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Il libro di Enrico Bordogna e Tommaso Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione. Il sisma in Centro Italia del 2016 (LetteraVentidue, 2022), ripropone uno dei temi che ciclicamente riemergono nell’attenzione dei media e della pubblicistica nazionale. E riappaiono in modo drammatico, come se ogni tragedia ci lasciasse sorpresi di fronte a un evento nuovo e imprevedibile e non fosse a tutti noto il carattere endemico della fragilità geologica del nostro territorio. Come se fosse necessario ripartire ogni volta da una tabula rasa. Questo è il centro del problema. Perché anche la distruzione è un’architettura, una decostruzione che non segue regole imposte dagli uomini ma quelle, naturali e terribili, di faglie geologiche e sostrati profondi che inducono modifiche inaspettate nella forma del paesaggio costruito. In quanto involontaria architettura, tuttavia, la catastrofe trasforma, ma non azzera nulla. La forma in qualche modo, se sappiamo leggerla, permane.
Vorrei dunque partire, per questo mio breve ragionamento, da due affermazioni che Giovanni Carbonara fa nel saggio introduttivo al libro. La prima (portando l’esempio del lavoro per la ricostruzione di Arquata del Tronto svolto col metodo ‘caniggiano’ da Michele Zampilli e Giulia Brunori) è che occorre affrontare il problema della ricostruzione da un “punto di vista specificamente progettuale” il quale, solo, può portare a sintesi i diversi contributi specialistici, compresi quelli legati al restauro e alla conservazione. Affermazione che, provenendo da uno dei maggiori esperti di restauro che abbiamo avuto in Italia, è tutt’altro che banale. Carbonara era convinto, infatti, che l’architetto dovesse possedere un metodo generale di progetto basato sulla lettura del costruito interpretato nel suo divenire storico, attraverso la quale affrontare l’oggetto del proprio lavoro. Il quale presenta, va da sé, proprie specificità, comporta proprie procedure e criteri d’intervento, all’interno, tuttavia, di una ratio generale comune. Ne deriva la seconda affermazione, assai rilevante per il tema della ricostruzione, che occorre affrontare l’emergenza “con un apparato teorico già consolidato”. Una scelta che permetterebbe di predisporre per tempo gli strumenti che l’impianto progettuale, anche conoscitivo, prevede: la lettura dell’esistente, la documentazione dei tracciati stradali, l’analisi dei tessuti, il rilievo degli edifici, la ricomposizione del mosaico delle proprietà catastali, in modo che ogni volta non occorra ricominciare dall’inizio. Elementi, tutti, di cui a volte si perdono le tracce dopo la catastrofe, spesso per la cancellazione prodotta dall’affrettato sgombro delle macerie, comportando gravissime lacune nella documentazione. Lo ha rilevato Giorgio Cortellesi, sindaco di Amatrice, in un recente incontro al Politecnico di Milano, ponendo la questione della preoccupante lentezza con cui vengono forniti i progetti di ricostruzione alle amministrazioni.
La vicenda di Amatrice, peraltro, caso di studio al centro del libro di Bordogna e Brighenti, è una chiara testimonianza delle contraddizioni che la condizione attuale degli strumenti di intervento comporta. Valga per tutti l’esempio della “ricostruzione” della cittadella realizzata all’inizio degli anni ‘20 del secolo scorso da Arnaldo Foschini e destinata ad ospitare gli orfani di guerra secondo un programma che Don Giovanni Minozzi aveva pensato a scala nazionale, relazionato a centinaia di altri interventi in tutto il Mezzogiorno. Il nuovo progetto ne eredita, in realtà, solo la dimensione, che non ha ormai più ragione, inserendosi appieno nel mercato dell’architettura, impiegando tutti gli ingredienti pubblicitari utili a dimostrarne l’opportunità. A partire dal titolo “Città del Futuro”, completato dal nome dell’enciclica di Papa Francesco “Laudato si’” e poi, a cascata, tutti gli slogan del caso: ecologia totale, sostenibilità ambientale, perfino continuità architettonica (affermazione davvero difficile da sostenere). Tutto per giustificare un intervento professionale aggiornato e redditizio, che poco ha a che fare con i caratteri e le necessità del luogo. Mi pare che questa sia la prima riflessione che viene in mente dopo la lettura dell’esemplare lavoro di Bordogna e Brighenti.
La seconda è che esiste, a questa deriva empirica del caso per caso, un’alternativa radicale. Credo, infatti, che al polo metodologico diametralmente opposto a quanto si è fatto in tante ricostruzioni improvvisate, si ponga la vicenda di Venzone, indirizzata dagli studi condotti da Gianfranco Caniggia sulla ricomposizione della cittadina distrutta dal sisma del 1976. I criteri adottati sono, appunto, legati ad un metodo progettuale consolidato, sperimentato tanto nell’intervento nei tessuti storici, quanto nella progettazione del nuovo, che nel restauro, in perfetta sintonia con le affermazioni di Carbonara. Un metodo che ha avuto come esito la riproposizione di un tessuto urbano analogo al preesistente, come chiedevano gli abitanti, e per questo considerato vicino alla ricostruzione “dov’era e com’era”.
La scelta di attenersi alle forme più vicine possibili a quelle preesistenti il sisma è dovuta, credo, soprattutto alla rinuncia ad imporre una propria visione individuale del problema, all’adesione alle scelte degli abitanti, le quali venivano prima di ogni decisione personale. Il fatto di aver messo al centro del progetto di ricostruzione decisioni collettive, in una società nella quale lo spazio veniva (e viene) progettato come merce, è forse il dato centrale che spiega il particolare carattere del contributo di Caniggia. Con spirito francescano, egli ha sempre messo in secondo piano le proprie convinzioni (ed anche il proprio grande talento) a favore di una visione organica della vita, in cui l’interesse pubblico precede quello individuale. Le scelte progettuali tengono conto del contesto sociale dell’insediamento inteso soprattutto come comunità di valori e aspirazioni che si oppone (considerando l’intero organismo urbano di Venzone, in senso letterale, come monumento) alla cancellazione di un’eredità viva.
Certo, con i molti equivoci sul ruolo e la responsabilità dell’architetto che la questione può comportare. Ma era il clima, occorre ricordare, del dibattito seguito ad esperimenti come quello del Villaggio Matteotti a Terni e del generoso tentativo di Giancarlo De Carlo di aprire il progetto alla partecipazione dei destinatari. Un tema importante, che comunque ci porterebbe troppo lontano dall’oggetto di queste sintetiche considerazioni. In realtà il metodo, se si leggono attentamente le relazioni tecniche degli studi ‘caniggiani’, avrebbe potuto dar luogo, ritengo, a risultati anche molto diversi, in un’accezione ampia di un criterio di progettazione “circolare”, che parte dalla realtà per astrarne i principi formativi (leggendo il generale nel particolare) per tornare alla realtà proponendo criticamente, tra gli infiniti esiti possibili, quelli ritenuti a maggior “rendimento”.
Gianfranco Caniggia ha eseguito la ricerca storico critica per la ricostruzione del centro di Venzone in due fasi. La prima si è conclusa nel gennaio del 1979, la seconda nel novembre dello stesso anno. L’indagine, basata anche sulla catalogazione operata dalla Sovrintendenza dei Monumenti negli anni appena precedenti la catastrofe, ha avuto il fine di fornire un indirizzo basato sulle normative di restauro ma tenendo conto della processualità storico formativa dell’edificato distrutto dal sisma, sia per quanto riguarda i monumenti sia per i tessuti. Quello eseguito non è solo uno studio della realtà come essa si presenta, una descrizione. É un’interpretazione critica che contiene orientamenti e scelte. Secondo una nozione che egli ha chiarito più volte, è una coincidenza, il coesistere di lettura e progetto. Il tessuto viario e la situazione fondiaria preesistente al sisma sono così considerati il “reperto globale”, quello più antico e prezioso che spiega l’origine e il succedersi delle fasi di trasformazione legate allo scorrere di generazioni di abitanti, al loro modo di formare, dare forma, allo spazio che abitano. Fino all’assetto ultimo del costruito prima delle distruzioni. Credo che Caniggia ci volesse dire, con questi studi, che il reperto globale di cui parla permane anche dopo il sisma, che le rovine non sono solo “ruere” ma il sostrato, logico, economico, etico, estetico, sul quale ricomporre lo spazio abitato.
Non c’è modo di ribellarsi alla tragedia. Essa è ineluttabile. Ma c’è un modo di accettarla con dignità, con l’orgoglio del contadino che vede distrutto il suo raccolto e non impreca contro il destino, ma si rimbocca le maniche. Questo rimboccarsi le maniche, per Venzone, è stata una scelta assai complessa. Ha comportato la ricostruzione di un’identità, trovare la forma per cui la memoria non fosse riassemblata come in un simulacro artificiale e vagamente funereo, ma trasmettesse ricordi e valori condivisi attraverso l’atto positivo di costruire un progetto di futuro. Lo stesso insediamento storico è il prodotto di stratificazioni che vanno riconosciute all’interno dei caratteri generali di un’intera area culturale. Ogni fenomeno architettonico diviene, così, individuazione, traduzione di valori generali e comuni in “individui edilizi”, unici, individuali appunto, irripetibili. Questo è il lavoro che fa Caniggia a Venzone: partire dalla realtà costruita, certa o ragionevolmente ipotizzata, per estrarne le potenzialità, il generale che, da un numero limitato di casi di studio, dà origine alla molteplicità dei casi possibili. Questo modo condiviso e antindividualista di vedere il mondo costruito è l’esatto contrario della deriva consumistica che rende insopportabile tanta architettura contemporanea.
Il ruolo di Caniggia non è stato però quello dell’“amanuense fedele” , come egli pure si definiva. Ė stato, al contrario, quello dello scienziato che cerca di indagare la forma delle cose al di là di come esse si mostrano, la struttura profonda che soggiace, al di sotto dei cambiamenti delle tecniche e delle funzioni, come un patrimonio di esperienze generativo. Ma la conoscenza scientifica credo fosse, per quanto conoscevo Gianfranco, solo uno dei centri intorno ai quali ruotavano i suoi sforzi di dare ordine alla materia magmatica che indagava. L’altro centro era la sintesi poetica, mi si passi il termine, che esplora quelle strutture non con lo spirito classificatore dell’entomologo, ma con l’emozione che contribuisce a spiegare e orientare le scelte. Era, credo, lo sforzo interpretativo appassionato del poeta epico di far emergere nel particolare la presenza di una ragione universale che tutto lega e unifica. Venzone non era così un caso isolato di studio, ma il manifestarsi attraverso l’architettura, della vita che continua a scorrere dopo la tragedia e che occorre ricomporre avendo ben in mente il contesto e le sue complessità, le fasi non lineari in cui essa si è svolta e continuerà a svolgersi, anche tra rotture e crisi.
Chi ha condiviso questo tipo di ricerche, infatti, sa che proprio nel tentativo di ordinare le cose, di trovare regole del divenire nella forma ereditata dai tessuti, si scopre l’irriducibile diversità del mondo costruito, il molteplice che l’uomo ha cercato di ricondurre a unità, spesso fallendo. Eppure, questa struggente aspirazione all’unità è il sale che ha alimentato per secoli lo sforzo dell’uomo di vivere in comune, che ha trasformato le semplici case in una organica società di edifici, nella bellezza ordinata degli insediamenti, in Friuli come in molte altre parti d’Italia. Per questo, proprio sul piano del metodo, lo studio su Venzone presenta, per noi, qualche difficoltà interpretativa. Sebbene Caniggia abbia adattato al contesto sociale il proprio metodo di lavoro, esso comunque rimane, come scrive nella relazione allo schema di progetto campione per la contrada di via Alberto del Colle, quello del trasferimento della “processualità storica” in “procedimento progettuale” (F. Sartogo, G. Caniggia, Relazione alla ricerca storico critica per la ricostruzione del centro storico di Venzone, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, dicembre 1979). Il suo lavoro, quindi, prende l’avvio dal rilevamento e ricostruzione della situazione precedente al sisma, che non è operazione neutrale, ma già contiene una lettura orientata, per passare poi all’esame dei dati e cioè al rilevamento storico con datazione delle strutture e annotazione dei reperti, per arrivare alla “ricomposizione critica” che tiene conto della lettura. Il progetto, dunque, non è un atto creativo individuale ma non è nemmeno una ricostruzione à l’identique. Caniggia vuole ricostruire, nel molteplice delle tracce rimaste, l’unità formativa dei tipi edilizi, basati sul tipo-sostrato della domus elementare, codificati all’interno di un processo collettivo e spontaneo, diffusi in tutta l’area padana e riconosciuti anche attraverso la comparazione con gli aggregati di Buia, Osoppo, Gemona.
Egli ne segue meticolosamente il percorso di trasformazione attraverso le fasi di impianto e tabernizzazione riconoscendo come questi caratteri comuni abbiano dato luogo a due diverse variazioni, la corte schiera venetica (più antica, diffusa soprattutto nel Veneto e nel Friuli) e la corte schiera padana (seriore, diffusa nella Padania occidentale e frequente negli intasamenti urbani, diffusa in tessuti a prevalenza di case a corte). Nella relazione, Caniggia indica le componenti edilizie conseguenti all’edilizia consolidata ante-sisma, quelle conseguenti all’edilizia consolidata trasformata ante-sisma e, si noti, anche le componenti edilizie non conseguenti a tale edilizia. La sua è una lettura che permette l’innovazione, proporzionata e congruente, all’interno di rapporti organici tra le parti di tessuti ed edifici (rapporti nuovi ma comunque “necessari” anche se mai tradotti, nel passato, in costruzione) i quali producono esiti non imitativi: non prevaricano il dato storico, ma sono liberi dai condizionamenti del mercato e dalla gabbia delle funzioni. Una lettura, si direbbe, ricostruttiva.
Per concludere: non tutto quello che abbiamo ereditato ha valore positivo in quanto storico. La nostra memoria è selettiva e anche il lascito è, in qualche modo, progetto attivo. Caniggia non pensa a un’età dell’oro della forma dei tessuti distrutti, a tipi originari contaminati dalle trasformazioni. Le vicende che si sono succedute nella densificazione del tessuto urbano di Venzone, inedita nell’area, ha comportato fasi di incrementi disorganici, mutazioni nella gerarchia e distribuzioni dei vani, a volte incongruenti con l’organismo urbano. Dati con cui confrontarsi, che sono parte integrante della difesa dell’identità, se si tiene conto che l’organismo urbano, come ogni organismo, ha bisogno di trasformarsi per sopravvivere. La sua è un’accezione molto specifica dei termini, opposti e complementari, di “ricostruzione” e “tutela”: una conservazione progettuale derivata dalla ricomposizione critica. Un punto di vista fertile, coltivato da una nicchia di studiosi che ha prodotto, ma la mia è una posizione di parte, esiti molto importanti e innovativi, come nel lavoro di Riccardo Dalla Negra, che ha collaborato alla ricerca caniggiana.
Anche se i risultati sembrano confermare una visione conservatrice della ricostruzione, il metodo adottato da Caniggia è fondamentalmente generativo, propizia l’innovazione congruente. Come Noam Chomsky sperimentava nella linguistica, (disciplina, peraltro, alla quale egli faceva di continuo riferimento), dallo studio di un numero finito di elementi è possibile astrarre le regole capaci di generare infiniti esiti tra i quali il progettista ha la responsabilità di operare le scelte. Quello di Venzone è quindi, a mio avviso, il manifesto difficile di un modo diverso di affrontare il problema della ricostruzione, che va considerato al di là dei risultati e aperto a molte interpretazioni. E forse il metodo che propone andrebbe valutato come strumento di prevenzione, per quanto possibile, contro l’improvvisazione e le soluzioni estemporanee, disastri che spesso si aggiungono a quelli dei terremoti.
Giuseppe Strappa
N.d.C. – Giuseppe Strappa, già professore ordinario di Composizione architettonica e urbana presso la “Sapienza” Università di Roma, è docente di Alta Qualificazione in Morfologia urbana presso l’Università Roma Tre.
Dai primi anni Settanta, svolge un’intensa attività didattica e di ricerca, istituzionale e progettuale. Ha infatti insegnato, oltre che alla “Sapienza”, al Politecnico di Bari, ha progettato architetture in Italia e all’estero, ha preso parte o ha organizzato convegni, conferenze, mostre di architetture internazionali. Suoi articoli sono comparsi sui principali quotidiani e periodici specializzati italiani.
Tra i suoi libri: a cura di, Tradizione e innovazione nell'architettura di Roma capitale. 1870-1930 (Kappa, 1989) con saggio introduttivo di Gianfranco Caniggia; Unità dell'organismo architettonico. Note sulla formazione e trasformazione dei caratteri degli edifici (Dedalo, 1995); con Gianni Mercurio, Architettura moderna a Roma e nel Lazio, 1920 – 1945. Atlante (Edilstampa, 1996); con Giorgio Di Giorgio, Palazzi storici delle poste italiane (F. M. Ricci, 1996); con Anna Bruna Menghini, a cura di, Architettura moderna mediterranea, atti del convegno internazionale, Bari, 10 aprile 2002 (M. Adda, 2003); con Matteo Ieva e Maria Antonietta Dimatteo, La città come organismo. Lettura di Trani alle diverse scale (M. Adda, 2003); con Claudio D'Amato Guerrieri, a cura di, Gianfranco Caniggia. Dalla lettura di Como all'interpretazione tipologica della città, atti del Convegno internazionale, Cernobbio, 5 luglio 2002 (M. Adda, 2003); con Attilio Petruccioli, Michele Stella, a cura di, The planned city? ISUF international conference, proceedings of the International conference, Trani, 3-6 July 2003 (Uniongrafica Corcelli, 2003); a cura di, Edilizia per il culto. Chiese, moschee, sinagoghe, strutture cimiteriali (Utet, 2005); a cura di, Studi sulla periferia est di Roma (F. Angeli, 2012); L'architettura come processo. Il mondo plastico murario in divenire (F. Angeli, 2014); con Paolo Carlotti e Alessandro Camiz, Morfologia urbana e tessuti storici. Il progetto contemporaneo dei centri minori del Lazio (Gangemi, 2016); a cura di, Observations on urban growth (F. Angeli, 2018). In corso di pubblicazione per LetteraVentidue: Nicola Scardigno, Forma in divenire, una lunga intervista sul suo lavoro di architetto.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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