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Introduzione del saggio IL CREDO FILOSOFICO Ricordo politico di Fulvio Papi
UN GIORNO DI MAGGIO
Fulvio Papi abitava all’ultimo piano di un comune condominio, grigio e austero, in Piazza Carlo Donegani, nei pressi del Politecnico di Milano, tra Lambrate e Città Studi. Zona della linea verde della metropolitana dominata da semplici negozi, supermarket a buon mercato, bar e tavole calde; i tratti tipici di ogni area cittadina di passaggio, in cui i pendolari e i viaggiatori si susseguono a ritmo costante, incrociando destini e destinazioni. Quartiere insolito per un intellettuale come lui, cittadino onorario della città di Milano: titolo che umilmente scansava, con l’atteggiamento di chi detesta i vessilli, nella consapevolezza che si tratta in molti casi di formalità esteriori. Eppure in questo quartiere, in questa zona popolata da studenti con le tavole di architettura sottobraccio, Fulvio Papi si collocava perfettamente: rappresentava la voce di una cultura che nulla aveva a che vedere con l’elitarismo e che rivendicava, non senza un briciolo di orgoglio, una certa non-contemporaneità.
Lo conobbi un giorno di maggio del 2018 grazie a Gabriele Scaramuzza, docente di filosofia estetica dell’Università degli Studi di Milano, da poco in pensione, che mi consigliò di recarmi da lui per la mia tesi sul rapporto tra arte e vita in Antonia Pozzi. Ultimo studente in vita di Antonio Banfi e della “Scuola di Milano”, e ormai in pensione da diversi anni dalla cattedra di filosofia teoretica all’Università di Pavia, nessuno meglio di Papi– affermava Scaramuzza – avrebbe potuto aiutarmi. Fu così che sia lui che la mia relatrice, Laura Boella, mi consegnarono al maestro.
Fulvio Papi mi apriva la porta della sua casa popolata di libri tenendola ferma con il bastone il tempo esatto per permettermi di entrare, e ogni volta, con i suoi occhi chiari e pregni di esperienza, mi diceva che vedermi gli faceva piacere perché entrava la giovinezza con me, nel suo studio, oltre che Antonia Pozzi, e che parlare dei suoi anni giovanili era un modo di tornare indietro nel tempo, ora che per lui si avvicinavano gli anni del “tramonto”, in cui i ricordi di mischiavano e la Storia, nelle sue contraddizioni, continuava a tormentarlo e interrogarlo.
Era un filosofo di confine, Fulvio, svincolato da ogni tipo di paternalismo, definizione o etichetta. Ricordare le sue origini triestine era, per lui, andare a riflettere instancabilmente su uno dei ruoli cardine attorno ai quali dovrebbe ruotare la figura dell’intellettuale: la capacità di stare in mezzo a una molteplicità di mondi e farsi “medium” della contraddizione. Da qui la scelta di passare gli ultimi anni della vecchiaia ristudiando da capo gli aspetti più reconditi delle opere di Nietzsche, il poligrafo per eccellenza della storia della filosofia, con l’umiltà, sempre più rara, di chi non ha alcuna intenzione di smettere di indagare e capovolgere il suo punto di vista. Dalle 16.00 circa a notte fonda, ha continuato, chino alla scrivania, fino alla fine, stoicamente, a leggere e a scrivere, inforcando matita, fogli e occhiali come un vero e proprio operaio della conoscenza.
Mi riceveva sempre intorno alle 17.00 e prima di iniziare a parlare della tesi mi chiedeva, puntualmente, con gli occhi puntati verso la sua biblioteca archeologica: “cara, passami quel libro, stanotte potrebbe servirmi e alzarmi dalla scrivania mi crea molta fatica”. Mi dirigevo quindi verso i libri del professore, seguendo le sue coordinate, e sentivo l’importanza di un gesto che la contemporaneità ha ridotto al meccanicismo: consegnare al capocantiere un mattone, sentire il suo entusiasmo nell’afferrarlo e dire “sì, cercavo proprio questo, adesso possiamo cominciare.”
L’atteggiamento della ricerca lo animava come fuoco vivo e allo stesso tempo lo rendeva inquieto, impegnato perennemente ad assicurarsi, come una Vestale, che la scintilla non si spegnesse; che indifferenza, individualismo e disattenzione non mandassero tutto in cenere. Dall’inquietudine di questo maestro ho imparato che la Storia, come una mina vagante, ci interroga e ci tormenta, e che dal suo pungolo, dalle sue ferite che colpiscono senza alcuna pietà, è destinato a sgorgare il fiume impetuoso da cui la filosofia è chiamata a ribellarsi e a riemergere, a farsi “filosofia della vita e della crisi”, come Antonio Banfi, docente di cui Fulvio Papi fu l’ultimo allievo vivente, ripeteva costantemente ai suoi alunni facendo propri gli insegnamenti ricevuti, a sua volta, da Georg Simmel a Berlino. E questa crisi storica, culturale e politica Fulvio l’aveva attraversata nel profondo, camminando attraverso gli anni arroventati del fascismo e della Resistenza, del dopoguerra, del ‘68, dello stragismo e del G8 di Genova. Aveva però scelto di non insegnare a Milano e di prendere ogni mattina, per quarant’ anni, il treno che da Lambrate lo portava all’Ateneo di Pavia. In quel tragitto, mi raccontava, leggeva i giornali e talvolta si sentiva in difetto, temeva di non aver fatto abbastanza affinché la prospettiva dell’ “autonomia socialista”, per cui si era battuto per anni scrivendo come vicedirettore sull’ Avanti!, non fallisse.
Sarà bastato il mio modo di fare cultura? La classe operaia mi perdonerà?
Non ho fatto il partigiano, Laura – mi confessava, e ne provava vergogna.
In quegli anni io studiavo e non ho avuto il coraggio di Dino Formaggio – aggiungeva. Ho pensato forse troppo e solo allo studio?
E mi spiazzava il suo senso critico, il suo mettersi continuamente in discussione, ormai all’alba dei novant’anni, il rammarico con cui non si perdonava “la sconfitta delle sinistre” dopo la nascita della Repubblica: [Abbiamo sbagliato qualcosa. Anche la Filosofia sarebbe dovuta intervenire più incisivamente. Abbiamo fatto degli errori imperdonabili. Cosa direbbe, di noi, ora, chi ha fatto la Resistenza? Cosa possiamo fare per continuare a difendere quegli stessi valori oggi, in Italia e nel mondo? Il tempo è poco. Devo richiedere la tessera Anpi, mi sono accorto che mi manca.]
Mi restituiva speranza, ogni volta, incontrarlo e poter assorbire la forza che traspariva dalle sue riflessioni, dalla corrente che guardava e analizzava dall’interno, senza ignorarla né assecondarla e rifiutandosi, ad esempio, di scrivere mail o di utilizzare il cellulare. Più di una volta mi chiese di imbucargli delle lettere per la rivista intitolata, appunto, Corrente, fondata nel 1938 da Ernesto Treccani e su cui avevano scritto, negli anni, diversi allievi della Scuola di Milano, tra cui anche Antonia Pozzi, che vi aveva pubblicato poco prima di porre fine alla sua vita due saggi su Aldous Huxley. Questo era il modo in cui Fulvio Papi cuciva passato e presente, rivendicando la sua autonomia, il suo essere orgoglioso portavoce di un tempo che necessitava di essere riattualizzato, come l’ultimo tedoforo che porta la fiamma senza nascondere la responsabilità che il compito richiede.
Da Antonia Pozzi a Georg Simmel ad Antonio Banfi, passando per Vittorio Sereni, Remo Cantoni ed Enzo Paci, fino ad arrivare a Nietzsche e alla frattura dell’egemonia metafisica, il tormento del professore mi dava nuovi stimoli e mi restituiva il coraggio di scavare, di guardare alla Storia passata e presente senza annichilirmi, con lo spirito di lotta che nasce dall’urgenza di dare consistenza a un’idea e la rabbia che nasce dalla consapevolezza che metterla in atto troverà continui ostacoli e pietre d’inciampo.
Ho appena appreso che Fulvio Papi ci ha lasciato. Come ogni mattina, da tre anni a questa parte, ho chiuso il mio zaino di docente e mi sono recata a scuola pensando a come poter fare la differenza all’interno di un sistema scolastico sempre più mercificato e spietato. A Milano cade una pioggia fitta, gli studenti del Politecnico corrono a lezione. Un treno per Pavia è in partenza dalla stazione di Lambrate. Stasera ci sarà un presidio di fronte al consolato turco in difesa della rivoluzione curda. Al confine tra Russia e Ucraina le parole di Anna Politkovskaja prendono, ogni istante che passa, forma. Lula ha avuto la sua rivincita e si conferma nuovo presidente del Brasile. Il neofascismo continua, indisturbato, a imperare. A un migrante minorenne afghano, sulla rotta balcanica, stanno spaccando, nell’indifferenza, le ossa; stanno togliendo, nell’indifferenza, lo status di essere umano.
In questo contesto, con la delicatezza e il silenzio che lo rendeva così diverso da molti esponenti del mondo accademico, il professore ha chiuso la porta del suo studio-mondo senza fare rumore e me lo immagino fare un ultimo sorriso distaccato alla vita che tornava, inevitabilmente, a chiedergli il biglietto, senza rancore e con socratica ironia.
Il mio primo pensiero va alla sua scrivania, per la prima volta, dopo anni, sola: cantiere in cui ogni giorno, senza sosta, in modo esemplare, il maestro lavorava di lima e di scalpello, si arrabbiava, rispondeva al vecchio telefono, rinunciava ad ogni certezza, si animava, interrogava Nietzsche e Marx, Bruno e Heidegger, Gramsci e Derrida, Mann e Flaubert.
Il secondo pensiero agli strumenti di lavoro che ci lascia in eredità: scommessa che riapre il cantiere e ripropone la sfida politica, etica, storica e umana di una filosofia dirompente e rinnovata, che rinuncia alla regola degli Ubi maior e delle Auctoritates.
Il terzo, che avrebbe liquidato velocemente, con il carattere schivo che lo contraddistingueva, è un pensiero di gratitudine, che gli rivolgo direttamente, pensandomi ancora sulla porta che conduceva, attraverso un piccolo corridoio tappezzato di libri, al suo studio.
Questo è il gesto attraverso il quale ho deciso umilmente di ringraziarlo, nella speranza che sia il modo in cui avrebbe preferito essere ricordato come filosofo e soprattutto come uomo.
Milano,
22/11/2022 © RIPRODUZIONE RISERVATA 03 MARZO 2023 |