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URBANISTICA? CI VUOLE CORAGGIO
Alberto Clementi a Città Bene Comune
Renzo Riboldazzi
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Terzo appuntamento di Città Bene Comune 2023: dopo Pier Carlo Palermo e Cristina Bianchetti, mercoledì 17 maggio alle 18.00, sarà la volta di Alberto Clementi con cui discuteremo del suo Alla conquista della modernità. L’urbanistica nella storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (Carocci, 2020). Questo sempre con l’obiettivo di promuovere una cultura urbanistica diffusa attraverso il dibattito pubblico e la riflessione collettiva sui temi della città, del territorio, dell’ambiente, del paesaggio e delle relative culture interpretative e progettuali.
L’iniziativa – ideata e curata da Renzo Riboldazzi e prodotta dalla Casa della Cultura in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano – è alla sua decima edizione e si svolge con il patrocinio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), della Società Italiana degli Urbanisti (SIU), della Società dei Territorialisti e delle Territorialiste (SdT), dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe) e di Accademia Urbana (AU).
Interverranno e animeranno la discussione: Patrizia Gabellini, già professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano e assessore all’Urbanistica Città storica e Ambiente del Comune di Bologna dal 2011 al 2016; Francesco Domenico Moccia, già professore ordinario di Urbanistica all’Università degli Studi di Napoli Federico II e segretario generale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica; Maria Chiara Tosi, professore ordinario di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia e, presso lo stesso ateneo, membro collegio dei docenti del dottorato in Urbanistica.
[la Redazione]
Le ragioni di un confronto
Ci sono molti modi per raccontare l’urbanistica. Per provare a comprenderne il senso nel passato e, qualora ancora ne avesse uno, ritrovarlo per il presente.
Lo si può fare – e spesso lo si è fatto – indagandone le teorie. Per esempio, quelle maturate nel Novecento dotate di una forte carica ideale che tutt’oggi, frequentemente, permeano il nostro modo di guardare lo spazio urbano e territoriale. Questo, dobbiamo riconoscerlo, dando talvolta prova di una certa insensibilità per le nuove condizioni ambientali e sociali e di una qualche resistenza ad aprirsi a ciò che verrà.
Lo si può fare – e spesso lo si è fatto – riflettendo sul pensiero e l’opera dei suoi maestri. Per esempio, quelli che più si sono spesi nel secolo scorso per creare una città giusta e funzionale. Per dotare la disciplina di strumenti progettuali e normativi adeguati ad affrontare le enormi sfide che aveva di fronte. Per dare alla società una qualche forma di razionalità nella gestione del proprio presente e del proprio futuro.
Lo si può fare – e talvolta lo si è fatto – rileggendo i piani. Quelli prodotti nel secondo dopoguerra, per esempio, che, pur nella loro strutturale semplicità e perfino in quelle che oggi possono apparire ingenuità, dicono ancora molto della nostra – nostra come urbanisti ma, più in generale, come società – idea di futuro. E della nostra capacità e volontà di prefigurarlo nell’interesse di tutti.
Lo si può fare – e talvolta lo si è fatto – riflettendo sugli esiti concreti, quelli con cui abbiamo quotidianamente a che fare, di una lunga stagione di fiducia nelle possibilità del progetto urbano e territoriale di farsi interprete di una visione politica del mondo. E di una altrettanto lunga stagione di applicazione meramente burocratica della pianificazione in cui, forse, ha prevalso una sorta di rassegnazione della società civile ad accettarne i vincoli senza comprenderne pienamente il senso e condividerne gli obiettivi di fondo.
Infine, lo si può fare – e talvolta lo si è fatto ma, a giudicare dalle attuali condizioni probabilmente non a sufficienza – a partire dai temi e dalle questioni che la nostra società si trova oggi ad affrontare, per la verità non così dissimili da quelle a cui si è provato a dare una risposta nel Novecento. Pensiamo a:
- quella dell’abitare civile: in primis, la questione della casa ma anche quella della qualità dello spazio pubblico;
- quella ambientale, imprescindibile oramai per qualunque disciplina abbia responsabilmente a cuore la vita delle persone e di tutte le specie animali e vegetali;
- quella funzionale, eterna chimera che – dopo anni di pensiero sugli assetti urbani e territoriali e nonostante le enormi quantità di dati e capacità di calcolo che abbiamo a disposizione – ancor oggi risulta così pesantemente in grado di condizionare negativamente le nostre esistenze e tutto ciò che sul territorio avviene con non secondari impatti sulla qualità della vita di ciascuno di noi, sui costi di rifornimento delle merci e di produzione e distribuzione dei prodotti, e, non ultimo, sull’ambiente.
Oppure – come ha fatto Alberto Clementi nel suo Alla conquista della modernità. L’urbanistica nella storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (Carocci, 2020) – lo si può fare rileggendo la storia politica, economica e sociale del nostro paese degli ultimi settant’anni e inquadrando le trasformazioni di città, territori e paesaggi – comprese le teorie ad esse sottese, il ruolo di alcune figure cruciali del pensiero urbanistico (e non solo quello), gli strumenti normativi e progettuali messi in campo, gli esiti concreti di questa azione di lungo, non lunghissimo, periodo – in una riflessione di più ampio respiro che mette particolare enfasi sul contesto (politico, economico e sociale, appunto) in cui queste sono avvenute. Una narrazione generosa e articolata, quella di Clementi, che – rispetto ad altri approcci – sembra perfino rovesciare la prospettiva con cui più comunemente riflettiamo su una disciplina la cui identità è, ahimè, in parte evaporata nel tempo e il cui senso oggi sembra meno limpido tanto per gli urbanisti quanto per la società civile.
L’autore, a differenza di molta letteratura, resiste infatti alla tentazione di narrare l’urbanistica esclusivamente a partire dalle sue vicende e dai suoi caratteri interni e accetta di buon grado, nel nome di un obiettivo di più ampio respiro, il rischio di lasciarla in secondo piano per far emergere più chiaramente la complessità della realtà in cui questa è maturata e ha operato. Non coglie cioè la mela offerta da quanti hanno «postulato la necessità di separare e rendere autonoma “la storia dell’urbanistica con i suoi tempi e il tempo delle altre storie, di quella economica, sociale, istituzionale, delle forme politiche e decisionali, delle idee e delle pratiche discorsive”» (p. 11). Al contrario – afferma nell’introduzione del suo lavoro – «l’ipotesi di fondo è che le diverse storie, nelle loro relazioni reciproche ed effetti cumulativi, producano conseguenze significative riguardo alla maniera d’intendere e praticare l’urbanistica, oltre che nei modi di percepirla socialmente e istituzionalmente» (p. 10). Questo nella convinzione da un lato che l’urbanistica sia una disciplina che «respira sostanzialmente con il proprio tempo» (p. 13), dall’altro della necessità di comprenderne lo iato con la società contemporanea. Perché «è un fatto – chiosa – che l’urbanistica attuale non riesca più a svolgere il ruolo di mediatore socialmente condiviso tra le pressioni del mercato, il rispetto dei diritti della cittadinanza e le necessità di tutela degli equilibri insediativi, ambientali e paesaggistici» (p. 13).
Clementi muove dal secondo dopoguerra, una «fase effervescente [che] ha esaurito ben presto la sua spinta propulsiva» (p. 15). Attraversa il periodo di una fiducia generalizzata nella disciplina, quello in cui «l’urbanistica appariva in piena sintonia con il modello di sviluppo adottato» (p. 32). Approda a quello della disillusione in cui «la società si è […] trovata improvvisamente a fare i conti con il crollo delle attese per il futuro e il fallimento delle grandi narrazioni della modernità» (p. 16). Dopo l’idea di una società di eguali che aveva permeato diffusamente le battaglie politiche, sociali e l’urbanistica stessa del secondo dopoguerra e dei decenni immediatamente successivi, infatti, «ha preso piede – secondo Clementi – un individualismo libertario assai poco sensibile ai doveri e alle responsabilità del proprio agire, il quale – osserva – ha finito per minare legami di coesione di lunga durata che avevano strutturato a lungo la nostra società» (p. 20, corsivi nel testo).
L’autore conduce una riflessione sul termine ‘modernità’, il cui significato profondo – così come molti altri delle retoriche urbanistiche – sembra comunemente accettato e al tempo stesso estremamente vago. Questo al punto da assumere contemporaneamente accezioni di segno opposto e da far affermare a Clementi che quella perseguita nel nostro paese è stata una “modernità imperfetta” (p. 19). Una modernità che – scrive – «si è materializzata soprattutto nella costruzione di una nuova scena urbana, dominata dalla proliferante diffusione di fabbricati dalle forme semplificate e omologate, generalmente privi di qualità urbane e spesso anche edilizie, realizzati in gran parte in seguito alla frettolosa ricostruzione postbellica per mano di una iniziativa privata protesa a realizzare una sfrenata speculazione immobiliare senza farsi troppo carico degli ingenti costi sociali provocati» (p. 23). Viene dunque spontaneo chiedersi se sono più moderni quegli insediamenti costruiti in sintonia con contesti fisici, ambientali e sociali di pasoliniana memoria che la storia di lungo periodo ci ha lasciato in eredità o lo sono quelli che, nel nome di una vera o presunta modernità, nel Novecento ma soprattutto nella seconda metà del secolo, sono stati imbastiti su registri del tutto diversi dando luogo a contesti dove ancor oggi sembrano catalizzarsi molti dei problemi della città e del territorio contemporanei. Vien da chiedersi a quale idea di modernità faceva riferimento il nostro paese quando ha lasciato che interi ambiti territoriali fossero abbandonati a loro stessi mentre altri venivano ridotti a cumuli di «nuove case pubbliche e private, deprivate del loro indispensabile contesto di relazioni urbane» (p. 39).
Su queste e altre basi ampiamente argomentate, Clementi si interroga sul presente e sul futuro. «Al momento – secondo l’autore – siamo drammaticamente a corto di progetti e proposte credibili, e il furore contro tutto ciò che rinvia al passato non riesce a trovare sbocchi positivi nell’intento di rigenerare un modello di sviluppo ormai usurato e spiazzato dalle forze selettive della globalizzazione» (p. 26). È palese – scrive – «una divaricazione crescente tra l’urbanistica e il sentire comune, con il risultato di delegittimare sostanzialmente il ruolo di questa disciplina ai fini dell’affermazione di una città migliore e più giusta» (p. 47). In altre parole, «le convinzioni ereditate dal passato – sostiene Clementi – sono andate perdendo progressivamente la loro attualità per lasciare il campo a un preoccupante smarrimento generale, al cui interno sono venuti meno non solo i valori di razionalità professati dal moderno, ma anche un qualsiasi altro valore che [possa] offrire un senso condiviso alla gestione della città come bene comune» (p. 66).
Che fare, dunque? Che fare in un momento in cui – sottolinea – «intense speculazioni finanziarie e di accumulazione di rendite urbane, con crescenti processi di “estrazione di valore” [hanno finito] per scalzare quelli orientati più tradizionalmente alla “creazione di valore”» per la collettività? (p. 52). Che cosa fare in un periodo storico in cui una nuova (per certi versi antichissima) questione urbana torna prepotentemente alla ribalta come dimostrano – osserva – «un grave inquinamento ambientale, che rinvia agli enormi problemi indotti dal cambiamento climatico […]; una elevata congestione del traffico e dei flussi della logistica […]; un marcato peggioramento delle condizioni di eguaglianza sociale […]; la tangibile difficoltà di manutenzione di tutto il patrimonio insediativo, infrastrutturale, ambientale e culturale esistente»? (p. 56, corsivi nel testo). Soprattutto, cosa fare dopo che – afferma – inequivocabilmente «la logica di uno Stato onnipotente, regolatore, imprenditore e al tempo stesso protettore che si fa carico di provvedere ai bisogni più acuti della popolazione […] si è rivelata alla fine palesemente impraticabile, tanto per la casa che per i servizi e lo stesso welfare urbano»? (p. 61, corsivi nel testo)
Secondo Clementi, oggi «si avverte più che mai il bisogno di una visione generosa per il futuro» (p. 78) che, tra le altre cose, vada nella direzione di «rilanciare in modo costruttivo il valore dei beni comuni e la tendenziale eguaglianza delle opportunità per la popolazione» (p. 78). Tanto a livello sociale quanto a livello disciplinare, è cruciale – osserva – «rifondare su basi nuove un’idea positiva di futuro, opponendosi alla perdita di senso e di scopo del nostro agire, che non può essere risolta dalla tecnologia» (p. 80). Come urbanisti, ma anche come cittadini che credono nel ruolo dell’urbanistica e nelle sue possibilità di gestire e immaginare il futuro di città e territori nell’interesse comune, dobbiamo – scrive Clementi – lavorare a «un profondo ripensamento critico della nostra cultura» (p. 80, corsivi nel testo). E per farlo ci vuole prima di tutto coraggio. «Il coraggio – chiosa l’autore – di mettersi alla prova, non limitandosi a esorcizzare o ad accompagnare passivamente le dinamiche in atto, ma offrendo in alternativa possibilità concrete di riorganizzazione dello spazio, con la prospettiva di conferire valori di senso, di benessere, di sicurezza personale e di giustizia sociale più in sintonia con la civiltà contemporanea» (p. 81).
Renzo Riboldazzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA 12 MAGGIO 2023 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
ideazione e direzione scientifica (dal 2013): Renzo Riboldazzi
direttore responsabile (dal 2024): Annamaria Abbate
comitato editoriale (dal 2013): Elena Bertani, Oriana Codispoti; (dal 2024): Gilda Berruti, Luca Bottini, Chiara Nifosì, Marco Peverini, Roberta Pitino
comitato scientifico (dal 2022): Giandomenico Amendola, Arnaldo Bagnasco, Alessandro Balducci, Angela Barbanente, Cristina Bianchetti, Donatella Calabi, Giancarlo Consonni, Maria Antonietta Crippa, Giuseppe De Luca, Giuseppe Dematteis, Francesco Indovina, Alfredo Mela, Raffaele Milani, Francesco Domenico Moccia, Giampaolo Nuvolati, Carlo Olmo, Pier Carlo Palermo, Gabriele Pasqui, Rosario Pavia, Laura Ricci, Enzo Scandurra, Silvano Tagliagambe, Michele Talia, Maurizio Tira, Massimo Venturi Ferriolo, Guido Zucconi
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