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Facendo quattro passi tra le righe della prima settimana della 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
La questione è più o meno sempre la stessa e di conseguenza non ripetersi, nel raccontarla, risulta impossibile: ogni anno da più di mezzo secolo, una cravatta di terra lunga 11 chilometri stesi verticalmente sulla superficie della laguna di Venezia – verde come una bacinella di acqua e menta troppo poco diluita – si riempie di sale cinematografiche e viene invasa da una popolazione in transito che rincorre le anteprime di film provenienti da ogni angolo della terra. Come una costellazione di installazioni, attraversate da performance collettive estemporanee, le proiezioni che si articolano negli otto cinema che vengono realizzati per l’occasione e che spariscono nel tempo di un istante non appena il festival conclude il suo giro, diventano il perimetro di un mondo che si esaurisce in se stesso senza mai entrare in relazione con il luogo che lo ospita.
C’è qualche cosa di bestiale nel menefreghismo sfrontato o nella totale assenza di curiosità delle persone che attraversano quotidianamente per due settimane una porzione marginale di quei cortissimi undici chilometri di terra tra mare e laguna. Critici, giornalisti, sceneggiatori, scrittori, poeti, registi: intellettuali e artisti che fanno delle loro esistenze un continuo tracciare segni e approfondire significati, a Venezia si accontentano di saltare da una sala all’altra senza farsi alcuna domanda. Non è certo una storia che riguarda solo l’esperienza del Festival del Cinema di Venezia. Si tratta piuttosto di una forma di cecità culturale che ormai abbiamo sviluppato – in alcuni contesti più tangibile per ragioni architettoniche – e che ci rende incapaci di vedere davvero ciò che c’è davanti ai nostri occhi, demandando ogni responsabilità soggettiva a forme di adesione astratta a principi ideali (anche quelli comunque sempre più vacui e rarefatti).
Questo spostamento di piano, questo processo di astrazione che ormai compiamo istintivamente, fa si che finiamo per sentirci assolti nel compimento di atti simbolici come la manifestazione indetta per questo 11 settembre in solidarietà ai migranti, proprio a Venezia, nei luoghi del Festival, e magari non sappiamo nemmeno che al porto, a pochi chilometri di distanza dal punto in cui siamo noi, afgani e curdi minorenni, in fuga o in viaggio dai loro paesi d’origine, muoiono schiacciati dai furgoni in cui si sono nascosti per approdare a una vita migliore.
Così, mentre un gruppo di bellocci in Everest scala una montagna innevata sfidando le intemperie, mentre Jonny Depp firma autografi dal red carpet, prima di entrare nella Sala Grande dove vestirà i panni del gangster in Black Mass, mentre la sera in riva al mare dell’Excelsior si svolge il galà di inaugurazione del Festival, dove il prosciutto sta appeso ai vassoi come una guarnizione e le persone, rigorosamente su invito, si accalcano pasciute ai tavoli imbanditi di cibo perdendo l’eleganza recitata dagli abiti che indossano, c’è una città, che nel Lido trova una sua declinazione prevalentemente estiva, che sta morendo.
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 27 SETTEMBRE 2015 |