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Devo confessare che quando ho ricevuto il libro di Pierfrancesco Sacerdoti – Via Dante a Milano. Una strada e la sua architettura nella città europea del XIX secolo (Gangemi, 2020) – a parte aver constatato che dava riscontro all’interesse registrato occasionalmente per una strada molto centrale e importante di Milano, via Dante appunto, l’avevo messo da parte deducendo dal fitto indice e dai temi trattati che fosse un lavoro di ricerca di tipo accademico. E tale senz’altro è ma, come cercherò di argomentare, è anche qualcosa di più.
Dopo la bella introduzione di Giancarlo Consonni il volume è articolato in tre capitoli: il primo dedicato alla cultura architettonica milanese nella seconda metà dell’Ottocento; il secondo sulla trasformazione del centro e la realizzazione di via Dante e il terzo è un’accurata descrizione, degli isolati e dei lotti e delle tipologie della casa d’affitto e di commercio fino alla composizione delle facciate e all’architettura d’insieme della strada. Si chiude con un capitolo nel quale si tirano le somme di questa accurata analisi, che per certi versi potrebbe risultare ridondante, soffermandosi sul rapporto tra le parti dell’edificio e in particolare sul ruolo relativamente autonomo delle facciate in questo tipo di edifici e sul loro contributo alla qualità dello spazio urbano; l’adozione di regole insediative e compositive e il ricorso al concorso per favorire la qualità architettonica degli interventi. Inoltre, Sacerdoti indaga come il tema della monumentalità dello spazio urbano, inaugurato con via Dante anche attraverso l’adozione dell’unità di gronda, sia stato riproposto significativamente in altri assi urbani senza, tuttavia, poter adottare tale soluzione di forte coordinamento tra gli edifici; il confronto con interventi analoghi in Europa rispetto al maggiore o minore successo del tema della “omogeneità senza uniformità” che contraddistingue via Dante. Il capitolo finale dedicato ai problemi aperti avvia una riflessione sullo scenario presente che ha palesemente contraddetto i presupposti dell’impostazione di quel progetto dovuto alla pluralità delle tendenze e dei linguaggi, sottolinea la difficoltà di proporre oggi la costruzione di isolati compatti e di case affiancate, nel momento in cui il mercato immobiliare promuove con insistenza il modello dell’edificio isolato e si chiede se la strada come spazio architettonico unitario possa prescindere dall’edificazione in cortina.
Riprendendo in considerazione il libro, tuttavia, mi sono reso conto, che è sì un’opera accademica, che ci informa in modo un po’ pedante della storia e della realizzazione di via Dante e di questa parte molto rappresentativa della nostra città, ma che ci invita anche a riflettere su molte questioni che riguardano il presente e il rapporto tra la crescita e lo sviluppo della Milano contemporanea. A proposito del rapporto crescita-sviluppo, da qualche anno, orientato da una chiara riflessione di Gabriele Pasqui, ho rinunciato a considerarli sinonimi, come la maggior parte dei commentatori fanno, riconoscendo invece che sono concetti antinomici. Al punto di poter sostenere che spesso registriamo una crescita urbana senza sviluppo e uno sviluppo senza crescita. E se, secondo l’interpretazione condivisa da molti, l’attuale situazione di Milano è assimilabile alla prima condizione, la storia di via Dante e del sistema del Sempione, raccontata dettagliatamente da Sacerdoti, rappresenta l’esempio di come, in passato anche a Milano si sia potuto avere sviluppo senza crescita, almeno per quanto riguarda l’ampliamento dei confini urbani, l’occupazione di territorio e di suolo non ancora urbanizzato. E non è che ciò sia avvenuto attraverso una gestione urbanistica restrittiva dell’iniziativa privata ma proprio valorizzandola, anche in termini economici, attraverso un’incalzante regia pubblica e un dibattito molto ampio tra ceti professionali e intellettuali, con proposte progettuali messe a confronto pubblicamente e senza delegare le decisioni ai poteri forti privati, come avviene oggi, su tante questioni rilevantissime per lo sviluppo della nostra città. Una considerazione che deriva direttamene dall’interpretazione di quell’esperienza, consiste nel fatto che l’impianto urbano che ancora rende riconoscibile la Milano storica, malgrado gli interventi di enorme impatto che ne hanno modificato la skyline, è proprio il sistema che va da piazza del Duomo all’asse del Sempione, coinvolgendo il Castello, il parco, l’arco della Pace e il corso che si prolunga idealmente fino a Parigi. Città che, per le trasformazioni milanesi dell’Ottocento, è stata riferimento fondamentale.
Un altro aspetto trattato implicitamente, riguarda la questione relativa alla cosiddetta Scuola milanese di architettura sulla quale, per merito del compianto collega e caro amico Antonio Monestiroli, desidero tornare perché aveva proposto un’idea di Scuola milanese, ritagliata attorno alle figure rappresentative della componente razionalista dei Bottoni, dei Gardella e degli Albini. Delimitazione e ritaglio che lo stesso Monestiroli aveva poi dovuto ritrattare anche sulla base della constatazione che la Milano moderna avevano contribuito a plasmarla, molto e forse più di quanto avesse fatto la componente razionalista, il gruppo degli architetti organici a quella borghesia illuminata che aveva fatto crescere il capoluogo lombardo produttivamente ed economicamente: Ponti, Caccia Dominioni, Magistretti e i loro numerosi accoliti. A seguito della lettura di questo libro mi sono però reso conto che la questione dell’identità della Scuola di Architettura milanese si può dirimere soprattutto se si tiene conto di quella componente professionale ottocentesca che accompagnò lo sviluppo di Milano durante la rivoluzione borghese, i cui componenti erano stati tutti ispirati all’ideale estetico di Carlo Cattaneo. Ebbene, è questa la componente professionale che può essere considerata antesignana della Scuola d’Architettura milanese del secondo dopoguerra che, per la situazione storica oggettiva, era legata a quella classe imprenditoriale ottocentesca i cui successori saranno artefici del boom economico che farà di Milano la capitale morale del paese. Una classe imprenditoriale locale, quella ottocentesca, che come nel caso della Galleria Vittorio Emanuele e di Foro Bonaparte non disdegnava possibili innesti della finanza internazionale ma senza diventarne subalterna come è invece avvenuto con i fondi d’investimento che operano attualmente a Milano. Il compito di tutelare la propria autonomia rispetto ai poteri economici già allora forti, non poteva dipendere soltanto dall’etica professionale ma derivava da una forte regìa pubblica che aveva saputo contemperare le finalità speculative dei privati con il pubblico interesse rappresentato in primis dalla qualità della città e dell’architettura.
Esemplare il fatto che la dichiarazione di pubblico interesse dell’operazione di via Dante sia allora servita per effettuare tutti gli espropri necessari da parte del Comune che, dopo averne disciplinato l’edificabilità in termini morfologici, insediativi e tipologici, aveva poi messo le aree a disposizione degli investitori rivendendole opportunamente valorizzate con adeguato ritorno economico anche per le proprie casse. Sono questi alcuni aspetti dell’analisi di Sacerdoti che, più che informarci, ci insegnano veramente molto. L’esatto contrario di ciò che avviene oggi per le aree dismesse degli scali ferroviari e per lo stadio di San Siro dove, nel primo caso, si concede una enorme volumetria su aree inedificabili che dovrebbero essere pubbliche e vengono privatizzate lasciando l’incremento di valore quasi per intero alla società che discende da Ferrovie dello Stato. Nel secondo caso, invece, si favorisce una proposta speculativa dichiarando di interesse pubblico l’esproprio a favore dei privati (camuffato da concessione per 90 anni) di un bene pubblico costituito da un pezzo di città che comprende lo stadio Meazza, che si vuole demolire, e le sue aree di pertinenza composte dal Parco dei Capitani e dai parcheggi per una superficie complessiva di 280.000 metri quadrati.
Leggendo il libro ho anche ritrovato vicende storiche rispetto alle quali ho riscontrato attinenza con episodi della mia esperienza di docente e di professionista. Un primo riguarda l’analisi interpretativa che egli fa del disegno di Leonardo che figura nel foglio 199 del Codice atlantico che rappresenta la planimetria di Milano, dalla quale si deduce la primissima idea di collegare il Castello con la città. Anche affascinato dalla straordinaria vista dall’alto riconoscibile nei suoi monumenti più importanti, avevo fatto ricorso a quella stessa planimetria introducendo una mia lezione sulle tipologie storiche di Milano. Mi era servita per illustrare come la città tendesse già allora a proiettarsi nel territorio attraverso le porte, che in quella planimetria sono nominate una per una, con piccoli abitati e come ciò influenzasse gli aspetti e le caratteristiche tipologiche anche all’interno delle mura e in particolare delle casere e delle sostre lungo i Navigli.
Un successivo riferimento l’ho ritrovato nell’ampia trattazione dedicata al progetto del Foro dell’Antolini al quale, come responsabile del Catasto del Disegno in occasione della Sedicesima Triennale dedicai una bella mostra in cui fu esposta una straordinaria copia delle stampe colorate ad acquerello provenienti dalla Bibliothèque Nationale de France di Parigi. Fu anche l’occasione per fare una ricerca su Parco Sempione – documentata nella pubblicazione curata da Maria Grazia Folli e Danilo Samsa, Milano Parco Sempione. Spazio pubblico, progetto, architettura 1796/1980 (Clup, 1980) più volte citata in questo libro – che assegna il dovuto risalto al progetto che è all’origine delle trasformazioni che interesseranno il sistema del Sempione che l’Antolini pone in direzione della Francia e di Parigi fissandone l’orientamento in corrispondenza con l’asse del Castello.
Un’ulteriore concomitanza è per me ancora più rilevante perché riguarda il mio progetto di via San Raffaele-Santa Radegonda, il più importante che abbia realizzato a Milano, in riferimento al quale in termini del tutto fortuiti ed occasionali, nel libro si dice: “In questa sede interessa in particolare il caso di via Santa Radegonda, per la sua natura di strada di sventramento e per l’attenzione all’unità delle facciate, per le quali viene scelta una veste architettonica uniforme, sobria ma decorosa. In questa idea della strada come progetto di architettura si può riconoscere un’anticipazione di via Dante”. Devo osservare che l’analogia tra i due interventi mi sembra azzardata per via della sproporzione sia della scala che del ruolo morfologico ma mi ha gratificato apprendere di aver avuto l’occasione di progettare e realizzare un intervento architettonico in un tassello della città che oltre a essere centralissimo ha rappresentato una importante trasformazione urbana. Alle due strade ho dedicato molta attenzione, adeguandomi alla situazione del contesto non solo per quanto riguarda la soluzione compositiva lungo via Santa Radegonda, ma anche rispetto a via San Raffaele e alla Galleria Vittorio Emanuele. Lungo via Santa Radegonda quella originaria unità delle facciate è andata perduta a causa della realizzazione delle forti volumetrie della Rinascente e del complesso dell’Odeon, ma mi sono rapportato agli edifici più bassi sul lato opposto della strada in corrispondenza del mio intervento. Dovendo scegliere tra monoliticità del volume che stavo progettando oppure adeguarlo all’altezza degli edifici opposti lungo la strada, ho optato per questa ipotesi di carattere contestuale valorizzando lo spazio urbano invece dell’edificio in sé. Dal punto di vista compositivo la facciata dell’edificio di via San Raffaele ha delle analogie con alcuni degli edifici di via Dante in quanto presenta un elemento di centralità che nel mio caso lo mette in relazione con l’asse est-ovest della Galleria e con la sua scala architettonica assai enfatizzata rispetto al contesto. Allo stesso tempo mi sono dovuto confrontare con un lotto triangolare il cui lato curvo lungo via Santa Radegonda si presentava formato da tratti rettilinei che ho ritenuto opportuno riportare alla curva in grado di raccordarli. Ciò ha sensibilmente migliorato la cortina edilizia che invece di essere formata da piccoli prospetti piani giustapposti ha assunto una continuità in coerenza con l’andamento del tracciato stradale. Un aspetto che ha comportato notevoli conseguenze riguardo ai dettagli architettonici e alla sagomatura del rivestimento lapideo la cui superficie esposta, dopo una lunga controversia con l’impresa, è stata realizzata curva.
Il progetto ha riguardato la definizione di una tipologia analoga a quelle concepite per via Dante con l’aggiunta della piccola galleria sull’asse del braccio est-ovest della Galleria Vittorio Emanuele per collegarla a piedi la con via Hoepli e Piazza Meda. Ho dovuto studiare una tipologia polifunzionale con attività commerciali al piano terreno, uffici pubblici e una componente ricettiva che doveva originariamente essere una foresteria comunale, poi inspiegabilmente trasformata in un lussuosissimo piccolo albergo privato. Così come il Comune ha rinunciato alla sala conferenze ricavata al piano interrato utilizzata come spazio per archivi e deposito. Anche dal punto di vista insediativo ravviso una qualche attinenza con il lotto di via Dante alla confluenza con via San Prospero per via del lato curvo che ne caratterizza il prospetto, unico nel ricco repertorio dei prospetti rettilinei accuratamente studiati.
Nel libro ricorrono altri temi che hanno richiamato alla mia mente esperienze di progettazione molto significative come il progetto di climatizzazione della galleria Vittorio Emanuele eseguito in collaborazione con l’Enea che ha comportato anche un accurato rilievo del grande monumento eseguito utilizzando tecniche d’avanguardia allora ancora in fase di sperimentazione. Inoltre desidero citare la partecipazione al concorso del Museo del Novecento che ho eseguito con estrema diligenza nel rispetto dei requisiti richiesti dal bando. Tra di essi il divieto di interrompere i solai della torre dell’Arengario da me scrupolosamente rispettato e palesemente contraddetto nel progetto che ha vinto il concorso. Più recentemente mi sono anche interessato di piazza Cordusio, elemento del sistema di via Dante al quale Sacerdoti dedica un approfondita riflessione. Considerato nell’ambito di un ciclo di incontri dedicato alle nuove architetture di Milano in occasione del quale, discutendo un intervento sugli edifici storici di via Orefici dello studio Barreca-La Varra, abbiamo ragionato sulla deriva di valore e significato che subiscono gli spazi urbani a seguito del cambiamento delle originarie funzioni pubbliche, in funzioni private, ospitate negli edifici che su di essi prospettano.
Mi rendo conto di aver parlato forse più delle mie esperienze che del libro, ma è la dimostrazione di quanto mi abbia concretamente coinvolto per il fatto che alcuni miei progetti e studi si sono applicati proprio al contesto che Pierfrancesco Sacerdoti ha studiato approfonditamente e di cui ci dà conto in una pubblicazione che è una vera e propria lezione di urbanistica.
Emilio Battisti
N. d. C. – Emilio Battisti, architetto e pittore, è stato professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ha insegnato come visiting professor in diverse università internazionali (Accademia di Architettura di Mendrisio, Pratt Institute, Syracuse University e Columbia University) e ha fatto parte del Collegio dei docenti del dottorato in Composizione Architettonica presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia e del Dottorato in Progettazione Architettonica e Urbana del Politecnico di Milano.
Ha diretto per Feltrinelli la collana "Casa, Città, Territorio" e curato l'edizione italiana di alcune opere sull'architettura del costruttivismo; è autore della raccolta di saggi "Architettura, Ideologia e Scienza" sulla teoria e la pratica delle discipline di progetto, della voce "Grandi Esposizioni" dell'Enciclopedia Universale dell'Arte e di testi critici sull'opera di Vittorio Gregotti, Mario Botta, Gae Aulenti, Steven Holl, Franco Purini, Philip Johnson, Livio Vacchini, Gino Pollini, Yvonne Farrell & Shelley McNamara.
Tra i suoi libri: Struttura urbana e trasformazioni territoriali (Fabbri, 1967); con Adalberto Dal Lago (a cura di), La propedeutica e l'insegnamento della composizione architettonica, atti del Convegno nazionale tenuto il 5 e 6 marzo 1966 dall'Istituto di composizione architettonica della Facoltà di architettura di Milano (Ist. di composizione della Facolta di architettura del Politecnico, 1968); a cura di, Anatole Kopp, Città e rivoluzione: architettura e urbanistica sovietiche degli anni Venti (Feltrinelli, 1972; 1977; 1987); Architettura, ideologia e scienza: teoria e pratica nelle discipline di progetto (Feltrinelli, 1975); a cura di, Moisej Jakovlevic Ginzburg, Saggi sull'architettura costruttivista (Feltrinelli, 1977); con Kenneth Frampton (a cura di Italo Rota), Mario Botta: architetture e progetti negli anni '70 (Electa, 1979; 1981; 1983); con altri, Expo diffusa e sostenibile: progetto finalizzato a promuovere l'Esposizione universale di Milano 2010 come manifestazione diffusa nel territorio con interventi ecosostenibili (Unicopli, 2011).
Come progettista ha partecipato a concorsi nazionali e internazionali. In Italia, ha preso parte a quello per il recupero urbano di Porto Catena-Fiera a Mantova (1° premio); per il sovrappasso ferroviario e la nuova stazione delle autolinee di Bergamo (1° premio); al concorso Shindler "Risalire la città" a Bergamo (3° premio); per il Centro direzionale e per la nuova Università di Firenze e per l'Università di Cosenza (vinti e realizzati con Vittorio Gregotti e altri); a Bologna, il concorso per la stazione FS (segnalato), per il recupero urbano della Manifattura tabacchi (segnalato) e per il teatro Arena del Sole poi realizzato; a Rimini per il Teatro Galli (2° premio) e per la nuova sede dell'Amministrazione Provinciale (2° premio); a Milano, per la riqualificazione della Galleria Vittorio Emanuele (secondo classificato), per la sistemazione dell'asse Duca d'Aosta-Vittor Pisani-Repubblica e dell'area Garibaldi-Repubblica (segnalato); per nuovi spazi nel Palazzo della Regione, già grattacielo Pirelli (terzo classificato), per la Biblioteca Europea di Informazione e Comunicazione (ammesso al 2° grado), per la sistemazione delle aree attorno alla Basilica di San Lorenzo (1° premio, realizzato) con il recupero conservativo dell'ex Chiesa Valdese in via dei Fabbri, e per Piazza Costantino (1° premio, realizzato). All'estero ha partecipato al concorso per la Tête Défense, Mission Grande Axe (selezionato) e l'Opéra de la Bastille (segnalato) a Parigi; per il recupero dell'ex Ambasciata italiana come nuova Accademia delle Scienze a Berlino (1° premio con Gae Aulenti e Klaus Theo Brenner); per Lützowplatz a Berlino (cui ha fatto seguito l'incarico, da parte dell'IBA, per un edificio residenziale realizzato); per l'ampliamento della biblioteca di Lipsia; per il nuovo quartiere Nord di Lugano. Tra i progetti realizzati vanno inoltre segnalati: l'edificio multifunzionale tra le vie S. Raffaele e S. Radegonda a Milano; le stazioni ferroviarie di Cesano Maderno e di Pinerolo; l'ampliamento dell'industria aeronautica ex Savoia Marchetti di Borgomanero; una grande casa per vacanze sul Lago Maggiore.
Emilio Battisti è anche un divulgatore e animatore culturale. Ha organizzato e continua ad organizzare incontri e dibattiti sull'architettura e il futuro della città. Tra i temi che l'hanno visto più impegnato negli ultimi anni c'è quello dell'Expo e quello della riapertura dei Navigli a Milano.
Per Città Bene Comune ha scritto: Contro l’urbanistica? No, serve un’idea di città (7 ottobre 2016).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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