Francesco Ventura  
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L'URBANISTICA FATTA COI PIEDI


Commento al libro di Gianni Biondillo



Francesco Ventura


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Gianni Biondillo è un architetto e brillante narratore. Conosce l’arte di configurare lo spazio e ha la stoffa dell'educatore. La passione per il racconto e il talento nella scrittura gli hanno fatto progressivamente scoprire che la progettualità è più ampia del progetto di un’opera architettonica. L’agire narrativo non resta chiuso nell’atto di progettare l’edificio, non si risolve nell’estatico significato di un’opera, è continua ricerca di sensazioni nello spazio abitato e identificazione di significati dello spazio da abitare. Si capisce allora perché ben tre dei suoi libri hanno nel titolo la parola “metropoli”, o suoi derivati (1), con la quale comunemente si designa lo spazio del nostro tempo debordante la città tradizionale, là dove si giocano i destini dell’abitare. Cosa narra nel suo ultimo libro: Sentieri metropolitani. Narrare il territorio con la psicogeografia (Bollati Boringhieri, 2022)? Il camminare, il pensare, il narrare, appunto. Sì, anche il narrare ed è pure una narrazione di narrazioni: un elogio ed esortazione a camminare nella realtà dello spazio metropolitano, per conoscerlo attivando i sensi, e insieme un peregrinare nei testi di altri autori sollecitando il pensiero critico, l’attitudine alla selezione, affinando la capacità di raccontare l’esperienza. Sono almeno due i tratti del nostro tempo con i quali il libro intrattiene relazioni. Uno è costituito dall’eclissarsi dell’opera d’arte quale scopo primario dove l’artista era un semplice mezzo di produzione e il conseguente sorgere dell’imperioso dominio dell’operare artistico dove centrale è la volontà d’arte dell’artista stesso. Biondillo ne espone la sua interpretazione girovagando in un’ampia varietà letteraria. Alle fonti di Biondillo sul fondamento teoretico dell’artisticità contemporanea potremmo aggiungere per nostro conto questa limpida e rigorosa di Giovanni Gentile: «L’uomo non ha guanciale su cui posare il capo. Eterno insonne, sublime artiere, lavora senza posa, per costruire il mondo, e per costruire nel mondo sé stesso. Il mondo della sua verità, che è pure il mondo del suo essere, è l’opera sua. Non però come έργον, sì come ενέργεια: non opus, ma opera» (2). L’altro aspetto, strettamente legato all’architettura, è il progressivo evaporare delle speranze e delle ambizioni che hanno nutrito il mestiere dell’urbanista ai suoi esordi, alimentate dalle norme di legge che hanno istituito i piani regolatori. Quell’urbanistica normativa che si propone di raggiungere scopi per il bene comune, ma che, nelle stanze comunali, si traduce in una pratica burocratica nelle mani dei politici, amministratori protempore della cosa pubblica, pressati dagli interessi del libero mercato. L’agire urbanistico si materializza in un piano inchiodato da norme e procedure che lo astraggono dalla realtà e lo rendono incapace di accogliere il futuro. «L’urbanistica si fa a piedi, la città si disegna nello spazio reale, non al chiuso di un ufficio» esordisce Gianni Biondillo, contribuendo ad arricchire quegli indirizzi culturali che mirano a uscire dall’angustia dell’urbanistica amministrativa.

I piedi sono il filo conduttore delle narrazioni che si dipanano in una decina di capitoli. L’elogio dei piedi e del camminare è tale da esser posti a fondamento di pensiero e narrazione. I piedi disegnano sentieri nella metropoli e nel paesaggio, o meglio, creano dinamicamente la configurazione di queste due accezioni dello spazio contemporaneo, questa grosso modo è l’idea di fondo. Notevole è l’appendice, già da sola costituisce motivo per leggere il libro. Documenta l’esercizio del camminare nello spazio contemporaneo, mettendo in pratica il metodo della «psicogeografia». E documenta una mirabile attività didattica fuori dai banchi scolastici, dove l’allievo attiva i sensi e tutte le sue facoltà progettuali. Biondillo quasi si scusa col lettore, perché il libro «nasce per mettere […] ordine a tutti gli appunti scritti durante il corso che tengo dal 2013 all’Accademia di Architettura di Mendrisio». Ma io penso che sia proprio questa documentazione il dono più prezioso a chi lo leggerà. I capitoli che la precedono contengono narrazioni che tentano di fondare il metodo e la sua pratica. Argomentare la fondatezza delle affermazioni di senso dello spazio è cosa diversa dal narrare, ma è inevitabile che nell’argomentare pure si narra e così nel narrare pure si argomenta. Il commento che intendo svolgere consisterà nell’esplicitare ciò che si presenta come fondamento nell’accattivante, suggestivo narrare dell’autore, per portare allo scoperto l’argomentazione là dove non sembra stare in piedi – non intendo svicolare dal filo conduttore del libro: i piedi – o dove i piedi incespicano e il cammino risulta incerto, perché su un terreno che sembra malfermo. Vuole essere un contributo critico costruttivo a un cammino non troppo claudicante, un incentivo alla discussione e al confronto tra interpretazioni diverse della stessa materia.

 

I piedi

La messe di testimonianze raccolte a favore del primato antropologico dei piedi e del camminare che Biondillo riversa nel libro è notevole e suggestiva; variegata è la letteratura che ha esplorato con sagacia in numerosi campi del sapere. Essendo una perlustrazione narrata, solo sottotraccia argomentata, si potrebbe comporre un florilegio di aforismi inneggianti ai piedi. Per darne un’idea ne ho scelti solo due o tre quasi a caso, più o meno concatenati: «Abbiamo imparato a camminare e perciò siamo diventati intelligenti, non il contrario». «La nostra prima forma di intelligenza scaturisce dal cammino. Grazie all’intelligenza dei piedi è sorta la nostra coscienza del sé». «È così che siamo usciti dal regno animale, cercando il nostro habitat artificiale, approssimativo, trasformando il mondo grazie al cammino». Ora qui non si tratta di sminuire la rilevanza del camminare su due piedi di noi umani né di ridurne il ruolo nell’evoluzione ma di mettere in discussione che costituisca l’originario agire e che sia ciò che essenzialmente distingue la nostra forma di vita dalle altre. Perché nel libro è dell’agire dell’uomo che si parla ed è evidente che il camminare, mettere un piede dietro l’altro, è una modalità di agire, certamente rilevante e costante, si cammina ancora oggi – e fa anche bene alla salute, così dicono gli esperti – anche se è una modalità d’agire di potenza limitata in relazione alla progressiva crescita della capacità di spostarsi in tutto lo spazio e oltre quello terrestre con fonti di energia diverse da quelle del corpo umano e del corpo di altri animali(3). La domanda ineludibile è perché si cammina, per quale scopo si agisce camminando? Accade spesso che le cose più semplici, elementari, di cui abbiamo necessaria esperienza quotidiana, e proprio per questo considerate banali su cui si pensa non ci sia interesse a riflettere, le occultiamo dandole per scontate. In una certa misura è così anche per i piedi e per il camminare.

C’è un agire più originario del camminare? Nell’incipit di uno dei suoi libri, tra i più rilevanti per lo stesso Biondillo, il primario scopo dell’agire ce lo dice, per astrarsene subito dopo, Francesco Careri, «L’atto di attraversare lo spazio nasce dal bisogno naturale di muoversi per reperire cibo e le informazioni necessarie alla propria sopravvivenza». Ecco, senza «sopravvivenza» non si sta in piedi e non si cammina. Infatti, così continua Careri, solo dopo aver soddisfatto «le esigenze primarie il camminare si è trasformato in forma simbolica che ha permesso all’uomo di abitare il mondo. Modificando i significati dello spazio attraversato, il percorso è stata la prima azione estetica che ha penetrato i territori del caos costruendovi un nuovo ordine sul quale si è sviluppata l’architettura degli oggetti situati»(4). Ancora oggi, s’è detto si cammina, sebbene si possa anche star sdraiati molto a lungo, ma quanto si può durare senza nutrirsi? A meno di non attuare quel gesto protestatario che è lo sciopero della fame, rischiando così una tragica morte, per «sopravvive» bisogna alimentarsi almeno una volta al dì se si riesce a farcelo bastare. Nel mondo sono una minoranza gli umani che possono permettersi di nutrirsi più o meno agevolmente, non saprei se i loro percorsi abbiano forma simbolica e quale valenza estetica. Sono propenso a pensare che il cibo, l’atto del nutrirsi, del consumare l’altro (animali, vegetali, acqua, aria, terra, spazio, energia) abbia ricevuto forme simboliche e rappresentazioni estetiche di gran lunga primarie rispetto all’atto del camminare che è strumentale al sopravvivere (come lo stesso Careri ammette per lasciarlo poi in ombra). Anche sul cibo e le sue rappresentazioni la letteratura è vasta(5).

Cosa cambia? Ne va della comprensione del senso dell’arte dell’uomo e della sua origine che – ha ragione Biondillo – non è granché ricavabile dalla fumosa prosa di Heidegger, sebbene sia filosofo citatissimo anche dagli architetti. Ma neanche dal complesso del pensiero filosofico così come si è strutturato fino ad adesso (lo spazio in cui cresce la cultura dell’Occidente), in quanto è la massima astrazione dalla concreta esperienza uccisoria per sopravvivere. Un’astrazione compiuta ad arte dall’uomo e fusasi con le religioni più recenti (quelle bibliche in particolare) assai lontane dal sacro arcaico che si manteneva in relazione ai sacrifici cruenti quale pasto degli déi. Se l’atto del camminare per procurarsi cibo traccia sentieri, di cosa sarebbero forma simbolica quest’ultimi se non delle condizioni di vita strutturate sulle varie modalità del “cibarsi”, inclusa l’occupazione di spazio che implica assimilarlo e toglierlo ad altre forme di vita? Camminare non è né irenico, né innocente. È poco credibile che, soddisfatti i bisogni «naturali» – come se il soddisfare le esigenze vitali fosse un atto che si compie una volta per tutte –, ci si dedichi poi, astraendoci da quei concreti bisogni, a formalizzare simbolicamente esperienze estetiche, quasi che il crear sentieri fosse un agire ludico fine a sé stesso, alimento del solo spirito. La distinzione tra “naturale” e “artificiale”, che da un paio di millenni s’intende come originaria opposizione, va rivista profondamente alla radice. Il più noto rappresentante del Movimento Moderno, Le Corbusier, è prossimo al vero (e insieme ne è distante perché non lo comprende) quando afferma col suo tono apodittico: «Une ville! C’est la mainmise de l’home sur la nature. C’est une action humaine contre la nature, un organisme humain de protection et de travail. C’est une création»(6). L’ideologo dell’architettura e dell’urbanistica del XX secolo usa una parola molto energica, mainmise, che ha un’area semantica dal forte senso di violenza, come “dominio su di un territorio straniero”, o ancor più “strangolamento”, che implica o allude ad atti uccisori. Ma questo atto violento, come per lo più si è portati a pensare insieme a Le Corbusier, è un agire “contro la natura”? No, se con il termine “natura” s’intende il rapportarsi delle molteplici e varie forme di vita, inclusa la nostra (e se ci si riflettesse liberi da incrostazioni culturali dovremmo convenire che tutto ciò che è vive), allora l’agire uccisorio è “naturale”, ossia è l’originaria relazione tra le diverse forme di vita, che si fonda sulla necessità di “sopravvivere”, vivere sopra gli altri, condizionando, assimilando, consumando l’altro da sé, incluso quel complesso di vita che è lo “spazio”. Spostarsi da luogo a luogo non è una prerogativa che distingue la nostra forma di vita: tutto ciò che è, che vive, si sposta, si muove con tempi e modi diversi determinando un reciproco spostamento di viventi, un’occupazione di luoghi in sostituzione di altri occupanti e così sopravvivere a questi. Le Corbusier chiude l’affermazione dicendo che ciò che noi costruiamo agendo, in questo caso «une ville», è «une création», una “creazione”. Uno dei significati primari in francese è “action de donner l'existence”, per esempio “la création du monde”, “le monde considéré comme l'œuvre d'un créateur”. In italiano è lo stesso: “L’atto di creare, di far nascere dal nulla”, a esempio “l’atto con cui Dio dà origine a qualche cosa distinta da sé, traendola dal nulla”. È in relazione al creare, all’agire creativo, che la parola “natura” acquista il senso dell’assoluta alterità; dunque, l’opposto di quel senso più sopra menzionato, dove la nostra forma di vita sta in relazione necessaria a ogni altra. La causa, il principio, il centro creativo originario delle cose è immateriale, non appartiene alla natura, è assolutamente altro dalla natura così come la esperiamo coi sensi ed altro proprio perché imperituro, eterno, è impossibile che si consumi non avendo altro al di fuori di sé.

A seconda di come è stato argomentato e dedotto, tale principio – rimanendo essenzialmente il medesimo – ha assunto vari nomi. Nella Metafisica greca “Essere” (Parmenide) – la perfetta identità che non conosce alterazione alcuna e giace in sé stessa, perché non ha altro al di fuori di sé –, “Demiurgo” (Platone), “Motore immobile” (Aristotele). Nell’evoluzione delle religioni abramitiche, fusesi con la metafisica, “Dio”. Nel pensiero contemporaneo degli ultimi duecento anni “Spirito”(7), dove tramontano necessariamente metafisica e teologia, esso è pensato immanente, ossia insito nell’uomo, con lo stesso carattere di assolutezza, di eternità e immaterialità. Nell’arte contemporanea tale astrazione, dove non è più dio il principio immateriale, ma l’immateriale spirito umano, viene espressa in tutte quelle forme artistiche, delle quali tratta anche Biondillo, che mettono al centro l’operare e non l’opera, ossia non la materialità propria della natura(8). Le Corbusier respira la stessa aria dove, proseguendo dalla citazione precedente, dice che «la poesia è un atto umano» – e poesia è qui da intendersi nel suo etimo ποίηδις, “produrre ad arte” – e «La poesia della natura non è esattamente altro che un costrutto dello spirito». È evidente che qui la ποίηδις, la produzione, è dal niente e nel niente il prodotto si dilegua. Questa concezione della ποίηδις, oggi dominante nel mondo, risale a Platone: «Ogni causa, che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente all’essere, è produzione [ποίηδις], cosicché sono produzioni anche le azioni che vengono compiute in ogni arte e tutti gli artefici sono produttori»(9). Ma, fino al pensiero del nostro tempo, al di sopra dell’arte dell’uomo vi è quella del divino. La metafisica, nonostante abbia reso esplicita per la prima volta la volontà di produrre dal niente, intende tener fermo il motto dell’antica sapienza che dal niente non si genera niente. Dunque, il niente nella produzione umana è relativo: dio è l’assolutamente altro, non ha niente al di fuori di sé che ne condizioni la libera e arbitraria creatività. Ora, il pensiero contemporaneo ha messo in luce che se la creazione è dal nulla (cosa che per il pensiero metafisico è un’evidenza) e se l’uomo è artefice (anche questo lo afferma la metafisica greca), è impossibile che ci sia al di sopra un creatore, perché significherebbe che tutto è già preesistente in Dio. Nietzsche esprime l’argomento confutatorio così: «se vi fossero degli déi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque, non vi sono déi [...]. Via da Dio e dagli déi mi ha allettato questa volontà; che cosa mai resterebbe da creare, se gli déi – esistessero!»(10). Leopardi lo ha preceduto dicendo «In somma, il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. […]», e conclude «Certo è che distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio»(11).

Come si è giunti a questa assoluta astrazione dalle concrete condizioni di vita, che – secondo l’interpretazione prevalente – ha ricevuto la prima formulazione esplicita nella parola di Parmenide? La brama a essere sempre è evidenziata sia da Aristotele, sia dalla scienza contemporanea che la va riconoscendo a tutte le forme di vita non solo agli animali, come ciò che conduce il vivente ad agire nutrendosi. L’agire nutrendosi implica aprirsi all’altro, sentirlo, vederlo, porselo davanti – nei diversi modi che contraddistinguono le varie forme di viventi – per fagocitarlo, assimilandolo, togliendoli l’alterità, sopra-vivendo così al soccombente. Nella nostra forma di vita questa volontà di sopravvivenza ha un alto grado di potenza che – fino a prova contraria – sembra essere maggiore delle altre forme, un vero proprio conatus all’eternità. Il ché implica la sopravvivenza assoluta, una volontà pura: sopravvivere a tutti, affinché nessuno sopravviva a noi. Una situazione che Canetti qualifica «grottesca», poiché «l’intenzione autentica del vero potente» è volontà di «essere l’unico»(12). La volontà è volontà di escludere l’altro, volontà di avere la potenza di recidere il legame con l’altro da sé. Ed è volontà perché non ha già escluso l’altro col quale è originariamente e immediatamente legata. E tuttavia la volontà non vuole vedere altro da sé, non vuole alcun legame al di fuori di sé stessa, della propria identità. La volontà, dunque, è incapace, di per sé, di vedere l’altro, è cieca al mondo e, di conseguenza, inabile ad agire per escluderlo. In sé e per sé, la volontà è inerte. Il pensiero è l’atto di apertura al mondo: è Il conoscere, il sapere, l’intendere l’altro e stare con esso in relazione. Includendo l’altro, il pensiero è inclusione della volontà di escluderlo. È il pensiero l’originario agire, perché include originariamente la volontà. La vita è, appunto, questo agire originario inclusivo della volontà di escludere l’altro.

Nota sulle espressioni di Biondillo, più sopra citate, quali: «abbiamo imparato a camminare e perciò siamo diventati intelligenti, non il contrario», «grazie all’intelligenza dei piedi è sorta la nostra coscienza del sé» e simili, dove l’atto del camminare sembra la causa dell’intelligenza, e dove l’intelligenza pare essere nei piedi. Queste affermazioni apodittiche non stanno in piedi. È il pensiero che aprendosi al mondo, intendendo l’altro, includendo la volontà di escluderlo, include i piedi e la loro capacità motoria, e agisce tracciando sentieri per consumare cibo, per occupare spazio sottraendolo all’altro per sopravvivere. Il legame del pensiero col volere è originario, non è di natura volitiva, proprio perché il volere, volendo escludere l’altro, non vuol vederlo, e così non può agire per escluderlo. Non è la volontà che si lega al pensare, ma il pensiero è originariamente legato alla volontà. Altra notazione. La «psicogeografia» è tale, ossia è un agire vitale, perché la psiche include e unifica originariamente le sensazioni. Le sensazioni sono specializzate, l’una separata dall’altra, ciascuna per sé presa non sarebbe in grado di conoscere appieno il mondo, di aprirsi all’altro: l’udito non vede, non riconosce i sapori, la vista non ode e non riconosce gli odori, il tatto non ode, non vede e così via. (Mio padre, cieco totale dall’età di dieci anni, ai curiosi che gli chiedevano cosa mai vedesse, rispondeva: “vedo luce quando penso luce e buio quando penso buio”). La psiche – è noto fin dall’antichità – è l’originaria inclusione unificante le sensazioni, che fa acquistare significato al mondo (e narrarlo), dà senso ai sentieri che l’agire percorrendolo per sopravvivere traccia. E, va da sé, non solo la nostra forma di vita è intelligente, l’apertura all’altro è propria di qualsiasi forma di vita (di tutto ciò che è), tutte in modi diversi sono dotate di “pensiero”, altrimenti sarebbero inerti, non sarebbero vita, ma morte: la morte essendo separazione dal proprio altro, mentre il pensiero include l'altro. (Anche il calcestruzzo “pensa” in quanto è aperto all’altro, riconosce il caldo e il freddo, e agisce dilatandosi e contraendosi, così come caldo e freddo sono aperti al calcestruzzo. Ma non i piedi in quanto parte integrante del corpo di tutti gli animali che li hanno. Un piede separato dal corpo è solo carne e ossa aperte al mondo nel modo in cui lo sono (in cui “pensano”) carne e ossa che, per esempio, si relazionano a tutte quelle forme di vita che degradano, metabolizzano carne e ossa e che, a loro volta, stanno in relazione a carne e ossa). Insomma, ha ragione Kant a dire che se non fossimo aperti al mondo non lo potremmo pensare, ma l’affermazione è parziale, non lo potremmo pensare nemmeno se il mondo non fosse aperto a noi.

Abbiamo detto che portando in vista l’originario agire per la sopravvivenza viene in chiaro il senso più profondo dell’atto artistico dell’uomo. Allo stato attuale delle conoscenze non sappiamo se qualcosa di simile è presente nelle altre forme di vita, ma alla nostra appare che la volontà di sopravvivere è avvolta in una angosciosa contraddizione, perché il fagocitare l’altro, isolarsi così dall’alterità, è insieme e necessariamente il privarsi delle condizioni di vita. Siamo cioè consapevoli che l’altro, che vogliamo e dobbiamo consumare, col quale intratteniamo una relazione uccisoria spezzando così la relazione stessa, è essenziale alla sopravvivenza, è condizione della vita. Questo perché la nostra volontà di potenza vuole essere pura, vuole vivere sempre, non nel senso di consegnarsi all’eternità, sarebbe altrimenti una condanna, ma nel senso che mira ad avere in suo potere, nelle sue proprie mani, la vita stessa, ossia che le condizioni non siano date da altro da sé, quindi non siano più condizionanti. Si tratta, va tenuto ben presente, di pura volontà e non di agire che ottiene il voluto portando a compimento il suo volere. Un anelito che si manifesta fino dai primi atti artistici conosciuti, le pitture parietali del paleolitico. Certo, i cacciatori creavano sentieri spostandosi da un luogo all’altro coi piedi per procurarsi il cibo animale, consumandolo e assimilandolo dopo averlo abbattuto, lo escludevano così dall’orizzonte dell’alterità. La consapevolezza dell’essenzialità dell’altro e la volontà di uscire dalla contraddizione angosciosa hanno spinto a quella prima forma di artificio, finora conosciuta, consistente nel mantenere in scena l’animale dipingendolo sulle pareti delle grotte abitate (condizioni abitative date da altro e non ancora prodotte ad arte dalla mano e dall’ingegno dell’uomo, come sarà in seguito). Una pittura di grande potenza, perché immediatamente legata all’esperienza e alla concretezza del sopravvivere, che – così si narra – ha talmente impressionato Picasso da fargli dire che tutta l’arte successiva “è solo decadenza”. Quel che le pitture paleolitiche compiono è il primo passo teso a separare dall’atto uccisorio le condizioni di vita – prodotte ad arte e non date da altro da sé –, nel desiderio di assicurarsi per sempre il consumare per sopravvivere. L’atto artistico è essenzialmente un atto separante, vuol separare ciò che originariamente è indissolubilmente legato. Di qui il progressivo dilatarsi, con crescente potenza, delle varie forme d’arte: le feste arcaiche, i riti sacrificali, i canti e i balli, i miti, le religioni, la filosofia, la scienza, la tecnologia. L’arte contemporanea si sta avvicinando sempre più a mostrare l’impossibilità di mettere in figura l’assolutamente altro da sé. La tecno scienza va progredendo nell’aspirazione di produrre il mondo, anche la materia (biologica e non) rimasta ancora fuori dalla produzione umana, il mondo che vorremo nostro e a nostra misura e volontà. Ciò non potrà che condurre a mostrare e, quindi, rendere consapevoli dell’impossibilità di questa volontà. Una volontà che è violenza perché vuole l’impossibile. Il legame con l’altro, le condizioni di vita, è originario, dunque non scioglibile in senso assoluto (ab-soluto). L’atto di esclusione è insieme e necessariamente inclusione dell’altro, dove l’inclusione non esclude l’esclusione, altrimenti non sarebbe inclusiva. Solo dal punto di vista della volontà pura può apparire la contraddizione angosciante. L’agire per sopravvivere, ossia la vita, è un oltrepassamento della volontà e della violenza che vi è insita. La volontà di potenza è sempre un passato. Si tratta di rifletterci con attenzione e profondità, non è questo il luogo e il tempo per argomentarlo oltre la sua enunciazione.

 

Il lapsus

Un’ultima annotazione. Nel libro c’è un capitolo dedicato ai Paesaggi? La forma del titolo è plurale e interrogativa, perché si presenta come costruzione di una nuova narrazione – peraltro già abbondantemente diffusa in forme diversificate tra gli architetti paesaggisti – di cosa debba intendersi per “paesaggio” nel nostro tempo. Dice Biondillo, «La narrazione corrente concepisce i paesaggi come unici, da tutelare, da «salvare», paesaggi come quadri, pittoreschi, indifferenti al resto del territorio che è waste land spendibile, usabile, deturpabile. Dimenticandoci, invece, che dobbiamo avere un rapporto olistico col paesaggio, cioè percepito con la totalità dei sensi, non solo con la vista. Solo così diviene davvero un paesaggio estetico (dal verbo greco ασθάνομαι, «percepire attraverso i sensi») e appunto olistico (dal greco όλος, «totalità») […]. Dovremmo abituarci all’idea dell’esistenza del podorama, cioè del paesaggio che si forma in noi camminando». Partendo dal consolidato presupposto che la Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze nel 2000, sia un grande passo avanti rispetto alla pur anticipatrice, ma ormai obsoleta, concezione della legislazione italiana, perché «prevede la salvaguardia di tutti i paesaggi, indifferentemente da tutti i canoni estetici e di condizioni di originalità», Biondillo fa notare che la traduzione dall’inglese del testo europeo è incorsa in un lapsus «ancora legato ad un’idea pittoresca di paesaggio», perché l’espressione inglese «an area», ossia «un’area in senso ampio» secondo Biondillo, è sta resa come «una determinata parte di territorio». Osserviamo innanzitutto che, al di là di quali siano state le intenzioni dei redattori delle Convenzione europea, qui il lapsus non è della traduzione, ma di Biondillo. La parola “area” è la stessa, nella fonetica e nel significato primario, sia in latino, sia in inglese, sia in italiano indica una parte perfettamente delimitata di suolo, di superficie, tant’è che è utilizzata in matematica per calcolare la misura, appunto, l’area di una determinata figura. È chiaro che, come per tutte le parole, anche “area” ha un campo semantico articolato e derivato dal significato primario o prevalente. Gli estensori del testo inglese avrebbero dovuto cercare una parola più consona, meno ambigua, se il senso che volavano esprimere era, diciamo così, “olistico” e non di una parte. Leon Battista Alberti, considerato un fine latinista, per esprimere nel De re aedificatoria ciò che vi è di identico, di universale, nell’innumerevole e varia molteplicità degli edifici particolari, dice che il corpo di ogni edificio si compone di sei parti o principi, i primi due sono Regio e Area. La Regio, che va scelta sicura, comoda e piacevole, la definisce così: «circumexposita totius soli amplitudo & facies ubi aedifcandum sit: cuius pars erit area». Si noti che l’Area è una parte della Regio, e questa parte è, secondo Alberti, «certum quodam loci prescrittum spatium: quod quidem muro ad usus utilitatemquae ambiant»; in urbanistica oggi si direbbe l’esatta superficie coperta dall’edificio e la sua precisa destinazione d’uso. Se per paesaggio s’intende non più qualcosa di parziale, un frammento isolato da un qualche ampio e non apriori circoscritto contesto, allora forse si dovrebbe trovare un equivalente nelle nostre lingue europee del latino regio (in senso albertiano, ossia in relazione a quella parte che è l’area).

Ma veniamo al concetto di paesaggio del quale le difficoltà linguistiche segnalano una corposa ambiguità. Infatti, prudentemente e con buon senso, il legislatore italiano, nei testi delle leggi di tutela fino a quella del 1939 compresa, ha evitato di usare la parola “paesaggio”, perché non significa nulla in ordine a norme. Se si vuole che gli atti normativi tutelino qualcosa, questa cosa deve essere ben determinata, anche e soprattutto nella sua configurazione spaziale, e deve essere indicata in un linguaggio legale altrettanto determinato corrispondente ragionevolmente alla cosa stessa. Quando, invece, si evoca l’olismo, allora la logica conseguenza è il lasciarsi alle spalle la tutela normativa, è l’abrogazione di fatto delle norme sul paesaggio dell’attuale Codice di Beni Culturali (il ché forse sarebbe un bene per far chiarezza). Cosa mai sia, o cosa voglia tutelare, la Convenzione Europea del Paesaggio è alquanto nebuloso. La bellezza, percepibile da tutti i sensi, è tale perché è negazione escludente la bruttezza. Ma se la volontà è quella di escludere assolutamente la bruttezza (laddove s’è detto che la negazione è un intreccio necessario tra esclusione e inclusione, dove l’inclusione non annulla l’esclusione), allora la bellezza comunque intesa, divenuta olistica, diffusasi ovunque sotto forma di “paesaggio”, pervadendo ogni angolo del territorio planetario, perde ogni significato e non può nemmeno essere percepita da alcun senso, perché non ha più nulla da negare, non ha altro al di fuori di sé con cui confrontarsi – che poi è l’autentico senso della morte. Bellezza e bruttezza sono termini correlati, originariamente legati, l’uno non può sussistere senza l’altro. Eppure, nel nostro tempo, in vari campi del sapere anche nelle scienze fisiche e biologiche, si evoca l’olismo, il “Tutto”, si mira talvolta esplicitamente a una qualche “teoria del tutto”. Da un lato ci si rende conto, sebbene confusamente, che ogni artificio, ogni agire artistico e tecnico scientifico degli umani è separante, volontà di separare, di sciogliere il legame dal proprio altro. Dall’altro, più o meno inconsapevolmente e quasi sempre non immediatamente, appare che la separazione non può essere assolutamente conclusiva, non ottiene il voluto. Per esempio, nella razionalità scientifica contemporanea è fondamentale il principio dell’isolazionismo. Isolare una parte è necessario per poter tentare di dominarla teoricamente e operativamente. Questo porta alla consapevolezza che la razionalità scientifica non può che essere ipotetica, controvertibile, smentibile, falsificabile. Ciò che la separazione di una porzione ha lasciato fuori, ossia il proprio altro che non è annullabile, il cui legame non è scioglibile in senso assoluto, prima o poi irromperà smentendo quel sapere così costruito e sollecitando la revisione di ipotesi e procedure, ossia vi è sempre un oltrepassamento. Tuttavia, non emergendo ancora il senso autentico dell’intreccio tra esclusione e inclusione, che è proprio della negazione a fondamento del significare, il punto di vista della pura volontà di potenza tende a prevalere, aspirando alla costruzione del proprio mondo, estendendosi al “tutto”, dove la separazione assoluta dal proprio altro si compirebbe: ciò che non ha altro al di fuori di sé e là giace incondizionato, inalterabile, eternamente identico a sé stesso. Il “Tutto” è il concetto insieme più grandioso e più assurdo che l’uomo abbia mai concepito. Stando alle prevalenti interpretazioni, Parmenide è il primo ad averlo esplicitamente espresso e nominato sostantivando il verbo “Essere”(13). Quando Biondillo usa il termine “paesaggi”, declinando “paesaggio” al plurale, mostra la consapevolezza della molteplicità e della innumerevole varietà, che è sì un passo oltre il paesaggio pittoresco e la sua unicità voluta immutabile dalle norme di legge. Ma è implicito che il senso della parola “paesaggio” sta a connotare qualità desiderabili della configurazione dello spazio abitato di contro a qualità indesiderabili di spazi altri che non possono dirsi o significare “paesaggio”. Se attivare tutti i sensi, camminando, per interpretare, narrare, progettare paesisticamente la vastità illimitata del territorio significa tendere all’olismo, allora il punto di vista della pura volontà di potenza continua a essere prevalente e perciò destinato all’impotenza e alla non-bellezza, all’indesiderabilità. Bella è, invece, quella forma, quella configurazione dello spazio che mostra, che fa apparire e percepire all’intera sensibilità e al pensiero che la include, l’impotenza della volontà di potenza, in cui la violenza della pura volontà è oltrepassata.

Francesco Ventura

 

 

 

 

Note
1) I due precedenti sono Metropoli per principianti, Guanda 2008 e Lessico metropolitano, Guanda 2021.
2)
G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Vol. II, Le Lettere, 1987, Parte Terza, cap. VIII, par. 3.
3) Vedi a esempio Vaclav Smil, Energia e civiltà. Una storia, Hoepli 2021.
4)
Francesco Careri, Wolkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi 2006.
5)
Un esempio a caso appena arrivato via email: Giovanna Ferri, Il cibo nell’Antico e nel Nuovo testamento: riflessi iconografici. Oppure, appena visto in una libreria, più divulgativo ma molto “giusto”, perché inizia dagli animali dipinti nelle caverne, Cibo. Storia illustrata di tutto ciò che mangiamo, Gribaudo 2018. Oppure, in ambito filosofico, Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, Bollati Boringhieri 2017.
6)
Le Corbusier, Urbanisme, Crès 1924, p. V.
7)
Tra i più rigorosi pensatori della filosofia teoretica contemporanea Giovanni Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Mariotti 1916.
8)
Vedi a esempio Ives Klein, Verso l’immateriale nell’arte, Obarrao edizioni 2009 (1959).
9)
Platone Simposio 205 b-c [citazione e traduzione in Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, 1995, p.138].
10)
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Adelphi, 2003, pp. 95-96.
11)
Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (Zibaldone di pensieri, 1341-1342, luglio 1821). L’intera argomentazione di Leopardi è: «In somma, il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. [...]. Un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere in menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. [...] La necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio».
12)
Elias Canetti, La coscienza delle parole, Adelphi 1984, p. 19.
13)
Il noto epistemologo Karl R. Popper dice, nel suo Il Mondo di Parmenide (Piemme, 1998), di aver letto da adolescente per la prima volta i diciannove frammenti pervenutici del poema di Parmenide, Perì physeos (Sulla natura), e di essere stato «letteralmente travolto da questo incontro. Qui scorsi i primi passi di un cammino che portavano fino a Newton». Non c’è da sorprendersi, l’intero corso del pensiero occidentale è una riflessione sulla parola di Parmenide, costellata di poderosi tentativi di risolvere l’aporia che quel dire (venerando e terribile lo qualifica Paltone) ha portato in luce. L’interpretazione epistemologica di Popper è notevolmente inconsueta e di grande interesse. Importante, dice Popper, è la scoperta scientifica di Parmenide «che le fasi lunari sono dovute alle variazioni della modalità con la quale la metà illuminata della Luna viene vista dalla Terra […]. Esse non implicavano alcun reale cambiamento e neppure un movimento della Luna. Semmai erano un’illusione – l’ingannevole risultato di un gioco di luce e di ombra. Pertanto, i nostri sensi ci portano fuori strada. Non dobbiamo fidarci di loro. Ci ingannano: crediamo che la Luna si muova, mentre, in realtà, è ferma ed è la luce che si riflette sul suo corpo scuro e immutabile». Qui emerge un primo principio per l’attività scientifica razionale: le sensazioni, in sé e per sé separate dall’intelletto, sono ingannevoli. «Ma un grande scopritore – continua Popper – tende sempre a generalizzare la propria scoperta. Selene non possiede davvero quei movimenti che ci mostra. Forse è lecito generalizzare questo fatto? E poi arrivò la grande illuminazione intellettuale, la rivelazione: in un lampo Parmenide comprese non solo che la realtà è una nera sfera di materia compatta come la Luna, ma anche che egli poteva mostrarlo! E che in verità il movimento era impossibile. La dimostrazione (più o meno semplificata) era: 1) Solo l’essere è (solo ciò che è, è); 2) Il nulla, il non-essere, non può essere; 3) Il non-essere sarebbe l’assenza dell’essere: sarebbe il vuoto; 4) Il vuoto non può esistere; 5) Il mondo è il pieno: è un blocco; 6) Il movimento è impossibile […]. Secondo Parmenide, come qui viene interpretato, la degenerazione consiste nell’attribuire dei nomi a due cose — luce e notte — anziché ad una sola — la notte, la scura Luna, la scura materia pesante. L’azione proibita era attribuire un nome alla «luce» — una realtà che non esiste. E qui che “essi “ — i mortali, gli intellettuali peccatori — sono “andati fuori strada”. Questo errore li ha indotti a credere a delle cose che non esistono, al vuoto, allo spazio vuoto, e, di conseguenza, al (la possibilità del) movimento. Pertanto, la mia ipotesi distingue la “luce” come nome proibito, dalla “notte” che sarebbe invece permesso: la realtà in sé stessa, senza alcuna luce che gioca su di essa, è scura, come di per sé stessa è scura la Luna». Popper, dunque si discosta dagli studiosi che per lo più «hanno assunto, su un fondamento intuitivo, che fosse la luce ciò che poteva essere “nominato”, perché era qualcosa che esisteva, che era, e che la notte fosse qualcosa di irreale, quello cui non si sarebbe dovuto nominare; al contrario, la mia ipotesi suggerisce esattamente l’opposto. Chi ha ragione?». Ma se si fa una lista degli opposti – dice Popper – questa «conduce, penso senza alcuna ambiguità, al risultato che la luce si colloca nella colonna del non-essere, del vuoto, del non-reale, del cambiamento, del movimento, del calore, della giovinezza, dell’amore, dell’illusione, del desiderio […]; al contrario la notte si colloca nella colonna della oscurità, della pesantezza del corpo […], del freddo, della vecchiaia, della morte, del non-movimento, della materia; dell’unico vero essere: la verità permanente, immutabile, eterna […]. Questa visione fonde la “Via della Verità” e la “Via delle Congetture” in un’unica, intera, ben articolata — ma pessimistica — visione, Parmenide vede la vita in tutto il suo calore e in tutto il suo movimento, in tutta la sua bellezza e in tutta la sua poesia. Ma la gelida verità è la morte». Popper ritiene che «Parmenide fu il primo grande pensatore teoretico, il primo creatore di una teoria deduttiva: uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi. Non solo costruì il primo sistema deduttivo ma anche il più ambizioso il più audace e il più incredibile sistema mai concepito: un sistema la cui validità era intuitivamente perfetta […]. Il passo successivo, reso possibile solo da Parmenide, fu il riconoscimento, da parte di Leucippo e Democrito, che una teoria deduttiva del mondo, una teoria con un potere come quella creata da Parmenide, poteva solo essere ipotetico-deduttiva, In tal modo essi accettarono l’esistenza e moto come una confutazione empirica del sistema ipotetico di Parmenide e da questo conclusero che esistevano entrambi gli stati, il pieno e il vuoto: atomi e Vuoto. In questo modo la più grande teoria fisica mai concepita nacque da una discussione, criticamente ispirata, del pensiero di Parmenide che indusse alla confutazione della sua teoria. Ma la guerra continua ancora, la guerra dell’osservazione e dell’esperimento contro la teoria; la guerra di coloro che credono alla percezione sensoriale contro i pensatori; sia nel mondo della scienza, sia nel mondo della cultura» (citazioni tratte dalle pp. 105-150).

 

 

N.d.C. - Francesco Ventura, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Firenze, ha pubblicato tra gli altri: L'istituzione dell'urbanistica. Gli esordi italiani (Libreria Alfani Ed., 1999); Statuto dei luoghi e pianificazione (Città Studi Edizioni, 2000); Sul fondamento del progettare e l'infondatezza della norma, in P. Bottaro, et al. (a cura di), Lo spazio, il tempo e la norma (Ed. Scientifica, 2008); Una negazione del piano che si nega da sé, in Giuseppe De Luca, Discutendo intorno alla città del liberalismo attivo, Alinea 2008; La verità del falso ("Area, n. 105-2009); Il monumento tra identità e rassicurazione, in G. Amendola (a cura di), Insicuri e contenti (Liguori, 2011); La tutela e il recupero dei centri storici, in L. Gaeta, et al., Governo del territorio e pianificazione spaziale (Città Studi, 2013); La progettazione del passato ed il ricordo del futuro, in A. Iacomoni (a cura di), Questioni sul recupero della città storica (Aracne, 2014).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica: tecnica o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017); Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017); Così non si tutela né il suolo né il paesaggio (1 dicembre 2017); Su "La struttura del paesaggio": inutile le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12 gennaio 2018); Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018); Per una critica dei principi territorialisti (13 settembre 2021); Memoria dei luoghi ed estetica dell’ircocervo (1 aprile 2022).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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24 MARZO 2023

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
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Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi
2022: Pier Luigi Cervellati

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022: online/pubblicazione
2023:

E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)

G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)

P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (2022)

C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)

A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)

B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)

F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)

A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)

P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)

A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)