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Uscire dalle aule universitarie, entrare in relazione con contesti sociali problematici, mettere alla prova ipotesi di lavoro “stando sul campo”. Cosa impariamo da una pratica della ricerca che rivede le proprie modalità e ha come orizzonte l’alto impatto sociale? Come alimentiamo, per questa via, una riflessione sull’utilità del nostro fare di cui vi è sicuramente bisogno? Su quali contesti urbani concentrare l’osservazione critica e come trarre spunti anche dai “cattivi esempi”? È con interrogativi di questa natura che si può accostare la lettura del volume curato da Andrea Di Giovanni e Jacopo Leveratto dal titolo Un quartiere mondo. Abitare e progettare il Satellite di Pioltello (Quodlibet, Macerata 2022), che vede la luce dopo un lungo lavoro di messa a punto del progetto di ricerca MOST of Pioltello. Migration Over the Satellite Town of Pioltello, finanziato dal Politecnico di Milano con il bando Polisocial Award nel 2017.
Il primo spunto di riflessione che se ne può trarre è senza dubbio sui modi di fare ricerca nel campo degli studi urbani. Il libro – e tutto il processo che ne è alla base, ivi compresa la trasformazione di un rapporto di ricerca in un testo a stampa – interpreta infatti con grande coerenza gli intenti principali del programma avviato dall’Ateneo negli scorsi anni: mettere il mondo accademico in contatto con i cambiamenti sociali per sviluppare nuove generazioni di professionisti con maggiori attitudini alla responsabilità e ben attrezzati per affrontare nuove sfide sociali. Assumendo, in sostanza, che l’innovatività della ricerca si debba in buona misura associare con la responsabilità sociale.
La città di Pioltello (un comune dell’area metropolitana di Milano di circa 36.000 abitanti) e il quartiere Satellite costituiscono infatti non solo un caso studio osservato con l’occhio del ricercatore, misurando approcci interpretativi e fornendo qualche indirizzo trasformativo intorno a questioni oggi cruciali sul piano insediativo e sociale. Vi è di più. L’indagine su quella che viene qui definita come “periferia privata multiculturale” diventa occasione per un’esperienza dal carattere immersivo: un lungo periodo di continui momenti di dialogo e scambio reciproco tra un gruppo di ricercatori di diversi Atenei e Istituzioni attivi entro campi disciplinari diversi, dall’urbanistica alla pedagogia, dalla ricerca sociale all’architettura, dalle politiche urbane alla tecnologia. “Stare a contatto con il mondo reale”, come amano ricordare gli autori del libro, attiva uno scambio tra ricerca e società che arricchisce e modifica entrambe le parti, e non vi è dubbio che ciò delinea una direzione di lavoro importante per rinnovare i nostri modi di fare urbanistica, rimettendo al centro una riflessione – sempre necessaria – sul posto e ruolo sociale della disciplina. Il presupposto della ricerca è dunque questo confronto continuo con l’insieme multiforme di chi abita nel quartiere, con i vincoli, gli atteggiamenti e le convinzioni delle istituzioni coinvolte, con le aspirazioni, i limiti e le energie delle associazioni locali, così come con le rappresentazioni che di questo luogo sono state via via proposte.
Ma quali aspetti emergono da questa pratica intensa del luogo? Quali effetti ne possiamo riconoscere?
Anzitutto è bene soffermarsi sulla scelta del caso studio e sui suoi caratteri. Il quartiere Satellite nasce su iniziativa privata nei primi anni Sessanta per quel ceto medio che vede nei comuni di prima cintura la possibilità di trovare condizioni di vita più comode e spazi abitabili meno congestionati rispetto a quelli della grande città. Un “satellite” appunto, che gravitasse intorno a Milano ma con buona autonomia in termini di verde, negozi, servizi. E che oggi ci appare al contrario come un aggregato respingente: cinquantacinque edifici (sui settantadue previsti) per poco meno di duemila alloggi in cui abitano circa novemila persone, riconducibili a un centinaio di diverse nazionalità, con una condizione proprietaria molto frazionata e numerose situazioni di morosità, insolvenza, occupazioni abusive, a cui si accompagnano naturalmente pesanti condizioni di degrado fisico e conflittualità sociale.
Un caso, dunque, per molti versi paradigmatico di quelle “periferie private metropolitane multiculturali” relativamente poco studiate – a fronte ad esempio dell’interesse riservato negli anni recenti alla “città pubblica” – su cui la ricerca richiama l’attenzione. Pezzi di città speculativa particolarmente problematici, in cui un patrimonio residenziale privato poco qualificato e prematuramente svalutato è riuscito via via a intercettare solo quella domanda marginale proveniente dalla popolazione dei migranti in transito, o alla ricerca di un primo punto di approdo. Nella specificità di Pioltello, una situazione resa particolarmente complessa dalla presenza di componenti sociali estremamente eterogenee, che hanno consentito solo forme molto precarie di integrazione e coesione sociale.
Il libro ci mostra chiaramente, anche grazie alla ricca documentazione, come si tratti di una situazione estrema. Non tanto per le condizioni abitative e sociali complesse – giacché questo vale per molte altre periferie – ma soprattutto per il fatto che la proprietà privata e la multiculturalità sembrano agire come dei moltiplicatori di problematicità, rendendo assai complicato immaginare un trattamento in termini di progetti e politiche. Difficile riferirsi a qualche esperienza virtuosa e fare leva sul ruolo, inevitabilmente limitato, del soggetto pubblico; difficile naturalmente interpretare modi di vita, attese, immaginari di una popolazione estremamente diversificata per provenienze e culture, povera e costretta in condizioni assai critiche; difficile prefigurare dispositivi e procedure operative che spingono la pratica urbanistica su terreni abbastanza inusuali. E va dato merito a questo lavoro di muoversi tra questi temi con un certo coraggio; un coraggio di cui gli studi urbani sembrano avere molto bisogno, e tanto più apprezzabile quanto più il tono dei numerosi testi del volume è cauto e privo di enfasi.
Un secondo aspetto da notare è lo stile della ricerca, che accosta due diversi registri. Da un lato la dimensione del confronto con saperi e discipline differenti: urbanisti e architetti hanno qui attivato un dialogo – certamente non facile – con antropologi, psicologi e ricercatori sociali, pedagoghi. Dall’altro lato la pratica di uno stile di indagine più consolidato e usuale: documentazione storico critica, lettura morfologica e delle condizioni architettoniche e di conservazione del patrimonio residenziale, indagini sugli andamenti demografici. La ricerca sembra così proporci un continuo oscillare tra diverse dimensioni: qualche incursione più coraggiosa che coinvolge voci esterne, e un ritornare poi prudentemente sui terreni più solidi degli studi urbani, più praticati dai curatori e dal gruppo di ricerca a loro più vicino. Ne emerge complessivamente un procedere preciso, documentato, rigoroso, ma anche una ricerca empatica, basata su forme di interlocuzione e coinvolgimento molto forti, tese a mettere in fertile dialogo comunità scientifica, cittadini, abitanti, bambini, istituzioni.
Il terzo aspetto su cui riflettere è naturalmente la finalità della ricerca, che viene espressa in modi molto netti: “una ricerca orientata al progetto, ovvero alla possibilità di mettere a punto un dispositivo d’intervento integrato per le politiche e i progetti urbani elaborato in una prospettiva fortemente inter-disciplinare, concepito in relazione alla situazione specifica del quartiere Satellite di Pioltello e trasferibile ad altri contesti affini della periferia metropolitana” (p.22). Nelle pagine del volume le difficoltà di questo passaggio tra ricognizione delle condizioni e ideazione di criteri e modalità di intervento possibili sono più volte richiamate, e al centro sono il più delle volte proprio le incertezze operative a cui, in modi diversi, devono fare fronte tanto i privati, quanto il soggetto pubblico o il terzo settore. Cionondimeno la ricerca non rinuncia a muoversi sul terreno del progetto, praticandone anzi due diversi aspetti, il primo legato alla dimensione fisico insediativa e al progetto dello spazio collettivo, il secondo ai dispositivi e agli attori.
Il modo con cui viene affrontato il progetto dello spazio collettivo, su cui peraltro gli autori hanno maturato in varie occasioni una significativa riflessione critica, merita in particolare di essere richiamato, anche perché qui la ricerca forse risulta fin troppo prudente. La rigenerazione dello spazio pubblico passa per l’enunciazione di operazioni consuete: articolazione e riconnessione delle aree verdi prossime agli edifici; rafforzamento delle prestazioni ecologiche degli spazi aperti; definizione di spazi di mediazione tra pubblico e privato; necessità di caratterizzare l’immagine dei parchi; superamento della monofunzionalità e incentivi per stabilire sinergie e integrazioni; ricuciture e ricomposizioni, e così via. Difficile non convenire sulla rilevanza di questi intenti. Rimane l’impressione che gli autori potessero forse andare un poco oltre fornendo qualche suggerimento in più sul come praticare questi temi, soprattutto nel contesto specifico di questo “quartiere mondo”. Misurandosi così in modi più sostanziali anche con i riverberi che la dimensione multiculturale del Satellite può avere sui modi di intendere e praticare lo spazio collettivo, dentro e fuori il perimetro ristretto del quartiere. In altre parole, sembra che la dimensione immaginativa – come possono diventare quegli spazi abitativi oggi così poco qualificati, quelle strade e quei parchi sostanzialmente privi di carattere e riconoscibilità – rimanga un po’ tra le righe. Come se gli autori avessero avuto un certo ritegno a usare le forme e gli strumenti propri della progettazione urbana, ivi compreso il disegno delle configurazioni spaziali possibili.
Una sorta di astinenza che pone qualche interrogativo più generale. L’impressione è che le difficoltà del fare urbanistica oggi non ci debbano portare ad avere timore del disegno, o ad assorbire interamente nella scrittura il racconto del futuro, in una autolimitazione dei linguaggi disciplinari che non sembra avere ragioni sostantive. Al contrario, viene da chiedersi se ciò di cui abbiamo bisogno non sia piuttosto una esplorazione a tutto campo degli strumenti disciplinari, anche dunque del disegno e delle sue diverse forme – ancorché allusive, costitutivamente ambigue, imprecise, esplorative. In altri termini, si potrebbe dire che, accantonate le illusioni circa la presunta trasparenza del linguaggio grafico, valga forse la pena sfruttarne le potenzialità e il dialogo con altre forme espressive, correndo anche qualche rischio attraverso immagini, visioni, suggerimenti. Non per fornire prefigurazioni unitarie e autoriali naturalmente, ma per non sottrarsi alla messa alla prova del proprio sapere a fronte anche di situazioni – e la rigenerazione delle periferie private è certamente tra queste - che chiedono nuovi intrecci disciplinari, profondi ripensamenti dei meccanismi e dei dispositivi operativi, riformulazioni della natura del nostro lascito in quanto ricercatori nella società.
Circa quest’ultimo cruciale aspetto – il portato di questo lavoro nella comunità locale – è naturalmente difficile pronunciarsi. Come può essere accolto, compreso e utilizzato un lavoro di ricerca su un quartiere dai tratti così peculiari e problematici? Certamente la restituzione di questo lungo lavoro di interazione nel formato di un libro costituisce un veicolo prezioso per continuare ad alimentare l’attenzione, anche se la ricezione sul tempo più lungo di una riflessione così articolata e a più voci mantiene una sua inevitabile imprevedibilità, e tanto più quanto il ventaglio dei soggetti a cui può parlare è diversificato per culture, competenze, ruoli, poteri. La pluralità dei registri di scrittura e rappresentazione del volume costituisce d’altro canto una risorsa importante, consentendo di immaginare un suo lascito diversificato: abitanti, amministratori, associazioni locali, istituzioni, potranno interrogare la ricerca e farne tesoro in modi differenti. È tuttavia anche da una diversa prospettiva che può essere interessante osservare il volume. Non tanto in rapporto al lascito verso l’esterno – verso l’oggetto della ricerca – quanto in relazione all’insegnamento che esso può fornire all’avanzamento disciplinare, posto che nel momento in cui la dimensione fortemente interattiva di una ricerca viene formalizzata nelle pagine di un libro è naturale chiedersi in quale modo la particolarità di una vicenda specifica possa darci qualche indicazione più generale su temi e modi di affrontare le questioni urbane.
Le vicende del Satellite si prestano a essere osservate con chiavi di lettura differenti e gli aspetti del libro che possono insegnare qualcosa sono naturalmente numerosi. Il volume mette a fuoco una condizione insediativa rilevante (una periferia privata), ne specifica i caratteri (multiculturale), si interroga su come indagarla (mediante una riflessione etnografica sul rapporto quotidiano tra spazio e pratiche, mediante le tecniche di avvicinamento più proprie degli studi urbani, ricostruendone la storia, e così via), apre a confronti con altre periferie che condividono la dimensione multiculturale e l’appartenenza metropolitana. Ciascuna dimensione apre piste di lavoro possibili.
Tra gli altri, un tema in particolare attraversa la vicenda raccontata e merita di essere portato su un piano di discussione più generale: il quartiere Satellite è anzitutto espressione di un fallimento. Pensato all’inizio degli anni Sessanta per le classi medie che avrebbero potuto trovare buone alternative abitative alla città di Milano, il suo destino si è presto invertito, manifestando via via una serie di criticità che, per progressivi effetti cumulativi, ne ha radicalizzato l’immagine negativa. E in più parti del libro vengono richiamate catene di concause: dall’incompiutezza del progetto, alla dimensione economica, alla circolarità della stigmatizzazione e all’incidenza degli immaginari.
Ne possiamo trarre qualche insegnamento? Si potrebbe dire che ogni storia che va male probabilmente va male a modo suo. Tuttavia, possiamo forse cercare di sbrogliare un po’ le ragioni di questo insuccesso specifico, interrogandoci in termini più ampi sul fallimento e sulle ragioni di quelle storie che costituiscono per noi oggi quasi dei controesempi. La vicenda del quartiere Satellite di Pioltello ci può essere di aiuto, proprio perché la dimensione del fallimento, sebbene cruciale per una riflessione sul fare urbanistico nel nostro paese, è sovente praticata dalla critica architettonica e del progetto urbano solo in modi marginali.
Spesso si lega il fallimento a qualche falla nel processo. Le cose sono andate male perché il progetto è rimasto incompiuto, perché l’interruzione lo ha privato di parti fondamentali alla sua stessa sopravvivenza: il parco non realizzato, la scuola non finita, e così via. Una rappresentazione che coglie l’insorgere di criticità nello sviluppo e nel radicamento di un luogo, ma di cui forse non possiamo accontentarci, anche perché implica un’idea non del tutto convincente di compimento del progetto, come se esso potesse intendersi come traduzione finita e linearmente orientata dall’intenzione alla realizzazione. In altri casi si spiega il fallimento in termini di deformazione del progetto, interpretando la vita che attraversa un luogo, un edificio, un quartiere come tradimento di un’idea, come impoverimento o perdita rispetto a un principio un po’ astratto, se non autoriale. Una visione rigidamente costruita sulla fiducia di un’immagine cui tendere e che, allo stesso tempo, rischia di cercare degli alibi alla complessità del processo, ai suoi possibili intoppi e imprevisti (così talvolta è stata la storia un po’ semplificata dei quartieri d’autore, dallo Zen a Scampia). Talvolta è invece una contestualizzazione un po’ indulgente l’argomento che spiegherebbe le cose. Le criticità vengono così legate a una fase storica: è andata male perché i tempi non erano maturi, perché per esempio si confidava nell’uso pubblico di uno spazio da parte di cittadini che viceversa esprimevano altre aspettative e comportamenti, perché si confidava in una gestione o in una manutenzione che non si sono date per mancanza di risorse, e così via.
La vicenda del quartiere Satellite di Pioltello ci può probabilmente aiutare a praticare una riflessione accurata – e poco frequente – che “metta alla prova” il progetto, in relazione soprattutto a due piani del discorso che si intrecciano. Da una parte che cerchi di indagare come l’esito fisico di un progetto (qualsiasi esso sia: quartiere pubblico o privato, edificio, piazza, ecc.) mostri capacità o incapacità di reazione alle pratiche, all’usura, agli immaginari, ai cambiamenti sociali, ai mutamenti dei valori economici come di quelli simbolici. Dall’altro che riconosca come quel progetto incorpori o meno una condizione che, in assenza di altri termini, dovremmo forse continuare a chiamare di “qualità”, come fattore che, tra gli altri, ne può orientare e condizionare la tenuta e la validità nel tempo. Articolando così un campo di argomentazioni per certa misura esterno – in modi un po’ allusivi si potrebbe dire la “vita delle cose” e del luogo – con una lettura più interna riconducibile alle decisioni progettuali e al loro esito nello spazio e nel tempo.
Quando ci si trova di fronte a situazioni come quella del quartiere Satellite di Pioltello - ma ogni lettore potrà avere il suo personale archivio di casi critici – può in altri termini essere utile chiedersi quanto il fallimento possa avere (anche) a che fare con dei limiti legati in modo specifico alle scelte spaziali e insediative, se non proprio a eventuali “errori” progettuali.
Come ci appare oggi questo luogo? Come si articola lo spazio dell’abitare e delle relazioni in pubblico, come sta nella città e quali rapporti intrattiene con le altre sue parti? Cosa c’è che non va, e cosa può essere invece un appiglio per immaginarne una riforma? Quale valutazione critica emerge, in sostanza, dalle nostre letture plurime?
Al Satellite, per esempio, la densità elevata ha costituito un problema assai rilevante in termini di qualità abitativa; e verosimilmente deriva in parte da qui il rifiuto degli abitanti che avevano maturato attese differenti proprio in ordine al modello insediativo – abitare nel verde – che veniva loro promesso. Ma quale soglia, in un determinato contesto, trasforma una prossimità che può essere virtuosa in una condizione che viene rigettata? Quando quel prato o quel parcheggio sono troppo grandi al punto da diventare insicuri? Quando la presenza o assenza di una recinzione fa emergere e consolida convinzioni securitarie? Impossibile stabilire a priori criteri buoni e validi ovunque, essendo naturalmente ogni nozione di qualità definibile solo contestualmente. Tuttavia e in linea generale, una densità molto elevata, la separatezza tra interno ed esterno e l’assenza di elementi di mediazione, un attacco a terra poco capace di un riverbero urbano o che costringa a un abitare troppo esposto, l’estensione eccessiva o la ristrettezza di un giardino, di una strada, di un parcheggio, al pari di elementi architettonici non adeguati (la mancanza di uno sporto di gronda che nel tempo innesca problemi di degrado di una facciata, per fare un solo esempio), potrebbero essere fattori da studiare a fondo e lucidamente, per ipotizzare eventuali nessi con l’insorgere di criticità insediative. E allo stesso modo andrebbero ben studiati la capacità o incapacità di un progetto di negoziare adeguatamente tra aspetti diversi, riconoscendo i ruoli spesso inconsapevolmente morfogenetici delle norme come di alcune soluzioni tecniche – e attrezzando di conseguenza il proprio apparato tecnico.
Nel campo degli studi urbani un discorso sugli “errori” sembra non trovare voce. Ma se si prende sul serio una riflessione sulla qualità urbana forse questa dimensione non è totalmente eludibile. Si tratta di chiedersi come alcuni caratteri dello spazio impattano sulle pratiche, in particolare su quelle abitudini più stabili e radicate, che hanno a che vedere con i modi di stare con il nostro corpo nello spazio. Modi individuali e culturali naturalmente, e rispetto ai quali le suggestioni che la lettura di un quartiere multiculturale come quello di Pioltello possono fornirci sono sicuramente preziose.
Al contempo, si tratta di riflettere su quelle ragioni di disaffezione che possono avere a che fare anche con le dimensioni comunicative, con la condivisione di valori, con la circolazione dei modelli se non addirittura con le mode, e che sono ovviamente molto difficili da cogliere. In sostanza, comprendere le ragioni di una crisi e di un fallimento, provando a rimettere al centro quell’intreccio di errori e disaffezione che rende conto della complessità degli effetti – che non sono mai solo fisici o solo simbolici – di qualsiasi azione di trasformazione del mondo. Riflettendo in tale modo anche sulla durata nel tempo della responsabilità di tutti gli attori convolti nel processo progettuale: nonostante l’inevitabile incertezza circa il confronto con il mondo, una dimensione che deve andare oltre la fase in cui si prendono decisioni in ordine allo spazio.
Nel campo della ricerca urbana sarebbe probabilmente salutare praticare maggiormente una critica del progetto, a tutte le scale, che ne metta eventualmente in discussione i presupposti, arrivando eventualmente a falsificarli qualora si riscontrino gli elementi di un “cattivo progetto”. E ciò tanto più in quella città ordinaria e normale ampiamente costituita proprio dalle periferie private di cui il libro ci parla, e non solo in relazione a qualche luogo che assume caratteri di eccezionalità, sui quali la critica tradizionalmente si è più esercitata. Per ovvie ragioni siamo abituati, nella ricerca e nella didattica, ad alimentarci di buone pratiche. Il libro curato da Di Giovanni e Leveratto apre un fronte di riflessione che spinge a guardare anche le cattive pratiche e imparare dalle storie andate male. Viene qui da pensare che la fase di incertezza entro cui l’urbanistica e il suo progetto si trovano oggi potrebbe trarre qualche giovamento anche dalla costruzione di una sorta di “manuale inverso” che non raccolga le cose ben fatte e le esperienze virtuose, ma al contrario quelle su cui il nostro giudizio è più severo. Senza alcuna vena polemica o di denuncia, ma come analisi tecnica condotta in modo cauto, paziente, rigoroso. La lettura precisa e lucida del quartiere Satellite di Pioltello che il volume ci fornisce potrebbe costituirne un tassello significativo.
Chiara Merlini
N.d.C. – Chiara Merlini è professore associato di Urbanistica al Politecnico di Milano. Si è formata presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e dal 1995 al 2006 ha insegnato presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno (Università degli Studi di Camerino). Tra i principali temi di ricerca: la formazione e i caratteri della disciplina urbanistica in una prospettiva storico critica; le forme e le trasformazioni della città e dei territori contemporanei, con particolare riguardo alle forme degli insediamenti dispersi, sia nelle fasi generative sia nelle loro evoluzioni più recenti; la qualità dello spazio urbano ordinario nelle sue dimensioni costitutive e nelle relazioni con specificità, qualità e limiti del progetto urbanistico.
Svolge attività di consulenza nel campo della progettazione urbana ed è autore di saggi su riviste nazionali e internazionali (Urbanistica, Archivio di Studi Urbani e Regionali, Territorio, City, Territory and Architecture, Journal of Urbanism, Les Cahiers de la Recherche Architecturale, urbaine et Paysagère).
Tra i suoi libri: con Bernardo Secchi (a cura di), Un progetto per Siena. Il concorso internazionale per piazza Matteotti-la Lizza, Electa, Milano 1992; Cose/viste. Letture di territori, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2009; con Arturo Lanzani e Federico Zanfi (a cura di), Riciclare distretti industriali. Insediamenti, infrastrutture e paesaggi a Sassuolo, Aracne, Roma 2016; con Patrizia Gabellini, Paola Savoldi e Federico Zanfi, Urbanistica per una città media. Esperienze a Modena, Angeli, Milano 2023.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 SETTEMBRE 2023 |
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