quartiere San Siro a Milano.
Tra i suoi scritti: a cura di, Città e campagna (Edizioni del sole, 1975); con Lodovico Meneghetti, a cura di, Il problema della casa (Clup, 1977); a cura di, Alain Lipietz, La rendita fondiaria nella città. Circolazione del capitale e proprietà fondiaria nella produzione edilizia (Feltrinelli, 1977); La cultura del 900. Architettura (Gulliver, 1979; Mondadori, 1982); a cura di, Progetto e gestione dello spazio nelle società complesse. Rapporto di ricerca dai paesi anglosassoni (Clup, 1984); Progetto o metodo. Variazioni sul tema della Salina di C. N. Ledoux (Guerini, 1988); a cura di, Decostruzione in architettura e in filosofia (CittàStudi, 1991; Clup, 2002); a cura di, Progettare e costruire nella complessità. Lezioni di bioarchitettura (Liguori, 1993); con Anna Di Salvo e Ida Faré, a cura di, Architetture del desiderio (Liguori, 2011).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 10 FEBBRAIO 2023 |