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In base all’altezza delle piante cresciute sopra le rovine, si poteva dedurre la data del bombardamento. Era un problema botanico. Questo mucchio di macerie era nudo e spoglio, pietre grezze, pezzi di muri distrutti di recente…neanche l’ombra di un filo d’erba, mentre altrove già venivano su alberi, graziosi alberelli, nelle camere da letto e nelle cucine. A Colonia infatti, verso la fine della guerra, la distesa di macerie aveva già conosciuto una parziale metamorfosi proprio grazie al verde che vi aveva attecchito rigoglioso e, simili a tranquilli sentieri di campagna incassati tra due sponde, le strade attraversano di nuovo il paesaggio. A differenza di quanto accade con le catastrofi odierne, che si diffondono lentamente e di soppiatto, le facoltà rigenerative della natura non sembravano pregiudicate dalle “tempeste di fuoco”. Anzi ad Amburgo, nell’autunno del 1943, pochi mesi dopo il grande incendio, parecchi alberi conobbero una seconda fioritura, in particolare i castagni e i cespugli di lillà. Quanto ci sarebbe mai voluto … perché nell’intero paese le montagne di rovine si ricoprissero di boschi? A ridestarsi, invece, e con singolare prontezza, fu l’altro fenomeno naturale: la vita sociale.
W.G. Sebald, 1997
L'uomo comune davanti a un 'opera edilizia non finita è solito pensare: “Sono finiti i soldi”. Una considerazione più che legittima rispetto alla produzione di opere di architettura che sono enormemente più costose delle arti sorelle della pittura e della scultura. Tra Occidente e Oriente nella concorrenza tra sovrani, papi e sultani si ricorreva alle grandi opere di architettura perché costavano meno di una guerra ed erano eterne... perché mai finite. Fabbriche eterne sono anche la Reverenda Fabbrica di San Pietro e la Fabbrica del Duomo di Milano di per sé, e nei secoli, mai finite. Perfino le piramidi, nella loro compiutezza astrale e geometrica, non sono eterne: molte furono lasciate andare perché cedevano sotto il peso delle loro pietre. Nel caso specifico delle piramidi classiche, l’ultima pietra che ne sanciva il completamento era il pyramìdion: una piccola piramide messa sulla cima, quasi a sigillo dell’intera fabbrica dedicata al faraone. Questa, però, veniva spesso scardinata da un fulmine o altro evento naturale ed era la prima a cadere, per ritornare alla sabbia. Dove infatti si ritrovano.
In questi casi l’espressione non finito identifica qualcosa che non si è annullato ma, per una ragione o per l’altra, è stato abbandonato – o in forma fin troppo umana: lasciato a se stesso. Ora, invece, nel suo ultimo libro – Design del non-finito. L’interior design della rigenerazione degli “avanzi” (Postmedia books, 2023), con saggi di Marianna Guernieri, Cesare Stevan, Martí Guixé, Davide Fassi – Luciano Crespi individua un sentiero erboso ancora percorribile in cui il non finito classico si distingue dal suo non-finito dove il trait-d’union diventa con esattezza una categoria nuova - in una parola sola: nonfinito.
Per l’esatto contrario possono venir in mente le dichiarazioni perentorie e piuttosto comiche di un mister calcistico che dopo una sfuriata, in un tedesco maccheronico, verso uno dei suoi giocatori conclude: Ich habe Fertig (“sono finito”) volendo dire Ich bin fertig (“ho finito”). Questa scena fa ancora ridere più di qualsiasi scoop giornalistico. Ma il tema vero resta: Finire, non finire, essere finito. Questo è il problema.
Sempre tornando alla cronaca calcistica, la solita litania finale dei cronisti che ripete: “non è finita…non è finita… non è finita” spinge la narrazione verso il recupero e il tempo supplementare… “Recupero” e “tempo supplementare” ci mettono sulla strada del “non-finito crespiano”: oggetto e soggetto di una necessità umana originaria come l’abitare che diventa un ri-abitare supplementare. Ancora, per trovare delle metafore calzanti di questo non-finito, si può cercare a vuoto fra gli Avanzi del Tempo Perduto, anche soltanto per dare un giro alla clessidra dell’orologio a polvere. Ma la nuova energia che scaturisce da questo nuovo non-finito si rapporta alla legge molto italiana di Archimede sul galleggiamento: “un corpo immerso nell’acqua riceve una spinta dal basso verso l’alto ecc. ecc.” Il galleggiamento non è necessariamente eterno perché questa legge non salva dall’affondamento della nave che, nonostante tutto, può attendere lì sul fondo per un’infinità di anni. Per riemergere? Anche.
Quindi, credo, che dalla formula del nonfinito venga fuori sia il concetto di complementarietà (completamento) sia quello di sommersione e riemersione - cioè integrazione/reintegrazione. Ora nell’analisi di tali figure il termine ‘avanzi’, come proposto da Cesare Stevan nella introduzione/postfazione del libro di Crespi, si amplia e si predispone a una larga interpretazione. Vengono subito alla mente gli “ammirevoli avanzi” del paesaggio di Piranesi e delle sue rovine in quanto “progetto del tempo”, che è tanto reale da apparire irreale: un gran cumolo di pezzi che non restano lì fermi ma che vengono portati altrove, nella realtà e nella fantasia, per diventare pezzi di interi edifici.
In questo senso rovine si contrappone a macerie nel modo in cui le “vive” l’autore W.G. Sebald, nel pezzo che abbiamo messo in esergo di questo testo. Mentre l’aspetto di cachivache (ne parla intensamente Borges nella Storia naturale della infamia) è allo stesso tempo utensile e rottame o, peggio, “individuo inutile”. Sembra trattarsi di una nuova funzione che nasce dall’obsolescenza in quanto ri-forma di una materia informe, anche umana. Infatti, la parola avanzi viene da “ab ante” che ha, come nel verbo avanzare, la duplicità di andare avanti e allo stesso tempo di lasciare qualcosa dietro di sé, sapendo di perdere più di qualcosa.
Gli Avanzi nella tradizione italiana, come le bucce di un frutto, sono apprezzati nelle Avventure di Pinocchio ma rifiutati da Pellegrino Artusi. Nella sua Scienza in Cucina, per una vergogna borghese, non vorrà completarla con un’appendice già pronta, dal titolo La Cucina degli Avanzi, che per moltissimi era il menu della settimana, dopo il pranzo della domenica… dei padroni. Nella tradizione di Roma antica i pavimenti a mosaico del triclinio erano spesso disseminati da una “natura morta” particolare: una quantità fastosa di avanzi di cibo buttato… Infatti, i pavimenti stavano lì a mostrare gli avanzi della cena come una liberalità, cioè un’abbondanza caduta a terra e non spazzata via (asàroton), che diventerà la delizia di altri. Certo, di chi dovrà accontentarsi - che è sempre stata la maggioranza.
Non-finito come nonfinito.
C’è un nocciolo centrale nella rappresentazione non-finita di Crespi, che si svolge come un gomitolo, soprattutto nel capitolo 4: Alla ricerca del non-finito. Qui l’autore, spiega una serie di equivoci relativi al concetto di una realtà molto italiana del non finito. Innanzitutto, si mette in evidenza il tema trattato dalla 15° Biennale veneziana (2016) in cui l’architettura unfinished si interpreta come ci siano migliaia di migliaia di presenze nel paesaggio italiano soggette al destino di “opere interrotte”, che sarebbe meglio dire, fin dall’inizio, mal cominciate o per l’urgenza della politica o calcolo della speculazione.
Nel caso del design però il concetto di questo non-finito coinvolge un gusto che non è affatto l’evoluzione del kitsch ma ad esempio l’apprezzamento nudo e sobrio del pannello OSB come fosse una tavola d’abete appena piallata (il sistema Hack di Grcic) oppure gli interni che diventano Kunstkammer con l’evocazione di figure e oggetti suggestivi (vedi Marino Crespi). Vale a dire l’effetto moltiplicato e strappato dal contesto, ci sta come gli “sbreghi” rivelatori dei manifesti di Mimmo Rotella. Accanto ai quali, per contrasto, aggiungerei l’architettura d’interni e il lavoro “grezzo ma sottile” di Zumthor o dell’atto unico Le Sedie, interpretato come una sciarada alla Jonesco da Martino Gamper. In entrambi i casi si tratta di operatori fortemente consegnati alla manualità e alla pratica dell’artigiano che sa preparare il proprio palco con chiodi e martello.
In generale, il non finito classico ha avuto un grande attenzione nella storia dell’arte con la messa in scena, non sembri ovvio, dei due maggiori attori del non finito. Questi due sono stati messi a lavorare a gomito nella decorazione celebrativa della Repubblica di Firenze, in Palazzo Vecchio, con la Battaglia di Cascina per Michelangelo e la Battaglia di Anghiari per Leonardo. Il primo affresco, come si sa, tranne qualche disegno, non fu nemmeno cominciato e il secondo ebbe il destino di liquefarsi non appena finito. Ma Michelangelo, sia nel proprio tempo che in seguito, si colloca sempre più in una considerazione critica del tutto positiva, in particolare nell’interpretazione storica del non finito alla quale si aggiunge una fortuna sempre maggiore nell’evoluzione del gusto. Mentre invece Leonardo è condannato, perfino da papa Leone X, a essere considerato totalmente inaffidabile: “colui che non finisce nulla perché all’inizio dell’opera pensa alla fine…”(cit. ad sensum da Vasari). Infatti, pensare troppo a finire un’opera rischia di non cominciarla mai. Tuttavia, a rigore, la vera opera non finita di Michelangelo - e si può dire sbagliata - è la cupola semisferica di San Pietro. La Cena di Leonardo è stata invece il risultato del degrado molto rapido di un’opera fin troppo finita su di un muro che grondava acqua… In ogni caso il destino di Leonardo, stretto tra Michelangelo e Raffaello, era quello di essere considerato, per volere o per forza un’artista finito, degno solo di una pensione da parte di Francesco I. Leonardo aveva teorizzato l’abbozzo (il bozzar), cioè la prima idea che si trasforma in qualcosa d’altro, e sosteneva che il “membrificare [nel corpo umano] non sia troppo finito”.
Luciano Crespi stesso, citando Argan, pone il tema fin troppo diffuso di un Leonardo che piace ai colti e di un Michelangelo che piace a tutti. Perché, alla fine, la ragione stessa dell’apprezzamento del non finito in arte è un argomento critico di un gusto del tutto moderno. Quindi, tornando al presente, per restare nella considerazione del non-finito in quanto moderno, la storia della fotografia e del cinema, diventano per definizione, e realmente, la leggenda in positivo e in negativo del non-finito. Nello specifico: ripresa, inquadratura, sviluppo, montaggio, ritocco, proiezione ecc., fino alla post produzione, dal cartellone al trailer, diventano la prateria del non-finito. Per arrivare al divertissement del Futurismo e del Dada nel graffiare la pellicola i cui spezzoni tagliati o censurati diventano remake per le avanguardie. Almeno fino esperienze del Gruppo 63, l’Opera Aperta (Eco-Barthes) cattura lo spettatore ma lo vuole intrigare in ciò che ancora non conosce, ad es. il jazz, la musica elettronica e la poesia visiva. Siamo ormai oltre le porte della televisione, in attesa del continuo apri-chiudi del sipario della Società dello Spettacolo, in cui le immagini non parlano da sole ma sono “fatte parlare”. E poi, i cristalli liquidi dello Smart, le icone delle App. più l’intelligenza artificiale (AI) sapranno fare e parlare da soli. Si dice.
Le considerazioni invece che riguardano la musica, e che il saggio ripropone (a p. 86) nell’interpretazione degli autori Francesco Forlenza e Giovanni Jennings, mi sembrano discutibili, o forse molto poco discutibili. Il fatto che il non finito in musica, accompagnato da organo e clavicembalo, corrisponda al “basso continuo, inaugurato nelle composizioni della musica barocca, anche se fosse ma non lo è, contraddice la modernità del non finito in musica. Forse è meglio pensarlo nella proiezione di compositori come Mahler, Schönberg, Malipiero, Nono, Berio e Arvo Pärt. Infatti, per esempio i temi musicali in quanto “pause del silenzio” sono una serie di percussioni che interrompono il basso continuo (si chiama anche basso ostinato) che governa il mondo primordiale. Non è altro che l’eco dei rintocchi di un campanile (Le pause del silenzio di Malipiero) o le vibrazioni dei “tintinnabuli” (Silentium di Pärt) che spezzano il silenzio incombente, per aprirsi alle voci degli strumenti di fiati e corde. Anche nel jazz che tende l’orecchio al Pop, si propone il Time Out- il tempo spezzato di 9/8 o 5/4 inusuale nei pezzi standard - nel famoso Take Five di Brubeck e Desmond, in cui tra l’altro, c’è il primo assolo di batteria: un battito ritmico e alternato di interruzioni e riprese.
Luciano Crespi, a sua volta, da commentatore accurato ci popone un confronto per absurdum, se non fosse deliberatamente ironico, tra un passato prossimo e un presente: La filosofia dell'arredamento di Mario Praz con la Filosofia della casa, spazio domestico e la felicità di Emanuele Coccia. In due parole: il primo autore (Praz), accanto a un se stesso strabico, claudicante e in più perseguitato dalla patente di jettatore, raccoglie un universo di oggetti-soggetti che diventano la sua casa. In questa ci abiterà realmente fino alla fine (vedi La casa della vita)*, lasciando tutto a noi, nel suo museo-casa ora visitabile a palazzo Primoli in Roma. Mentre il secondo (Coccia), quasi un eterno ragazzo, vuole trovar casa unicamente intorno a se stesso, e questo lo può trovare ovunque… assieme alla “felicità”: una parola usata solo nelle brutte canzoni. Infatti, la felicità domestica lui la si scopre in un pezzo sopravvissuto di Mietskaserne, davanti a una Berlino ancora sconvolta da macerie vecchie e nuove, in cui il bagno, più prosaicamente cesso - lo conferma lui stesso - è dislocato nei pianerottoli comuni. E questo per rispettare un regolamento igienico di fine Ottocento il quale obbligava che i servizi fossero in un luogo con “aria e luce” direttamente dall'esterno… Bisognerebbe chiederlo a Peter Hanke che in un formidabile libretto Saggio sul luogo tranquillo (Versuch über den Stillen Ort)* spiega cosa vuol dire essere costretti a dormire avvinghiati a un water nel cesso di una stazione innominabile. Tutto può accadere lì, in mezzo a ogni libertà e felicità impreviste, in cui, un autore difficile come Handke, trova proprio in quel “luogo tranquillo”, un suo lettore che lo riconosce ed è pazzo di gioia di incontrarlo - fosse o non fosse per quel luogo inquietante.
Pare che l'idea di costruirsi una casa che duri una vita non sia compatibile con il vivere moderno di chi, come si legge in molte biografie: Vive tra… una città molto importante e un paesino noto solo a lui e a Google. Ecco che Praz ed Emanuele Coccia vivono felicemente in due pianeti diversi in cui il vero spirito nomade e migrante è ancora tutto altrove.
Certo, la casa del collezionista può non piacere per quel senso di maniacalità in cui tutto deve trovare e stare al suo posto, rispetto alla filosofia dell'eterno trasloco, che per nessuno è un segno di allegria se non un segnale di qualcosa che ci abbandona per sempre. Del resto, il surreale rovesciamento, in cui oggi sembra del tutto normale, come mangiare in bagno e fare il bagno in salotto (vedi Buñuel, Fantasma della libertà) è più costringente che liberante. È proprio in questo scenario indifferente che ci si ferma davanti a un interno-esterno abbandonato, con un atteggiamento che sta tra la pietas e l’inquietante (Unheimlich). Questa complementarietà di interno-esterno, si ritrova finalmente dentro al sentiero nel bosco (Holzwege) del non-finito, con una radura (Lichtung) sullo sfondo – tanto per sfumare su Heidegger.
Accanto all’ottimismo e ubriacatura degli Anni da Bere la progressiva scoperta dei grandi spazi industriali dismessi era già un continente a sé e si presentava come una impresentabile storia da cancellare, come la ragnatela di tratte di ferrovia obsoleta dei “rami secchi” che erano una foresta fossile. Infatti, il groviglio dei binari degli scali ferroviari conduceva dritto al fine corsa del “dismesso”, e a tutto questo si affiancava automaticamente quello del “riuso”. Ma quale? Questo resta il punto cruciale dei libri di Luciano Crespi, e di questo in particolare, che ormai davanti all’immenso inventario dell’Archeologia Industriale & Co., identifica un repertorio di reale intervento, con precise identificazioni tipologiche che vanno considerate non soltanto punti di partenza ma di arrivo. Infatti, capannoni industriali, uffici, case cantoniere, cascine, ferrovie, stazioni, ospedali, centrali elettriche, condomini, campi sportivi, palestre, macelli, chiese ecc. ecc., testimoni in qualche modo degli anni del miracolo economico stanno là aspettare e parlano in silenzio: “fanno cornice” direbbe Martí Guixé. Nelle Meditazioni sulla cornice (1927) José Ortega y Gasset parla di “cornici disoccupate”, quasi a cercare un lavoro.
In particolare, negli anni del Web e della Net Generation, la Urbex Aesthetic si è sviluppata come hobby intelligente, grazie alla fotografia di tutto e di tutti, con raccolte e collezioni vastissime di immagini. Nella serie: Abandoned houses e Abandoned places la suggestione e la pietas, diventano nei vari casi una ricerca disperata delle tracce di storie umane perdute in quegli interni. Mentre nella sequenza Derelict Places gli abbandoni diventano irrimediabili e rassegnati a un destino di sepoltura e sparizione. Il collezionismo e lo scambio nel social di immagini Pinterest consentono a tutti di mettere insieme un universo di luoghi misteriosi e abbandonati con effetti sorprendenti. È un genere di voyerismo tra i più a buon mercato, una molto realistica fantascienza in cui il genere fotografico dell’abbandono, formato-smart, diventa struggente. Non si tratta di banali selfie ma di fermarsi alle porte di un regno d’ombre inesplorato. In particolare: teatri e cinema sfondati, hotel sbarrati, biblioteche e cucine sfasciate, castelli neogotici collassati sono le immagini rassegnate di un sogno andato in pezzi. Dentro a questi vani, non le soffitte ma le scale e i sottoscala scrostati che non portano a nulla, sono lo specchio tra i più struggenti per una letteratura di fantasmi, che pensiamo perfettamente a loro agio tra queste mura foderate di ragnatele.
Questo è il contesto bruto di un discorso di verità sopra il terreno degli Avanzi e delle Rovine sia monumentali che no. A metà Ottocento Richard Deakin, un botanista britannico, catalogò non meno di 420 specie di piante cresciute sulle rovine del Colosseo*. Alcune specie che spuntavano tra le pietre erano così rare da far credere alle leggende più strane, tra cui, le deiezioni di animali feroci portati a Roma, quasi duemila anni prima, per i giochi del Circo.
Si può dire che tra il XVIII e il XIX secolo Italia ed Europa, sullo sfondo della Grecia, sia stato il territorio privilegiato per questa continua ricerca dell’oro. Lo scavo e il mercato archeologico, nonché i furti e le spogliazioni di ogni genere, sono tutto sommato ispirati da un concetto di “reintegrazione” degli “illustri Avanzi”. Secondo aspetti che vanno dal collezionismo di pezzi storici alla loro ricostruzione nello stile neoclassico dell’anastilosi, si può arrivare alle convinzioni ricostruttive del “falso storico”. Argomento che proprio nel moderno sta accanto al “sensus finis” del tramonto dell’Occidente.
A tutto questo, il libro vuole aggiungere, meglio congiungere con un trait-d’union, in un possibile non finito tutto ciò che si può riconfigurare, partendo dalle suggestioni di singoli casi, con progetti in quanto percorsi possibili. “Caminito que el tiempo ha borrado…”[sentiero che il tempo ha cancellato…] è un passo di tango dove immaginazione e realtà sono ancora abbracciate.
New Wave
Più che un Baedeker l’autore ha voluto qui proporre un paradigma di esempi e registrare un’ondata molto ampia di episodi riusciti nel contesto del non-finito moderno. Fra questi il recensore si è permesso di annotare, come in un Moleskine, alcune impressioni alla ricerca di semplificazioni e complessità nelle varie realizzazioni.
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2010 The Waterhouse Boutique Hotel, Lyndon Neri e Rossana Hu, Shanghai, Cina: il restauro di un edificio in stile rinascimentale accosta con disivoltura pezzi di storia con oggetti ritrovati, verso la destinazione di una cucina tra occidente e oriente, grazie a uno chef di fama come Jean-Georges Vongerichten. Rievocare l’internazionità di Shangai di primo Novecento è stata una scommessa gustosa quanto riuscita.
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2013 A Sandeira, Paulo Moreira, Porto, Portogallo: una boiserie di porte allineate una accanto all’altra danno idea di un recupero alternativo come una buona trattoria di quartiere.
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2014 Factoria Cultural, Office for strategic spaces, Madrid, Spagna: un ex mattatoio (Matadero) è trasformato in centro culturale in maniera duttile e reversibile, recuperando solo in parte lo spazio su due livelli: al piano terreno una normale attrezzatura d’ufficio open è sottolineata dalla selva di pilastri grezzi trasformati, in alto, come corpi illuminanti a raggiera.
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2014 House of Van, Tim Greafrex, London, Gran Bretagna: la volta a botte evoca non un semplice tunnel ma la contuità di un mondo sotterraneo e confortevole come una cantina per stoccaggio di sherry.
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2014 Palazzo Zen, O-Office, Venezia, Italia: le pareti di mattoni sono ricomposte in un sottosopra di mosaico riemerso.
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2014 Z-Gallery, O-Office, Shenzhen, Cina: una vecchia fabbrica di tinte e colori lascia l’ampia spazialità dell’edificio industriale al fine di organizzare dei cubicoli geometrici e funzionali per attività creative ed artistiche.
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2015 East Washington, Neuman Monson, Iowa City, USA: la ricomposizione di una grande finestra rettangola viene ad avere la funzione di una polifora replicata, senza staccare compositivamente i due livelli compositivi.
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2016 ST. Miquel 19, Carles Oliver, Palma de Majorca, Spagna: di una modesta edilizia isolana, a due blocchi distinti, si lasciano all’interno tutte le tracce delle semplici destinazioni precedenti (forno/bar/ caffè concerto) dove le interruzioni e gli squarci nei muri interni mantengono l’identità di una demolizione avvenuta nel tempo, per rimarginarla.
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2017 Bistro EK, Dekleva Gregorič, Lubiana, Slovenia: un trattmento bivalente di un interno allo stato grezzo si compie all' esterno nell'architettura neoclassica ottocentesca della città Mittel.
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2018 Alembic Museum, Karan Grover and Associates, Vadodara, India: una grande fabbrica di medicinali primo Novecento è trasformata in spazi polivalenti e laboratori d’arte, lasciando le identità delle torri di distillazione come elementi colonnari all’esterno; mentre all’interno si apre in toto lo spazio sottostante conservando la carpenteria metallica essenziale e le superfici murarie allo stato di sbrecciatura.
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2018 Ex Garage, Davidson Rafailidis, Buffalo, USA: un’anonima stazione di servizio, alla Hopper, esalta un emblema rotondo come una griglia luminosa.
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2018 Voice of Coffee, Yusuke Seki, Kobe, Giappone: si esaltano all’interno I volumi di blocchi cementizi geometrici e lineari, e si ricompone il tutto con caratteristiche minimal in un’ operazione sceltamente sottrattiva.
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2019 Too Can Cafe, SOAR (space oddity architect), Khet Don Mueang, Tailandia: l’ambiente volutamente kitsch accosta oggetti di culto del design con elementi naturalistici e vegetali.
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2022 Old Mill Culture Center, Studio NADA, Karpachevo, Bulgaria: ingenuità volonterose di accostamenti di strutture lignee si completano con scale metalliche da appartamento con negozio.
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2021 Balenciaga, SUB, Berlino, Germania.
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2022 Balenciaga Store, Faraguna, Londra, Gran Bretagna: sono entrambe ricomposizioni di genere pseudo-razionalista in spazi industriali in cui il marchio dell’alta moda sta volutamente in contrapposizione con lo stile sobrio degli ’interni. La caratterizzazione del marchio tende però a livellare gli interventi che si rivelano asettici e acontestuali rispetto a città fortemente caratterizzanti come Berlino e Londra.
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2022 Vitra Showroom, Londra, Gran Bretagna: si tratta di esempi di vetrina piuttosto amorfi, di “nature morte” con gruppi variabili di oggetti di design che servono a vendere oggetti di design, in un qualche modo senza un vero perché.
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2015 Spirit de Milan, Luca Locatelli, Milano Bovisa, Italia: si libera l’interno dello spazio della manifattura per lasciare la selva di pilastri liberati dalle macchine. Accanto si riconquistano gli spazi esterni come varchi frequentati e protetti, un tempo ammassati da materiali per la produzione.
All’interno di questo stesso Spirit de Milan il saggio di Davide Fassi si incastona, come un “qui e ora” nel triplice segno di: Partecipare, progettare, trasformare (cap. 8 alle pp. 133-140) che non è affatto un regno di illusione ma un terreno autentico sotto i birilli ineffabili della City Life. L’esperienza milanese dell’urbanismo tattico (forse meglio dire tattile) resta in maniera paradigmatica un’esperienza interrotta. È molto difficile pensare a una resurrezione dopo la peste moderna che ha dettato in alternanza chiusure drastiche quanto tolleranze assolute. Cioè, a dire che il rapporto tra individui e spazi esterni è diventato caoticamente carcerario, in seguito all’isolamento forzato accanto al desiderio di fuga dalla camicia a strisce.
La piazza Arcobalena a Milano, come raccontata da Davide Fassi, nel suo fin troppo sincero ottimismo, deve fare i conti di una città diurna con una notturna che sta sempre più in opposizione e si sta ribaltando: dove i preparativi di una festa a colori si spengono in notti urlate e terrificanti. Ormai il degrado dell’ex piazza Spoleto diventata Arcobalena ha raggiunto un effetto non reversibile, e questo è l’esatto contrario del non-finito che comunque dovrebbe poter cominciare da questi spazi. È importante, comunque, che la pratica urbanistica si sia un po’ staccata dal miracolismo dei piani regolatori, nonché particolareggiati, per reintrodurre concetti mai spenti e solo in apparenza abortiti. Per esempio, si tratta di poter riscrivere “l’unità di vicinato” nelle nuove condizioni, molto più elastiche, di micro-comunità che si incontrano ma possono scontrarsi perché costrette, in tempi più o meno lunghi, a dover stare in contatto e spartire lo spazio della città che diventa sempre più un luogo abbandonato: nel migliore dei casi l’orto di nessuno o più facilmente una discarica a cielo aperto. È vero, gli spazi esterni delle città italiane hanno in realtà caratteristiche di veri e propri interni e questo lo ha ancor più dimostrato, in condizioni di pandemia, l’utopia e gli eccessi di una civiltà dromocratica, dove tutto deve correre più in fretta possibile a costo della vita stessa che si è fermata improvvisamente contro il Muro della Peste *.
Ecco che il senso del non-ancora-finito sta “qui e ora” a chiederci una sosta e un guardarsi intorno per non essere asfaltati… In breve, serve fare un giro con gli occhi per guardare in alto e in basso e raccogliere con cura e passione in una montagna di cocci, le erbe e i fiori cresciuti sopra. Non è molto, ma sicuramente abbastanza. Qui in fondo ci stanno le parole di un bravo muratore che non si meravigliava affatto delle piramidi, e diceva: “Si può fare, perché tutto comincia con una pietra e – aggiungeva serenamente – perché alla fine ogni costruzione ha bisogno di una distruzione… Non è mai finita”.
Manlio Brusatin
Testi di consultazione a latere Mario Praz, La casa della fama. Saggi di letteratura e arte, Ricciardi, Milano-Napoli 1952. Peter Handke, Saggio sul luogo tranquillo, Guanda, Parma 2012. Christopher Woodward, Tra le Rovine. Un viaggio attraverso la storia, l’arte e la letteratura (2001), Guanda, Milano 2008. Manlio Brusatin, Il muro della peste. Spazio della pietà e governo del lazzaretto, Cluva Venezia 1981
N.d.C. – Manlio Brusatin – già professore straordinario di Disegno industriale – si è laureato in architettura all’Università Iuav di Venezia con Carlo Scarpa. Ha insegnato al Dipartimento di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano e alla Facoltà di Architettura di Alghero (Università di Sassari) dove ha contribuito all’istituzione del primo corso di laurea in Design in Sardegna.
Ha collaborato a varie Biennali di Venezia delle Arti, dell’Architettura e del Teatro, in particolare sono sue l’ideazione e l’allestimento della prima mostra del postmoderno: La presenza del passato (1980) e l’esposizione internazionale per il Centenario della Biennale: Identità e alterità: Le figure del corpo (1995).
Nella sua attività di ricerca ha indagato il tema del colore nelle arti e gli aspetti e i sistemi comunicativi delle immagini in rapporto a percezione-ricezione-obliterazione. Su questi argomenti ha tenuto lezioni e seminari in fondazioni, accademie e università italiane e straniere.
Tra i suoi libri: Storia dei colori (Einaudi, 1983); Arte della meraviglia (Einaudi, 1986); Storia delle immagini (Einaudi, 1989); Storia delle linee (Einaudi, 1993); Arte dell’oblio (Einaudi, 2000); Colore senza nome (Marsilio 2006); Arte come design (Einaudi, 2007); Verde. Storie di un colore (Marsilio, 2013); Stile sobrio. Breve storia di un'utile virtù (Marsilio, 2016); Il cappello di Leonardo. Sulla forma delle immagini (Marsilio, 2019).
Traduzioni principali: Histoire des couleurs (Flammarion, 1986); Histoire de la ligne (Flammarion, 2002); Historia de los colores (Paidos, 1987); Historia de las imagenes (J. Ollero, 1992); A history of colors (Shambhala, 1991); Geschichte der Farben (Diaphanes, 2002); Geschichte der Linien (Diaphanes, 2003); Geschichte der Bilder (Diaphanes, 2003); Storia dei colori e Storia delle linee (trad. in lingua araba, Bahrain 2018).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 15 GIUGNO 2023 |