|
|
Il Giardino di Babilonia, di Bernard Charbonneau – uomo del secolo scorso (1910-1996), umanista, storico e filosofo –, venne dato alle stampe nel 1969 ma questo libro – ora disponibile nelle Edizioni degli animali (Milano, 2022) – è di una tale potenza espressiva e profetica che, forse ancor più oggi, affascina il lettore curioso. Per questo dobbiamo essere grati all’editore che con coraggio ha voluto per la prima volta proporlo al pubblico italiano, impreziosendolo, tra l’altro, con il contributo di due grandi maestri che mi onorano della loro amicizia: Goffredo Fofi (per la prefazione) e Serge Latouche (per la postfazione).
Charbonneau, grazie anche alla profonda e lunga amicizia con Jacques Ellul, manifestò una viva e precoce percezione e preoccupazione per i cambiamenti irreversibili, nonché inediti, nella lunga storia dell’umanità che l’industrializzazione e l’urbanizzazione determinavano nel paesaggio e nel rapporto tra l’uomo e la natura, tra città e campagna. Quella che lui chiama la “Grande mutazione”, allora in pieno svolgimento, è un tema cruciale e forse tra i più problematici dell’attuale crisi ecologica: in quel tornante della storia, del boom economico per l’Italia, dei “trent’anni gloriosi” per la Francia, avviene la spettacolare accelerazione dell’economia termo-industriale drogata dai fossili che induce quel processo di inurbamento delle popolazioni che alla data odierna vede più della metà dell’umanità concentrata nelle città. Una mutazione vissuta all’epoca in generale con entusiasmo ed euforia, proiettati dalla penuria nell’incanto dei consumi, e accolta con favore non solo dai costruttori, ma spesso anche dagli urbanisti e dagli architetti. Anche se non mancarono, già allora, gli sguardi critici, in particolare da parte dei precursori dell’ambientalismo che ispirarono quella che Giorgio Nebbia chiamava la “primavera ecologica”(1). Tra questi è forse d’obbligo in questa sede ricordare Tomàs Maldonado e suggerire un suo testo, a mio parere fondamentale, che andrebbe riletto in parallelo a Il Giardino di Babilonia, sostanzialmente coevo, La speranza progettuale (2).
Ma tornando a Charbonneau, il suo merito è di descrivere in tempo reale e con sofferta partecipazione quanto gli accade sotto gli occhi: la devastazione della campagna ad opera dell’esplosione delle città, la morte della natura indotta dalla scomparsa del contadino trasformato anch’esso in un’appendice della macchina e della chimica, la nascita di quello che lui chiama “sentimento della natura” paradossalmente necessario per l’uomo moderno immerso nell’illusione della totale artificializzazione, rappresentato esemplarmente dal parchetto urbano confinato tra distese di colate di cemento, dai Parchi naturali e dalla moda dei viaggi in luoghi esotici e selvaggi. Per cui apre il primo capitolo con un’espressione sconcertante e provocatoria: “La natura è un’invenzione dei tempi moderni” (p. 49). Ovvero dei tempi delle grandi città industriali, rappresentate dalle loro periferie immense e tutte uguali: “Nella periferia industriale si ritrova la disperazione grandiosa di un’impresa babilonese; il gigantesco laboratorio di un alchimista dove, in un labirinto di tubi di ferro, catene e uncini, si formula in mezzo alle nubi, in torri di bronzo in cui arde un fuoco interiore, la magia che permette agli uomini di dominare il mondo. Qui ogni incertezza svanisce: forze rigorose e implacabili realizzano ciò che è necessario; forgiano macchine efficienti e un proletariato coriaceo. Bisogna essere ciechi per non vedere che ciò che si elabora non è la mediocre comodità del piccolo individuo, ma uno sforzo collettivo per sfidare l’universo. È l’antro dove si forgia la folgore delle guerre mondiali” (p.81). Una città caratterizzata dal “segno più smaccato del crescente caos urbano…, la marea di rifiuti” giacché “quella vecchia pazza della società industriale, per altri versi simpatica, non si è ancora resa conto che, complice anche l’automobile, ha cominciato a soffrire di incontinenza, con il rischio di sporcare la sua bella biancheria di nylon”. Sembra un’anticipazione del mirabile racconto di Calvino, Leonia, città destinata ad essere sommersa dai rifiuti, in Le città invisibili (3). Ovviamente queste città hanno bisogno di un “diluvio di petrolio”, “prezioso quanto velenoso”, sfruttato allegramente, senza fare i conti con i pro e i contro: “non ci sono prezzi da pagare, non ci sono rischi; costruiamo bombe da cento, mille megatoni; petroliere da centomila tonnellate di greggio, e poi? Un incidente? Ma via! Oggi le navi navigano con il pilota au-to-ma-ti-co, il capitano può tranquillamente schiacciare un pisolino e la macchina vi porterà au-to-ma-ti-ca-men-te in porto – o contro uno scoglio. E il giorno in cui esploderà una bomba da cento megatoni o una petroliera da seicentomila tonnellate, l’uomo farà miracoli con una paletta ed il secchiello”. (p. 161) E l’ironia diventa sarcasmo sul possibile destino delle città: “Chissà, se un giorno la scienza riuscirà a rendere gli individui indifferenziati come le gocce d’acqua. Allora, salvata dal disordine, la città potrà espandersi fino a coprire tutta la Terra” (p. 180).
L’estinzione dei contadini e la morte delle campagne con lo stravolgimento del paesaggio vengono icasticamente rappresentate dalla nuova potente macchina che tutto spiana, la ruspa. “E la macchina è inesorabile: deve funzionare. Una ruspa deve essere redditizia: per il contadino che la utilizza un tanto all’ora, per l’azienda che gliela affitta, per la multinazionale che la produce. Ogni anno un caterpillar deve divorare tanti ettari di vegetazione. […] Calcolando la superficie media annua di cui ha bisogno un bulldozer per esistere, soprattutto se la specie continua ad accrescersi e moltiplicarsi, non è difficile stimare quanti anni di vita restano ancora al paesaggio francese” (p. 198).
Quindi nel finale del volume, della cui qualità, spero, le citazioni proposte diano sufficiente testimonianza, riprende la provocazione iniziale sul “sentimento della natura” e sul suo inevitabile “fallimento”: “In questo secolo dell’artificio nutriamo una passione per la natura che stiamo distruggendo. Siamo tecnologici e bucolici; in genere prima l’uno e poi l’altro. La nostra ostilità pratica e il nostro amore teorico sono parimente smodati. Come le nostre donne, ora nude sotto il sole, ora arricciate e truccate e fasciate di nylon dalla testa ai piedi” (pp. 219-220). E l’inganno di questo “sentimento della natura” viene ferocemente ridicolizzato nei gustosi paragrafi successivi, dei quali basta riportare alcuni titoletti: Il canto dei bucolici, Giocare agli indiani, I figli del Sole, L’amore per il primitivo, L’intellettuale e il buon selvaggio, Miti naturisti: il mito dell’isola, Dal giardino dell’Eden al Parco nazionale, Il tour del turista, Vista mare, Vista montagna.
La conclusone è quindi conseguente e inappellabile: “nelle nostre società industriali e urbane è più che evidente che il ‘sentimento delle natura’ si è ridotto al fallimento” (p. 291). Seguono pagine bellissime sui “paradisi artificiali” del turismo moderno, splendide e profetiche quelle dedicate a Venezia dipinta, (pp. 308-311) che non possiamo riproporre qui per ragioni di spazio, se non con una breve citazione, ma che da sole meritano l’acquisto di questo volume:
I riti obbligati sono rimasti gli stessi: bisogna vedere Venezia. E, come in passato, Venezia dipinta offre il suo fondale scenografico. Quando il potere cominciò a sfuggirle di mano, a partire dal XVI secolo, si consacrò all'apparenza, trasformandosi in una scenografia di marmo e oro costruita sull'acqua che la rifletteva e la moltiplicava; più che un risultato della storia diventa un sogno stravagante, concepito da una sorta di mega Hollywood. Attori, ruffiani, lacchè e mercanti, pionieri del turismo da due secoli, i veneziani, saldamente difesi dal forestiero tramite il loro dialetto, gli vendono l'ombra di un’ombra. Gli abitanti di Venezia vivono come parassiti di questa moltitudine, parassita a sua volta del vecchio scheletro di cui rosicchia instancabilmente le ossa di marmo, levigate da milioni di sguardi. Cosicché il passato si perpetua distruggendosi; questo flagello moderno minaccia di sommergere la città, la scia dei vaporetti danneggia le scale e fa marcire le porte dei palazzi. Ma se per caso questa moltitudine sparisse, i veneziani non avrebbero altra scelta che abbandonare quell'antro ammuffito e andare a vivere la vera vita sulla terraferma, dalle parti di Mestre, tra i fumi dell'industria petrolchimica. E il vecchio sogno sprofonderebbe nella melma della laguna
Nelle conclusioni, però, Charbonneau non si sottrae alla pars construens, pagine tutt’altro che banali e scontate, che lo restituiscono come un importante precursore dell’ecologia politica. Esordisce affermando che innanzitutto bisogna abbandonare il “sentimento della natura” per acquisire invece la “coscienza della natura”, ovvero la consapevolezza che “corriamo il rischio, non indifferente, di distruggere l’uomo in conseguenza della distruzione dell’ambiente” (p. 349) e che “se è vero che la libertà dell’uomo scaturisce dalla natura, non è meno vero che la distruzione o l’organizzazione della natura è la fine della libertà” (p. 353). Quindi “è finita l’epoca della lotta dell’uomo contro la natura, ora all’uomo non resta che conoscersi e lottare contro se stesso. D’ora in poi, solo se sarà capace di dominare se stesso, potrà dominare la Terra” (p. 354). Insomma, nella “difesa della natura”, ci dice, “è in gioco l’uomo”, quindi “non si tratta di un lusso, ma della vita spirituale presente nel nostro corpo fisico”. Consapevole di essere “controcorrente” e di percorrere “una strada tutta in salita” e che “la partenza non sarà facile”, insiste “sulla necessità di conversione del sentimento della natura perché questo primo passo è alla nostra portata e precede tutti gli altri” (p. 355). Potente è indubbiamente questo termine conversione ripreso, come è noto, con insistenza dal nostro Alex Langer. Seguono pagine suggestive di pratiche da lui stesso sperimentate di incontro con la natura all’insegna di questa conversione, con l’intento non “di circoscrivere la natura in una riserva, ma di reintrodurla nella nostra vita”. Ma tutto questo non basta. E qui il nostro lancia il suo messaggio politico, ancora oggi tutto da declinare: “Misure parziali come queste, facili da riprodurre a secondo delle circostanze, sono possibili solo se accompagnate da un cambiamento di direzione complessivo. […] In fondo la natura non ha nessun problema, il problema è uno solo: quello dell’uomo contemporaneo di fronte alla sua sorte. L’errore più grave sarebbe quello di ridurre la difesa della natura a un’ideologia della natura che perderebbe di vista il fatto che la sua difesa è solo un aspetto della ‘rivoluzione’ - il cambiamento di rotta - che l’umanità contemporanea deve attuare se vuole uscire dai binari che la stanno conducendo alla rovina. Purtroppo, tutto il resto deve seguire la stessa strada: l’economia, la demografia, la politica” (p. 363). “Un’azione del genere presuppone un piano d’insieme, economico e sociale, e di conseguenza politico” (p. 363) “L’autentica impresa del 2000 non sarà l’esilio sulla Luna, dove saremmo ancor più rinchiusi nelle nostre macchine, ma il nostro insediamento sulla Terra” (p. 364).
Il Duemila l’abbiamo superato da oltre due decenni, ma non sembra che l’umanità si stia dedicando al nostro unico giardino terrestre per difenderlo dalle forze mortifere scatenate dall’uomo moderno, affinché, come auspica il nostro in chiusura, “l’umile bellezza dei suoi fiori rifletta la gloria di un’altra eterna primavera” (p. 364).
Caharbonneau ha ragione ad insistere nella critica alla moderna città industriale: noi oggi sappiamo essere la grande trappola tecnologica dorata in cui ormai vive la maggioranza degli abitanti del Pianeta. E i grandi pensatori ecologisti di ieri e di oggi sorriderebbero di fronte alle illusioni di chi pensa a realizzarvi la cosiddetta neutralità carbonica, con qualche pista ciclabile in più, con tante auto elettriche e qualche migliaia di piante (4). La moderna città industriale è l’emblema della civiltà odierna basata sui quattro grandi pilastri: ammoniaca, plastica, cemento e acciaio (5), alimentati dai combustibili fossili, come insostituibile risorsa energetica tutti e i primi due anche come materia prima. Sostituire questi pilastri, qualora lo si volesse davvero (ma nessuno, persino tra gli ambientalisti, sembra per ora pensarci) sarebbe comunque un’impresa titanica e di lungo periodo.
Le attuali megalopoli sono possibili, ad esempio, perché i fossili e la chimica, immessi a piene mani nell’agroindustria, hanno aumentato in modo spettacolare la produttività sia dei terreni che degli addetti alle colture, con un surplus alimentare che permette ai troppi cittadini di mangiare e perché la logistica globale di migliaia di supernavi portacontainers, fatte di acciaio e a propulsione fossile, permettono di far giungere ai cittadini da ogni parte del mondo calzature, abiti, beni di consumo durevole di ogni genere…
Le città, in sostanza, sono diventate una pesantissima palla di piombo al piede per un’umanità che volesse davvero intraprendere la conversione ecologica ed affrancarsi dai fossili.
Il merito di Charbonneau, e di altri che in quel solco hanno lavorato, è di presentare senza infingimenti la spaventosa difficoltà del compito che attende l’umanità. Questa consapevolezza è comunque la condizione irrinunciabile di partenza, oggi più che mai.
Nonostante l’appiattimento culturale del mondo contemporaneo (6) e le intemerate di Susanna Tamaro che liscia il pelo dei giovani assecondandone la facile propensione a vivere nel presente godendo delle accattivanti suggestioni dell’attuale offerta “culturale” e lasciando perdere i noiosissimi classici, continuiamo a ritenere che il patrimonio di saggezza depositato nel passato sia imprescindibile per capire il presente, in particolare la profondità e complessità della crisi in cui si trova attanagliata l’umanità. Ebbene, questa lettura è, da questo punto di vista, esemplare, un classico di riflessione e profezia che ci può aiutare, almeno, a comprendere quanto l’umanità contemporanea sia andata avanti in direzione del precipizio e come sia straordinariamente necessario, ma allo stesso tempo impegnativo e tremendamente difficile, invertire la rotta.
Marino Ruzzenenti
Note 1) P.P. Poggio, M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Jaca Book, Milano 2020. Si veda anche M. Ruzzenenti (a cura di), 1972, l’anno lungo dell’ecologia, numero monografico di “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 47, 20 dicembre 2022, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/ 2) T. Maldonado, La speranza progettuale. Ambiente e società, Einaudi, Torino 1970. 3) I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972. 4) Si veda a questo proposito il dossier Ecologia e sistemi urbani, in “I piedi sulla terra”, n. 3, giungo 2023, a cura di Alessandro Montebugnoli, per il Centro Riforma dello Stato, https://centroriformastato.it/ecologia-e-sistemi-urbani/. 5) V. Smil, Come funziona davvero il mondo, Einaudi, Torino 2022. 6) O. Roy, L’aplatissement du monde. La crise de la culture et l’empire des normes, Seuil, Paris 2022.
N.d.C. - Storico, docente e attivista ambientale, Marino Ruzzenenti si occupa di tematiche ambientali e sociali. È membro del comitato di redazione di "altroNovecento. Ambiente, tecnica e società".
Tra i suoi libri: con P. Costa e G. Nebbia, A come ambiente: corso di educazione ambientale (La Nuova Italia, 1998); Un secolo di cloro e... PCB: storia delle industrie Caffaro di Brescia (Jaca Book, 2001); L'Italia sotto i rifiuti: Brescia: un monito per la penisola (Jaca Book, 2004); L'autarchia verde: un involontario laboratorio della green economy (Jaca Book, 2011); Shoah. Le colpe degli italiani (Manifestolibri, 2011); (a cura di) con P. P. Poggio, Il caso italiano: industria, chimica e ambiente (Jaca Book, 2012); Le donne della Caselo (Associazione culturale presenARTsi, 2013); Rifiuti. Il business dei rifiuti a Brescia (Liberedizioni, 2015); Preghiamo anche per i perfidi Giudei. L'antisemitismo cattolico e la Shoah (DeriveApprodi, 2018); con P. P. Poggio, Primavera ecologica mon amour. Industria e ambiente cinquant'anni dopo (Jaca Book, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: Riprogettare le città a 40 anni da Seveso (25 novembre 2016); I numeri della criminalità ambientale (19 gennaio 2018); Una nuova cultura per il bene comune (29 gennaio 2021); Il territorio dopo il Covid (e prima del PNRR) (6 ottobre 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 LUGLIO 2023 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Luca Bottini Oriana Codispoti
cittabenecomune@casadellacultura.it
iniziativa sostenuta da:
Conferenze & dialoghi
2017: Salvatore Settis locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
2018: Cesare de Seta locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
2019: G. Pasqui | C. Sini locandina/presentazione sintesi video/testo integrale
Gli incontri
Gli autoritratti
2017: Edoardo Salzano 2018: Silvano Tintori 2019: Alberto Magnaghi 2022: Pier Luigi Cervellati
Le letture
2015: online/pubblicazione 2016: online/pubblicazione 2017: online/pubblicazione 2018: online/pubblicazione 2019: online/pubblicazione 2020: online/pubblicazione 2021: online/pubblicazione 2022: online/pubblicazione 2023:
G. Nuvolati, Il design è nei territori, commento a: A. Galli, P. Masini, I luoghi del design in Italia (Baldini & Castoldi, 2023)
C.Olmo, Un'urbanistica della materialità e del silenzio, commento a:C. Bianchetti, Le mura di Troia (Donzelli 2023)
E. Scandurra, Dalle aree interne un'inedita modernità, commento a: L. Decandia,Territori in trasformazione (Donzelli, 2022)
M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)
H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)
G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)
L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro, commento a: S. Armondi, A. Balducci, M. Bovo, B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)
A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)
C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)
G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)
F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)
F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)
E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)
G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)
P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)
C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)
A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)
B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)
F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)
A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)
P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)
A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)
|