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Che tipo di regime fu il fascismo?
Dovrebbe essere un quesito di ricerca stabilire se il fascismo sia stato oppure no un regime totalitario, un quesito degno di essere soddisfatto con una risposta di grande utilità anche per capire meglio il funzionamento del regime fascista, per spiegarne il crollo e il superamento, per valutarne le conseguenze (che, secondo non pochi studiosi pesano ancora e non poco sul sistema politico italiano, su una parte di elettorato e su alcuni esponenti politici). Invece, il libro di Emilio Gentile (Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023) è quasi esclusivamente una difesa a spada tratta della sua tesi: il fascismo fu totalitario. Tutti coloro che lo negano sarebbero nel migliore dei casi un esempio “dell’ignoranza di dotti senza ‘dotta ignoranza’” (p. 18). Nel testo l’aggettivo totalitario e il sostantivo totalitarismo sono presenti 139 volte, 88 volte nelle prime 27 pagine. Purtroppo, l’autore non si cura di offrire una definizione di totalitario/totalitarismo in nessuna pagina del suo libro. Peraltro, concede ai lettori alcune acide riflessioni sugli scritti di autori famosi, quali, soprattutto Hannah Arendt, non alla ricerca della definizione e neppure del fenomeno, ma per contrastarne il mancato inserimento del fascismo nell’analisi del totalitarismo. Le sue citazioni degli autori sono molto selettive, escludendo fin dall’inizio coloro che hanno collocato il fascismo italiano in buona compagnia con altri paesi nella categoria dei regimi autoritari. In maniera sicuramente schematica, credo sia lecito chiedere agli studiosi: “c’è stata più affinità fra il fascismo e il bolscevismo oppure fra il fascismo e il franchismo?”
Soltanto nelle pagine conclusive, Gentile cita per esteso le definizioni del fascismo come regime totalitario formulate rispettivamente dal giovane marxista Lelio Basso e dall’oppositore cattolico don Luigi Sturzo. Per il primo, cito per esteso, gli elementi essenziali della realtà (dunque, non del ”regime”) fascista“ non ricomprendevano “un’ideologia e una concezione dello Stato che non fosse un mero riflesso della sua politica concreta, che mirava esclusivamente a conservare il potere conquistato, trasformandolo in un monopolio del governo, dello Stato e della politica, con il sostegno di una propria forza armata di partito, e con l’imposizione dei propri miti come un credo religioso, che divinizzava la nazione, identificandola col fascismo stesso, e considerando tutti gli avversari del fascismo, in quanto tali, nemici della nazione, che dovevano essere combattuti e annientati con qualsiasi mezzo” (p. 172, tutti i corsivi sono miei).
Per Sturzo, sostiene Gentile, “il totalitarismo era intrinseco alla natura del fascismo e ne condizionava tutta l’azione, spingendolo ‘ad assorbire tutte le forze nazionali: l’esercito, al quale ha messo a lato la milizia nazionale, che è milizia di partito; e la economia, organizzata nella forma corporativa di partito, per assoggettarla al paternalismo di Stato” (pp. 187.188) (corsivi miei). Infine, Sturzo sottolineava il centralismo statale del fascismo, nuovo “Leviatano che assorbisce ogni altra forza e che diviene l’espressione di un incombente panteismo politico” (p. 188). Troppo facile sottolineare la non sistematicità delle definizioni proposte da Basso e da Sturzo che, pure, entrambe contengono elementi utili. Semmai, il compito, certo esigente e delicato, di chiarire il concetto, avrebbe dovuto essere svolto a maggio ragione dall’autore di un libro che porta il titolo Totalitarismo 100.
Totalitarismo: le definizioni
Una buona analisi comincia dalla definizione del concetto. Da Giovanni Sartori ho imparato che sono possibili e, al tempo stesso, utili tre modalità definitorie. La prima si fonda sulla etimologia. Lì può anche arrestarsi e sicuramente non deve essere travolta. Totalitario significa tutto, omnicomprensivo. Può riguardare l’accentramento del potere, il controllo di una società, la natura di un regime. La seconda modalità definitoria dipende e discende da come quel concetto è stato concepito, percepito, utilizzato per l’appunto nel corso della storia. Nel caso del totalitarismo la sua storia è relativamente breve: cent’anni asserisce Gentile, correttamente. Infatti, la prima volta che l’aggettivo totalitario fa la sua comparsa nel lessico politico è in un articolo scritto dall’antifascista liberale Giovanni Amendola e pubblicato il 12 maggio 1923 sulle pagine del quotidiano “Il Mondo”. Amendola accusava Mussolini di volere costruire un sistema totalitario inteso dominio assoluto e spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa. Dunque, totalitarismo era un progetto o, nelle parole di Amendola, una promessa, non un sistema ovvero, meglio, un regime realizzato. Facendosi forte di queste parole di colui che diventò un martire del fascismo, Gentile accusa tutti coloro che rifiutano di accettare la definizione di totalitario per il regime fascista di gravemente offendere la memoria di Amendola e di altri antifascisti. Non gli riesce di capire la differenza fra la polemica politica, sacrosanta quella di Amendola, e l’analisi scientifica che, ovviamente, si costruisce e si fonda su altri, differenti criteri. Sceglie anche di dimenticare o ritenere irrilevanti le parole pubblicate il 7 ottobre 1924 dallo stesso Amendola: “il torbido e servile miraggio di un regime ‘totalitario’” era “svanito per sempre”, pure da lui citate (p. 155). La terza modalità definitoria nella visione di Sartori è quella stipulativa. Un certo numero di studiosi più o meno deliberatamente più o meno concertatamente stabiliscono che d’ora in poi un insieme di comportamenti, un fenomeno, un regime dovranno essere identificati con l’aggettivo totalitario. Qualora le loro motivazioni risultino solide, convincenti, in grado di cogliere meglio la specificità di quei comportamenti, fenomeni, regimi e la comunità scientifica ne prende atto accettando l’aggettivo e il sostantivo che sono stati proposti.
Nel caso del totalitarismo possiamo vedere due occorrenze. Da un lato, Mussolini si appropriò immediatamente, in maniera del tutto compiaciuta del termine come perfettamente adatto al regime che il fascismo voleva essere e costruire. Che vi sia riuscito o no è oggetto del contendere storico e politico, e non bastano le moltissime volte in cui Gentile usa, più o meno a sproposito, l’aggettivo totalitario riferendosi a “modo d’agire”, “metodo”, “spirito”, “programma”, “azione pratica”, “volontà”, “organizzazione del sistema di potere e di dominio” fino a “elezioni totalitarie (p, 120, a rendere convincente e insuperabile la affermazione che il fascismo fu totalitario, punto e basta. Dall’altro, il tentativo che l’autore definisce “negazionista” quello, cioè, di sbarazzarsi del tutto di totalitario/totalitarismo perché erroneamente ritenuti concetto/termine da/di Guerra Fredda, è fallito. Il sostantivo totalitarismo non nacque come arma per combattere la guerra fredda. Continua ad avere utilità analitica per descrivere e spiegare i due grandi casi storici dell’Unione Sovietica e del Nazionalsocialismo. Serve altresì a chi voglia comprendere struttura e fisiologia della Repubblica Popolare Cinese (1949), funzionamento e collasso della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), della Corea e del Nord e, molto probabilmente, anche del Vietnam.
A questo punto, per quanto controversa oppure proprio per questo motivo, è opportuno presentare per esteso quali sono le caratteristiche distintive del totalitarismo. Furono delineate da un grande Professore di Government a Harvard Carl J. Friedrich e dal suo giovane allievo Zbigniew Brzezinski e pubblicate nel 1956: Totalitarian Dictatorship and Democracy (Cambridge, Mass., Harvard University Press), poi riviste e sistematizzate dal solo Friedrich nel 1969: The evolving theory and practice of totalitarian regimes (in C. J. Friedrich, M. Curtis, e B. Barber, Totalitarianism in Perspectives: Three Views, New York, Praeger), tutti testi che sembrano ignoti a Gentile, da lui comunque ignorati.
Dunque, è probabile che in un regime totalitario siano presenti, tutti o quasi, gli elementi che seguono:
a) Una ideologia totalizzante
b) Un partito unico
c) Una polizia segreta notevolmente sviluppata
d) il monopolio statale dei mezzi di comunicazione
e) il controllo centralizzato i tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica
f) la subordinazione delle forze armate al potere politico
Di questi elementi un solo uno, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, è menzionata tre/ i quattro volte da Gentile. Certo, possiamo anche sottolineare che, in effetti, il Partito Nazionale Fascista fu un partito unico, ma dobbiamo subito dopo riconoscere che la presenza sul territorio di quel partito non fu mai effettivamente né capillare né pervasiva e che è difficile riconoscergli un ruolo esclusivo e “totale” di guida. Mussolini decideva senza necessariamente convocare gli organismi di partito e fare leva su di loro. Ripetutamente l’autore parla di Stato-Partito e di Partito-Stato senza chiarire le differenze intercorrenti. Essere iscritti al partito, meglio volenti che nolenti, era ovviamente importante per fare carriera, ad esempio nella burocrazia nazionale e nelle burocrazie locali, ma la burocrazia non fu mai totalmente fascistizzata e gli alti burocrati sempre mantennero spazi di indipendenza/indifferenza operativa. Il potere del leader ufficialmente ai limiti dell’assoluto riconosceva che la burocrazia non era completamente assoggettabile. Insomma dei sei elementi (dell’ideologia dirò dopo) che, secondo Friedrich, caratterizzano un regime totalitario, il fascismo ne presentò due/due e mezzo.
Autoritarismo, allora
A questo punto, sembrerebbe più promettente, forse doveroso cercare la risposta alla domanda “che tipo di regime fu il fascismo?” guardando agli elementi caratterizzanti i regimi autoritari. Non è soltanto una mia opinione personale che la miglior caratterizzazione di che cosa è un regime autoritario continui ad essere, a quasi sessant’anni dalla sua prima formulazione, quella pubblicata dal grande studioso spagnolo Juan Linz (1926-2013) con riferimento al franchismo (1939-1975). Più che opportuno citarla per esteso, anche come esempio di accurata configurazione degli elementi costitutivi dei regimi autoritari. Più precisamente questi regimi sono (cito dall’articolo Autoritarismo nella Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 444, tutti i corsivi sono miei).
“sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili”.
Ciascuno degli elementi individuati e poi nel corso dell’articolo analizzati da Linz trovano riscontro non soltanto, ovviamente, nel franchismo, ma anche nel fascismo italiano nonché nel salazarismo portoghese e in non poche esperienze latino-americane raramente assurte per durata e solidità a veri e propri regimi autoritari. Non è questa la sede per un confronto approfondito fra i diversi tipi di regimi autoritari, ma l’esercizio sarebbe più che utile, essenziale. Mi limiterò a ricordare quanto più volte affermato da Giovanni Sartori: “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”. La conoscenza, per quanto approfondita, di un unico regime autoritario non è garanzia di effettiva, assoluta, “totale” comprensione di tutte le caratteristiche di quel regime autoritario. Solo la comparazione consente di acquisire conoscenze approfondite, adeguate, sottoponibili a verifica, “falsificabili” (come voleva Karl Popper) e rimodulabili.
Non mi pare che nessuno studioso abbia mai attribuito il termine totalitario al regime franchista. Eppure, nella sua strutturazione la Spagna di Franco è stata il regime politico più simile all’Italia di Mussolini. Ma come potrebbe un sistema politico nel quale permane un “pluralismo politico [seppure] limitato” essere considerato totalitario? Per ineccepibile definizione, in un regime totalitario non può esistere/sussistere nessun pluralismo. Un partito (partito-Stato?) ha acquisito, mantiene, esercita il monopolio del potere politico. Dunque, invece di pluralismo si ha monolitismo. Quel monolitismo può essere minato e incrinato da tensioni e conflitti endogeni, internamente prodotti, che sono individuati e mirabilmente analizzati da Karl W. Deutsch (Cracks in the Monolith: Possibilities and Patterns of Disintegration in Totalitarian Systems 497-508, sotto forma di crepe in grado di fare crollare un edificio all’apparenza granitico (sic).
Ciò detto, sarebbe sbagliato pensare e sostenere che il fascismo non ebbe ambizioni e aspirazioni totalitarie. Al contrario, nella molto acuta e suggestiva distinzione fra fascismo-movimento e fascismo-regime, il grande storico Renzo De Felice coglie con ragguardevole perspicacia la distanza che è intercorsa fra il fascismo-movimento, che mirava a spazzare via tutto quello che si opponeva alla sua ascesa e al suo (eventuale) esercizio “totalitario” del potere, e il fascismo-regime. Ho sempre pensato che questa acuta distinzione possa essere mostrata molto efficacemente ricorrendo a due immagini: Mussolini in camicia nera, il movimentista; Mussolini in frac e lobbia, la sua leadership normalizzata nel regime.
Insediatosi al vertice, Mussolini prese atto della sua insufficienza “totalitaria” e della necessità di accettare la persistenza del potere culturale e sociale della Chiesa Cattolica (addirittura nelle forme ufficiali del Concordato, fin dal 1929, e dei Patti lateranensi; della impossibile fascistizzazione delle Forze Armate; della passività gommosa della burocrazia, prevalentemente al servizio delle preferenze dei suoi componenti; degli spazi di autonomia operativa rivendicati dagli industriali ascendenti e dai latifondisti decadenti; nonché, da ultimo, ma nient’affatto, come si sarebbe visto, minimo, della sopravvivenza della monarchia. In quale altro regime totalitario sarebbe concepibile la presenza di una Casa Reale: i Romanov nella Unione Sovietica? Con qualche forzatura analitica aggiungerei i Pahlavi nella teocrazia iraniana?
Crollo e transizione
Le storie del fascismo si fermano spesso al defenestramento di Mussolini ad opera del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 e al dimissionamento dello sconfitto Duce deciso dal Re il cui potere, dunque, non era stato “total[itaria]mente” azzerato dal fascismo. Quando un regime totalitario crolla, Nazismo e Comunismi (DDR, URSS e altri) non c’è “transizione”. Non esistono istituzioni, associazioni, gruppi solidi e ampi in grado di ricevere, ereditare non è il verbo più appropriato, quel che rimane del potere politico. A chi lo consegnerà il Partito Comunista Cinese? A chi sarà costretto a cederlo Kim Jong-un, il Leader supremo della Corea del Nord? Roberto Rossellini, regista di raffinata cultura, intitolò “Germania Anno Zero”, il suo film sulla Germania post-nazista.
Giustamente. Sconfitto e travolto il nazismo, vero totalitarismo, non era rimasto nulla di organizzato. Si doveva ripartire da zero. Gli studiosi di politica che elaborarono il progetto dell’ampio progetto di ricerca comparato sulle possibilità di transizione dai regimi non-democratici, con un posto di rilievo per l’America latina (Guillermo O’Donnell, Philippe C. Schmitter, Lawrence Whitehead, Transitions from Authoritarian Rule. Prospect for Democracy, Baltimore-London, The Johns Hokins University Press, 1986), inclusero capitoli sull’Italia (The Demise of the First Fascist Regime and Italy’s Transition to Democracy: 1943-1948, pp. 45-70 affidato a chi scrive): sulla Spagna, sul Portogallo, sulla Grecia, sulla Turchia, non sui regimi totalitari nei quali c’è crollo, non varie forme di “successione” e modalità diverse di negoziazione fra protagonisti.
Certo, più che corretto è inevitabile definire transizione anche l’intervallo fra il crollo di un regime totalitario e l’instaurazione del regime successivo. Però, nessuna di quelle transizioni è nelle mani di istituzioni, associazioni e gruppi che i totalitarismi avevano bandito, schiacciato, sterminato. In Italia non era morta la monarchia (in Spagna viene addirittura fatta rivivere). In entrambi i sistemi politici la ricostruzione politico-istituzionale ebbe modo di fondarsi sulla Chiesa, la burocrazia, le Forze armate, gli industriali (in Spagna anche una ampia frazione del Movimento Falangista ebbe un significativo ruolo politico esercitato dal suo capo Adolfo Suarez che divenne Primo ministro). In un certo, molto rilevante, senso, la presenza di attori politici, sociali, economici organizzati nella transizione da un regime non-democratico ad altro regime (non è possibile ipotecarne gli esiti) costituisce la prova provata che quel regime non era totalitario. La dura lezione dei fatti contribuisce a insegnare in che modo e con quali criteri classificare, mirando alla maggior precisione possibile, i regimi non-democratici.
In altra sede, naturalmente, ci si potrebbe anche dedicare alle numerose varianti dei regimi e delle esperienze non democratiche. Fra i primi hanno un ruolo di notevole rilievo i regimi militari di longue durée: Egitto, Myanmar. L’Africa subsahariana offre molti esempi di autoritarismi, per lo più relativamente instabili. La teocrazia iraniana è senz’ombra di dubbio un regime autoritario. I sultanismi, definizione di Linz che si attaglia a esperienze autoritarie personalizzate, come quelle di Ghaddafi in Libia e di Saddam Hussein in Iraq, alle quali si possono aggiungere diversi casi nell’America centrale, non si trasformano in veri e propri regimi per la debolezza del tessuto associativo, ma anche per volontà del sultano che teme la sfida di qualsiasi attore politico e sociale organizzato e vieta qualsiasi attività associativa (ma etnie e confessioni religiose sono incancellabili). In tutti questi casi, le transizioni risultano incerte, difficili, protratte proprio a causa della inadeguatezza delle strutture esistenti tranne, talvolta, di quelle preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale sulle quali è improbabile costruire una democrazia.
Defascistizzare?
Concludo scrivendo poche parole su una tematica carsica: la mancata defascistizzazione/epurazione che mi pare inesorabilmente collegata alla natura dei regimi autoritari. In prima approssimazione ritengo che sia possibile affermare che, pure non essendo totalmente asservite al regime, la Chiesa, la burocrazia, le Forze Armate, l’Associazione Industriali avevano al loro interno, oltre a a molti iscritti con molteplici motivazioni e “intensità” al Partito Nazionale Fascista, numerosi, ancorché non maggioritari, estimatori del fascismo. Il fenomeno è simile in Spagna, anche se colà ci furono significativi cambi generazionali in particolare nel clero della potente Chiesa cattolica post-Concilio Vaticano II e, in misura minore, nelle Forze Armate e nella burocrazia statale. Ipotizzo, ma forse già fin d’ora ne sappiamo abbastanza, che per una varietà di ragioni nessuna delle associazioni esistenti volesse procedere ad una sua auto-epurazione. A meno che si fossero macchiati di comportamenti particolarmente riprovevoli, era complicato, talvolta anche emozionalmente, liquidare, espellere, costringere ad andarsene, colleghi di lavoro, compagni d’armi, collaboratori di lungo corso. Inoltre, una epurazione su larga scala nella fase in cui iniziava la competizione politica secondo regole democratiche per le quali i numeri contano, avrebbe danneggiato l’intera associazione, i suoi componenti, i suoi obiettivi. Un’epurazione di quel genere, rivelando l’ampiezza e la profondità del coinvolgimento dell’associazione nel regime avrebbe avuto effetti molto negativi sul prestigio di ciascuna associazione. Il resto lo fecero tutti coloro che minimizzarono opportunisticamente la quantità e la qualità del sostegno dato da loro (e dai loro parenti, amici, colleghi) al regime. Per lo più la fecero franca. Il conto dell’autoritarismo fascista e del suo pluralismo limitato non competitivo non l’abbiamo ancora pagato del tutto
Insomma, da qualsiasi punto di vista, purché non sia provinciale e parrocchiale, lo si giri: definitorio, classificatorio, concettuale, storico, comparato, “totalitarismo” non risulta il termine appropriato per definire il fascismo italiano. Al contrario, con buona pace dei suoi utilizzatori/trici, talvolta rigidi e ostinati, come Emilio Gentile e alcune sue allieve, talaltra pigri e copioni, il termine è spesso fuorviante e mai in grado di rendere conto di quello che il fascismo italiano riuscì effettivamente ad essere, del suo funzionamento, della sua caduta, dei suoi lasciti. Non basterà “tornare alla storia” per muovere gli indispensabili passi avanti nella direzione giusta. Bisognerà fare ricorso, come alcuni pochi storici sanno e già hanno fatto, agli abbondanti contributi in materia disponibili oramai da molti decenni (ad alcuni dei quali, quelli che mi paiono fondamentali, ho qui fatto sintetico riferimento) che identificano regole e meccanismi, spiegano come funzionano i partiti e le istituzioni, esplorano le dinamiche evolutive, proprio come sanno fare i migliori cultori della scienza politica.
Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica, è socio dell’Accademia dei Lincei. Il suo volume più recente è Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022). Ha esplorato alcuni dei temi qui trattati in Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021). Il suo nuovo libro Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve, è in corso di stampa (UTET aprile 2023).
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