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Il dilemma è noto e non ammette una soluzione semplice. L’urbanistica è un’istituzione, una forma di sapere, una pratica (o meglio, una famiglia di istituzioni, saperi e pratiche) che dovrebbe presentare caratteri specifici, cioè disporre di quadri concettuali, regole e strumenti peculiari, ma mette in gioco anche una vasta rete di relazioni con un complesso di fenomeni e meccanismi di varia natura – sociale, culturale, politica, ambientale, economica, istituzionale, amministrativa… Per capire e valutare le dinamiche disciplinari, sembra necessario ricostruire i processi co-evolutivi della società che cambia, indagando le dimensioni plurali del problema. Tuttavia, la trama dei riferimenti potrebbe diventare troppo aperta e intricata, mettendo a rischio il filo del discorso. L’alternativa più plausibile sarebbe circoscrivere il campo, per delimitare in modo più rigoroso temi di interesse e responsabilità; con il timore, in questo caso, di eludere nessi e fattori influenti. Al limite, il discorso potrebbe diventare introverso e auto-referenziale, come accade talvolta alle visioni d’autore – che sono state importanti alle origini e sembrano riemergere a fine ‘900, dopo una lunga fase di stasi, come strategia possibile di riduzione della complessità (altrimenti intrattabile?). La figura di Bernardo Secchi rappresenta degnamente il dilemma: come urbanista che ha voluto declinare una concezione densa della disciplina (riconoscendo la pluralità delle sue dimensioni), ma nello stesso tempo ha rivendicato il primato di una storia e riflessione «interna», e l’aspirazione a lasciare un’impronta sul corso dei processi, grazie appunto a uno stile e a un disegno d’autore. Rispetto a queste posizioni, il contributo più recente di Alberto Clementi alla riflessione urbanistica – Alla conquista della modernità. L’urbanistica nella storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (Carocci, 2020) – rappresenta una chiara inversione di rotta: un ritorno alle sfide delle «storie multiple e co-evolutive», con tutta la consapevolezza delle difficoltà e dei rischi conseguenti; ma forse anche della necessità, oggi, di ritrovare nei processi un senso collettivo e condiviso, oltre i limiti delle visioni d’autore o di settore.
Una rappresentazione teatrale
Leggendo il libro, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte non solo a un racconto («uno dei possibili» rispetto a un tema così complesso e controverso), ma a una rappresentazione teatrale: un’opera, in cinque atti e quasi 90 scene, che rinnova l’intento pedagogico del teatro dei classici. La sequenza degli atti scandisce un percorso originale e ricco di significati, che si apre con una anticipazione d’insieme dell’intero cammino, e si conclude con una riflessione dolente sul disordine del presente e l’incertezza del futuro; nel mezzo, tre passaggi cruciali (veri turning points, nel senso di Arjun Appadurai): la crisi economica e sociale (non solo italiana) dei primi anni ‘70; il tracollo di sistema, in Italia, nei primi ‘90; la grande crisi globale del 2008 e le sue conseguenze drammatiche. Ogni atto viene sviluppato grazie a una sequenza di scene: numerose, ben definite (ciascuna dedicata a un tema o una questione cruciale); accurate ed essenziali al tempo stesso; perciò efficaci come tasselli che richiamano l’attenzione del lettore su fatti, personaggi, eventi influenti (ma non sempre presenti alla nostra memoria e interpretazione); nel complesso questi elementi, in rete, offrono una ricostruzione convincente dei processi e problemi di lungo periodo; che diventa il quadro essenziale rispetto al quale ripensare e giudicare l’evoluzione dell’urbanistica italiana, nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Trovo l’impianto interessante e fertile. Un commento puntuale non mi sembra necessario (forse neppure possibile) in questa sede. Preferisco rivolgere l’attenzione direttamente ai modi nei quali l’urbanistica italiana, secondo Alberto Clementi, ha saputo interagire con il processo complessivo di co-evoluzione. L’intento, dunque, è rintracciare il filo delle argomentazioni che sono dedicate specificamente alle visioni e alle azioni disciplinari. Non dovrebbe sorprendere il fatto che questo filo risulti esile e, in sostanza, marginale. Perché il ruolo che la disciplina ha saputo svolgere nella società che cambia non è stato molto rilevante negli ultimi decenni, nonostante certe pretese o proclamazioni auto-referenziali. Mentre in passato è stato più influente? Clementi denuncia un declino obiettivo rispetto a una stagione antecedente che sarebbe stata più feconda, nel secondo dopoguerra. Io avrei qualche dubbio, almeno nel caso italiano dove la cultura urbanistica è rimasta costantemente in ritardo rispetto alle esperienze internazionali più avanzate (certamente ha pesato la lunga parentesi del fascismo). Negli anni ‘50 e ‘60, anche in Italia la voce dell’urbanistica è parsa più vigorosa ed edificante, ma in verità si è trattato, in larga misura, di una posizione pedagogica tardo-illuministica; ricca di moniti e di esortazioni, ma largamente incapace di guidare effettivamente i processi reali; con il rischio di rappresentare un’utopia non-concreta, mentre la crescita sul campo è stata altrimenti orientata e determinata. È vero, però, che nel corso del tempo, fin dagli anni ‘70, la narrazione urbanistica si è fatta più debole e frammentata; con ogni evidenza, ha perso la tensione visionaria delle origini; mentre cresceva, invece, la rassegnazione verso forme e modi d’azione sempre più contingenti e talora opportunistici. Rivediamo brevemente alcuni passaggi fondamentali.
Le voci dell’urbanistica
La selezione dei riferimenti disciplinari che l’autore ci propone nel corso del tempo, fase dopo fase, non pretende in alcun modo di essere esauriente, ma si assume la responsabilità di valutazioni e interpretazioni soggettive (peraltro corroborate, nel lungo periodo, da un notevole complesso di indagini e sperimentazioni sul campo). Le scelte non rispettano strettamente i canoni dell’ortodossia, ma confermano una costante apertura verso storie molteplici e le loro intersezioni. Il corso delle argomentazioni assume una configurazione a spirale: il filo essenziale del discorso viene immediatamente delineato; in seguito, le questioni salienti sono riprese in profondità (intendo adottare un metodo simile in questo commento, che purtroppo non sarà brevissimo).
L’urbanistica italiana, nel secondo dopoguerra, si presentava come una forza progressista che, almeno sul piano dei valori e delle buone intenzioni, intendeva contribuire alla modernizzazione incompiuta del nostro paese. Sui fatti il giudizio diventa più incerto, se è vero che l’esperienza principale che Clementi richiama in quella fase è il piano di Roma di Luigi Piccinato (1962): dove le previsioni erano gravemente sovradimensionate; lo sviluppo futuro era distribuito lungo assi di espansione della mobilità su gomma; il disegno urbano rifletteva modelli generali più che un’interpretazione effettiva del contesto. Lo scarto fra ideologia e pratica è un problema che non dovrebbe essere sottovalutato, neppure in quella fase (relativamente) gloriosa. Senza dimenticare l’obiezione più radicale, che Clementi scandisce con fermezza: la concezione prevalente dell’urbanistica, in quel periodo, tendeva a prefigurare il futuro della città in forme «rigide e autoritative». Quella visione è stata a lungo dominante, anche quando il contesto ha assunto forme e caratteri sensibilmente diversi.
Nel corso del tempo, infatti, le criticità si sono aggravate, per una serie di fattori e processi concomitanti, che il libro documenta n modo esauriente. È venuto meno il modello di sviluppo industriale, a forte guida pubblica, degli anni della crescita accelerata. Si sono moltiplicate, nella post-modernità dilagante, le tendenze alla dispersione: di sistemi economici, forme insediative, visioni ideologiche, scelte di valore, modelli di comportamento. La funzione pubblica è diventata più debole per crisi di legittimazione e carenza di risorse (mentre cresceva il debito pubblico, ma non la produttività dell’economia). La coesione sociale (come Carlo Donolo ha magistralmente argomentato) è stata messa a rischio dalle spinte individualistiche, che hanno esaltato gli interessi di parte più che le possibilità di emancipazione individuale e sociale. La questione urbana ha assunto forme inedite e gravi, con un’evidenza crescente dagli anni ‘80 per la convergenza critica di problemi non solo funzionali, ma ambientali (ecologia, inquinamento, sostenibilità) e sociali (le disuguaglianze crescenti). Anche le forme del territorio sono sensibilmente mutate, per l’effetto composto di condizioni storiche, movimenti locali e impulsi selettivi della globalizzazione. Negli anni ‘90 si sono moltiplicate le ricerche tese a ripensare territori, paesaggi e infrastrutture (e le mutue relazioni): il libro ne offre un resoconto essenziale. Fra queste, degne di attenzione mi sembrano le esperienze, di interesse nazionale, che l’autore stesso ha curato e nel testo sono sobriamente menzionate: ITATEN e RETURB (1995-1998), URBAN (2000-2002), diversi contribuiti sul tema del paesaggio, e infine (2007-2008) lo studio sui quadri territoriali del QSN.
In questo scenario in movimento, le politiche hanno perso molte certezze. La speranza di migliorare la coerenza e l’efficacia congiunta degli interventi pubblici su economia e urbanistica non poteva che essere vana, se è vero che il paese ha sempre esitato a impegnarsi sul fronte della programmazione economica. Il «Progetto ‘80» di Giorgio Ruffolo è stato rapidamente liquidato come un libro dei sogni; solo a fine secolo è ricomparso in agenda il tema della «nuova programmazione», con obiettivi molto ambiziosi, che in larga misura non sono stati realizzati. Le visioni e le strategie canoniche dell’urbanistica moderna sono parse in difficoltà di fronte alla evoluzione e dispersione degli ambiti di intervento (fra poli metropolitani, città storiche, insediamenti diffusi e aree interne). La pura reiterazione degli obiettivi e modelli della prima modernità è diventata insostenibile per il peso degli oneri e la carenza di risorse (con il rischio di contribuire alla crescita irresponsabile del debito pubblico fra gli anni ‘70 e ‘80). Le domande emergenti di governo del territorio, sempre più fluide e diversificate, sono risultate incompatibili con la rigidità e il carattere impositivo degli strumenti tradizionali. Fin dagli anni ‘60, Campos Venuti ha posto in evidenza la centralità della dimensione politico-amministrativa dei processi. Tuttavia, quella mossa (condivisibile) per molti decenni non ha portato a una revisione sostanziale della strumentazione. Anzi, larga parte dell’area disciplinare ha continuato a diffidare delle possibilità di intervento tramite progetti d’area: criticati o rifiutati da molti urbanisti, come azioni in deroga rispetto alla logica del piano tradizionale (esemplare è stata la stagione dei «programmi complessi», negli anni ‘90). Clementi ha voluto citare soltanto due esperienze di pianificazione, alle soglie del nuovo secolo: il piano di Roma, progettato da un vasto gruppo di urbanisti riformisti, sotto la guida di Campos Venuti; quello di Milano, concepito e messo a punto da Luigi Mazza. Ebbene, entrambi i casi presentano problemi seri e irrisolti. Nonostante un disegno molto accurato e articolato (dove spiccavano la centralità delle infrastrutture su ferro e un’attenzione inusuale ai temi del progetto urbano in alcuni ambiti di trasformazione strategica), l’esperienza romana non ha convinto Clementi per alcune scelte di merito (in particolare, la selezione e il dimensionamento delle aree nelle quali concentrare l’espansione insediativa), ma soprattutto per la mancanza di una chiara «politica del piano» (che in effetti non ha saputo garantire un’attuazione coerente ed efficace). Il piano di Milano, al confronto, segnava il trionfo della flessibilità e della discrezionalità: un sistema di regole era imposto all’insediamento esistente, ma le trasformazioni urbane non erano prescritte a priori, date le condizioni di incertezza, spesso radicale. Proposte di intervento potevano essere formulate da attori molteplici, pubblici o privati: si trattava di sottoporle a valutazione secondo il quadro prestabilito di vincoli e indirizzi. Questo significa mettere radicalmente in discussione il dogma tradizionale della pianificazione come dispositivo che prescrive il futuro. Quello milanese è stato probabilmente il più importante tentativo in Italia (giunto a compimento soltanto nel 2001!) di dare una legittimità culturale e istituzionale a una prassi che normalmente era considerata comportamento in deroga. Poiché la rigidità degli strumenti è diventata un problema sempre più critico, Clementi ha considerato degna di interesse quella alternativa. Tuttavia, è stato sempre consapevole dei rischi che un modello altamente discrezionale può comportare, se le interpretazioni risultano troppo ciniche o strumentali. L’autore si chiede, pertanto, se non sia stato quel piano la chiave dello sviluppo immobiliare intenso, ma discutibile della città di Milano, negli ultimi 20 anni.
Questa coppia di esperienze configura dunque il dilemma radicale, che non è possibile eludere. Clementi non sembra trovare risposte convincenti in altri filoni disciplinari, che pure hanno suscitato un evidente interesse negli anni ‘90. Alludo ai «piani disegnati» che Gregotti e Secchi hanno sperimentato per un breve periodo, con un impatto mediatico rilevante, ma solo temporaneo. Mi riferisco anche agli sviluppi ufficiali dell’urbanistica riformista italiana, sulle tracce del progetto camposiano: un filone al quale, sorprendentemente, l’autore non concede molto spazio, mentre io penso che una riflessione critica sarebbe utile e opportuna. Una certa attenzione è riservata invece a una varietà di contributi sui temi collaterali dell’analisi economico-sociale e della formazione di decisioni, strategie e politiche. Alcuni riferimenti, come la scuola veneziana di «analisi economica e sociale del territorio» oppure la ricerca originale di Pierluigi Crosta, sono stati utili per mettere a fuoco, in modo definitivo, certi limiti oggettivi dell’urbanistica tradizionale, ma certamente non hanno saputo suggerire un’alternativa concreta e sostenibile. Altri contributi potenziali, come il filone tecnocratico delle «teorie dei sistemi», hanno rappresentato invece vie impraticabili, rapidamente abbandonate; mentre la pianificazione strategica ha dato vita a progetti intrinsecamente ambigui, rispetto ai quali l’autore esprime perplessità, che condivido. La conclusione è che un’alternativa convincente all’urbanistica più tradizionale, così rigida e impositiva, ancora fatica a emergere, mentre diventa sempre più critica l’incertezza non solo sulle tendenze evolutive di città e territori, ma anche sugli obiettivi di pubblico interesse (a sostegno delle metropoli, della città diffusa, delle aree deboli?). Il libro ci lascia di fronte a un bivio: accettare una pratica della disciplina come discrezionalità e contingenza, dove le funzioni rischiano di diventare retoriche o palesemente strumentali. Oppure (cercare di) rigenerare, condividere una guida pubblica e una progettualità creativa, capaci di coniugare, in forme nuove e responsabili, alcuni requisiti emergenti: ecologici, di smartness, di inclusione sociale (penso al progetto EcoWebTown» che Clementi coraggiosamente ha intrapreso da anni). Una speranza che fatica a diventare possibilità concreta.
Un bilancio lucido e dolente: senza futuro?
In effetti, il quadro non è confortante. L’urbanistica italiana si presenta come un’area poco sensibile al mutamento del contesto, che è stato rilevante nel corso del tempo. Le posizioni espresse sono apparse non solo datate, ma in costante ritardo rispetto alle frontiere più avanzate delle pratiche e riflessioni disciplinari, sulla scena internazionale. La discussione appare tendenzialmente introversa: in generale prevale un orientamento auto-referenziale, che spesso assume chiare declinazioni ideologiche. La capacità di innovazione risulta modesta, anche quando si tratta soltanto di apprendere dalle esperienze già compiute in altri paesi. Nell’immediato dopoguerra, la cultura prevalente ha voluto rivendicare la tradizione del progetto moderno, secondo concezioni della funzione pubblica, del disegno e delle norme di piano, che risalivano al primo ‘900. Fra i ‘50 e i ‘60 sono stati elaborati i più noti piani-modello della modernità italiana: Matera, Padova, Assisi, la stessa Roma, Bergamo. Osservo che nessuno sarebbe oggi disposto a sostenere l’attualità di quei modelli. Tuttavia, è mancata – mi sembra – una vera revisione critica sui limiti di quelle esperienze (riviste ex post) e sulle prospettive del rinnovamento necessario. Eppure la visione di Luigi Piccinato può sembrare riduttiva – oserei dire semplicistica – se confrontiamo il suo testo base (La progettazione urbanistica, 1947; riedito da Marsilio, 1988) con le principali opere coeve disponibili nella letteratura internazionale a metà ‘900. I punti deboli del piano di Roma (1962), che Clementi ha messo in chiara evidenza ed è difficile negare, sono una conseguenza diretta dei limiti di quella visione. L’impegno di Giovanni Astengo non può che essere considerato edificante e generoso, ma le sue proposte si sono rivelate, purtroppo, fuori luogo e fuori tempo: più di 30 anni dopo il piano di Amsterdam, più di 20 anni dopo la visione programmatica e progettuale della Grande Londra. Non era possibile rilanciare quelle tradizioni senza una cura adeguata per i cambiamenti sostanziali del contesto. Questo giudizio non è così esplicito e assertivo nel testo di Clementi (si tratta del mio personale punto di vista), ma certamente il libro individua e scandisce gli elementi principali di insoddisfazione e di critica. Che peraltro sono rimasti a lungo al margine della riflessione disciplinare in Italia. La tendenza più evidente è stata lo sforzo di potenziare, accelerare la transizione moderna (certamente in grave ritardo nel paese), tramite mosse non sempre lungimiranti e raramente efficaci: basta pensare ai tentativi sfortunati, nel corso degli anni ‘60, di rendere più incisiva e cogente una legge urbanistica generale (1942) che non era ancora stata veramente sperimentata. Non è mancata, nel lungo periodo, qualche iniziativa riformista: alcune leggi di settore, negli anni ‘70 (standard, casa, riqualificazione, equo canone) e ‘90 (su temi cruciali per la pubblica amministrazione); prima ancora, l’intuizione di Campos Venuti, che all’idea originaria di urbanistica, come disegno e come norma, ha voluto associare il riconoscimento della dimensione politico-amministrativa delle pratiche, insieme a una battaglia coraggiosa a favore del contenimento delle previsioni (Amministrare l’urbanistica, Einaudi, 1967). Tuttavia, l’area disciplinare, nel complesso e per un lungo periodo, non ha saputo adottare il riformismo come prospettiva identitaria, culturale e strategica al tempo stesso. Solo verso la metà degli anni ‘90, nonostante il dissenso o quantomeno la riluttanza di una parte dell’area disciplinare, Campos è riuscito a dare legittimità e forma a un disegno di riforma. Un processo tardivo rispetto alle migliori esperienze europee, dalle quali sono stati tratti modelli datati, in verità in parte già superati negli stessi contesti originari. Un processo parzialmente incompiuto, perché il progetto di riforma nazionale è più volte naufragato e gli orientamenti riformisti sono stati accolti dalle Regioni in modi disuguali e non sempre coerenti. Un processo, infine, che non ha saputo realizzare gli obiettivi principali. Infatti, il rilancio della pianificazione d’area vasta e l’aspirazione a una forma di governo integrato del territorio sono rimaste intenzioni sulla carta. Il metodo della perequazione ha trovato applicazioni più frequenti, ma raramente si è trattato dell’attuazione coerente di scelte fondate su una chiara ragione pubblica: gli accordi negoziali sono spesso diventati parte costituente delle trasformazioni territoriali (come accade, peraltro, in ogni parte del mondo). L’innovazione principale è stata l’articolazione della forma-piano in componenti regolative, strutturali e operative, ma a distanza di 20 anni un’inversione di rotta è parsa necessaria, con il ritorno al «piano comunale unico» nella riforma emiliana del 2017 e nelle proposte più recenti dell’INU. Peraltro, le difficoltà non sono solo italiane: hanno colpito, spesso severamente, tutti i programmi riformisti intrapresi in Europa nei primi anni 2000, per il bisogno evidente di garantire maggiore flessibilità, orientamento strategico e sostegno allo sviluppo rispetto ai modelli antecedenti. Le buone intenzioni programmatiche si sono ampiamente rivelate vane o inadeguate; i principali esperimenti di spatial o strategic planning non hanno dato i risultati attesi, tanto da richiedere revisioni a volte radicali. L’effetto più comune sembra essere stato una sostanziale deregolamentazione dei processi e la rassegnazione a una progettualità sempre più contingente, certamente più debole rispetto alle speranze moderne o riformiste. In questo quadro, è rimasto anche irrisolto il rapporto controverso fra piano urbanistico e progetto urbano. Anche in questo caso il problema non è solo italiano. Se osserviamo le dinamiche internazionali dell’urban design, possiamo constatare che non hanno avuto successo i tentativi ripetuti di migliorare la contaminazione/integrazione fra planning e design (Gregotti e Secchi in Italia, Carmona e Punter in Gran Bretagna, Bohigas e Busquets in Spagna, e altri ancora, in vari contesti). Ma non ha funzionato neppure l’orgogliosa rivendicazione, da parte della starchitecure, dell’autonomia del progetto di architettura urbana. La realtà più comune ci mostra la proliferazione di operazioni di mercato, spesso occasionali, atopiche, banali; talora irresponsabili. Il futuro non sembra concedere prospettive più promettenti. Il libro di Clementi fotografa questa situazione, senza abbellimenti o inutili pudori.
Questo libro esprime dunque un pessimismo profondo, che a qualcuno potrebbe sembrare senza speranze? Nello stesso tempo, non sembra indicare visioni e strumenti utili per l’inversione di rotta che sarebbe più che mai necessaria? Ho colto questi interrogativi nei commenti che, rispettivamente, Patrizia Gabellini e Maria Chiara Tosi hanno dedicato al libro (nella discussione svolta presso Casa della Cultura lo scorso mese di maggio), ma non sono sicuro di condividere integralmente queste valutazioni. Ritengo che ipotesi e proposte, innovative e potenzialmente rilevanti, non siano mancate, nel tempo, da parte dell’autore; le tracce, però, devono essere ricercate in alcune aree (considerate) di frontiera.
Volgere lo sguardo verso i rami laterali
Il libro dedica uno spazio inconsueto (nei testi di urbanistica) a un insieme di esperienze e percorsi al margine, che sono familiari a coloro che, per qualche ragione, hanno voluto esplorare quelle vie, ma restano inconsueti o estranei per larga parte dell’area disciplinare. Nel corso del tempo io ho avuto queste opportunità, curiosamente in tutti i campi che Clementi ha voluto evocare (in effetti, in diversi casi si è trattato di esperienze condivise con l’autore).
Per formazione, negli anni ‘70 ho personalmente incrociato le suggestioni della systems view: una prospettiva metodica e razionalista, in sostanza tecnocratica, dalla quale ho rapidamente preso le distanze (una scelta confermata dal rapido declino della tendenza, a breve distanza di tempo). Oggi, però, è possibile osservare un movimento che trovo sorprendente: il rilancio tentativo del systems design di mezzo secolo fa nella nuova stagione tecnologica dei big data, della smart city, dell’intelligenza artificiale. Clementi segnala la tendenza come uno dei fattori e delle possibilità emergenti del cambiamento in atto. Io preferirei distinguere: non dubito dell’importanza dei big data per le strategie commerciali della società dei consumi. Considero invece una sciocchezza (epistemologica) qualunque ipotesi di fondare sui big data, con un metodo assolutamente induttivo, quella nuova «scienza urbana» che alcuni autori continuano a promettere (mi permetto di rinviare a Il futuro dell’urbanistica post-riformista, Carocci, 2022, capp. 3.1 e 4.4).
A Venezia, fra i ‘70 e i primi ‘80, ho scoperto il progetto originale della «analisi economica e sociale del territorio» (ma tendenze affini si sono manifestate, in quel periodo, anche nelle scuole di Architettura di Firenze e di Milano). Un’apertura di orizzonti inedita per l’urbanistica istituzionale, che indubbiamente ha aperto la via verso contributi significativi di interpretazione e critica dei processi in corso, oltre la superficie e le evidenze delle forme del territorio. A distanza di tempo, è più facile riconoscere alcuni limiti: una visione talora ideologica e partigiana (che condizionava le prospettive e creava pregiudizi); uno scarto incolmabile rispetto alle pratiche e alle responsabilità dell’azione urbanistica ordinaria; un deficit sostanziale di cultura riformista (che ha pregiudicato l’impatto reale delle capacità analitiche e critiche, pur rilevanti e innovative). Meno ideologico e comunque concettualmente ineccepibile, secondo Clementi, è stato, in quella stessa fase, il contributo di Pierluigi Crosta alla rappresentazione dei processi reali di policy-making (io ricorderei anche il contributo determinante di Bruno Dente, che ha saputo imporre quei temi all’attenzione degli ambienti più tradizionali delle scienze politiche italiane). Riconoscere interessi e strategie degli attori influenti e i giochi conseguenti di interazione; intendere le decisioni come la risultante di processi co-evolutivi complessi, che raramente possono essere determinati soltanto dalla intenzionalità di una singola parte, per quanto potente: queste mosse sembrano assolutamente pertinenti per ripensare i processi urbanistici reali. Sono rimaste al margine rispetto alla logica corrente, che privilegiava il disegno e la norma, per un difetto di cultura riformista (cioè realista, pragmatica, possibilista – ho sostenuto nel mio ultimo libro), che a lungo ha condizionato società e politica nel nostro paese. È questo deficit che ha indotto a considerare le rappresentazioni tracciate da Crosta e da Dente come un esercizio analitico, tanto lucido quanto (all’apparenza) astratto rispetto alle responsabilità quotidiane degli urbanisti.
Negli anni ‘90, insieme ad Alberto Clementi e altri compagni di viaggio, ho provato a ripensare la realtà di territori, infrastrutture e paesaggi, in forme più adeguate alle dinamiche del tempo, che non sembravano più riducibili alle modalità tradizionali della geografia e della pianificazione istituzionale. Forse l’idea di infrastruttura non doveva essere associata esclusivamente alle funzioni della mobilità, ma diventava interessante esplorare (e cercare di guidare) i nessi potenziali fra progetti di infrastrutturazione e trasformazioni del territorio. Forse l’idea di paesaggio non doveva essere congelata entro una visione identitaria e vincolistica, che rischia di risultare immobile e astorica. Come Clementi ribadisce nel libro, il paesaggio invecchia (cioè vive) con i suoi abitanti: deve essere inteso come esperienza di vita collettiva e, quindi, come risorsa strategica. Forse la visione al futuro dei nostri territori non può essere codificata secondo categorie precostituite e modelli generalizzanti. Sarebbe necessario ricostruire sul campo i nessi co-evolutivi specifici fra territori, ambiente, società, economia e politica, per provare a individuare i corpi territoriali realmente emergenti (con differenze e radici peculiari, potenzialità e strategie conseguenti di governo dei processi). Questi esercizi di ricerca non hanno avuto un impatto veramente significativo: forse per alcuni limiti intrinseci; forse perché le domande della politica, allora come oggi, sono diversamente orientate. Ricordo un commento (informale) del ministro delle Infrastrutture Paolo Costa (peraltro professore di economia urbana) di fronte all’esposizione di alcuni risultati di ITATEN e RETURB, alla fine degli anni ‘90: «non è di questo che abbiamo bisogno». Un impegno analitico di quel genere potrebbe trovare riscontri solo da parte di una politica che assume le responsabilità di costruzione o almeno programmazione di un futuro più degno, a lungo termine. Da molto tempo le vicende italiane mostrano il primato di interessi più immediati, che si prestano a una gestione meno complicata e sembrano assicurare un consenso diffuso: esemplare è stata l’attenzione riservata alle politiche della casa – come Clementi ci ricorda nel libro – rispetto alla marginalità sostanziale, nel lungo periodo, dei temi più complessi di governo del territorio. Se la politica rinuncia alla progettazione del futuro, le indagini di frontiera diventano accademia (che potrà valere a futura memoria, nel migliore dei casi).
Alle soglie e nei primi anni del nuovo secolo, ho interagito professionalmente con l’esperienza della «nuova programmazione» guidata da Fabrizio Barca, sotto l’impulso del Presidente Ciampi. L’espressione stessa rivelava alcune ambizioni ben giustificate. La posta in gioco era il rilancio di un impegno programmatico del paese dopo molti decenni di inerzia o palese elusione rispetto a quelle responsabilità. La matrice culturale era obiettivamente tecnocratica e l’approccio razionalista. Tuttavia, era chiara la volontà di conciliare i requisiti tecnici con la mobilitazione e il coinvolgimento attivo dei sistemi locali: con un inedito intento pedagogico, perché lo scopo non era soltanto migliorare la capacità di spesa pubblica e garantire l’implementazione coerente ed efficace dei progetti in corso, ma perfezionare il potenziale futuro della pubblica amministrazione, anche nelle sedi locali. L’obiettivo non è stato conseguito e la dispersione degli interventi sul territorio ha pregiudicato la possibilità di rilanciare una forte visione e strategia pubblica di interesse nazionale, unitaria e riformista (come bene argomenta Clementi). È risultato in larga misura vano anche il tentativo di realizzare progetti integrati, capaci di portare a sintesi, nel contesto specifico, problemi e questioni di ordine diverso (territoriale, sociale, ambientale e così via). Di fatto, gli interventi effettivamente giunti a compimento, in sede locale, generalmente hanno presentato caratteri più occasionali e tradizionali: la macchina programmatica in molti casi ha intercettato interessi e opportunità già emergenti dal contesto. Nel successivo ciclo programmatico (2007-2013), preso atto delle difficoltà dei progetti integrati, lo stesso Ministero ha provato a esplorare la via dei piani strategici per lo sviluppo di aree deboli. Non condivido l’orientamento (in effetti, i risultati non sono stati memorabili e anche Clementi esprime perplessità). Si tratta di un approccio datato, che altri paesi hanno sperimentato da decenni con esiti deludenti o quantomeno controversi. Ambigue sono le retoriche: come l’immagine della «città come attore collettivo», che vorrebbe prendere il posto della metafora, assai più realistica, della growth-machine urbana. Per una serie di impedimenti oggettivi (che ho discusso in altre sedi), la pianificazione strategica fa fatica a diventare un’opportunità autentica di esplicitazione e ricomposizione degli interessi in gioco; si riduce, in molti casi, a strumento di comunicazione o di marketing territoriale, piuttosto che di effettivo policy-making. Nel caso di aree deboli, inoltre, sembra difficile contare sulla mobilitazione di una rete attiva di attori locali: l’intero processo strategico rischia di ridursi a una narrazione esortativa ed edificante (ma spesso banale e ripetitiva). Devo riconoscere, però, che il corso delle vicende più recenti giustifica qualche nostalgia per le generose velleità della «nuova programmazione» dei primi anni 2000. Oggi il PNRR si configura come una lista, poco trasparente e forse debolmente strutturata, di una molteplicità di interventi disparati; dove l’opportunità di spesa sembra diventare il fattore determinante, ma l’efficienza della pubblica amministrazione non è migliorata dopo tanti anni (anzi possiamo temere qualche insuccesso nell’uso delle risorse, che sarebbe clamoroso e indecente). Nello stesso tempo, sembra svanire qualunque intento pedagogico, come aspirazione a creare le condizioni per una funzione pubblica più solida ed efficace, nei tempi che verranno.
Con rammarico dobbiamo prendere atto di questi esiti. Credo che la delusione più grave sia legata all’insuccesso della progettazione integrata. Perché questo è realmente un nodo cruciale per le pratiche urbanistiche. Non abbiamo bisogno soltanto di progetti in opera (oggi questo obiettivo elementare sembra essere diventato una conquista a rischio), ma di progetti urbanistici sensibili al contesto, all’ambiente, agli effetti collaterali e transcalari, all’impatto potenziale sul corso evolutivo del territorio di pertinenza (e alle responsabilità conseguenti). La capacità di coniugare le molteplici dimensioni del problema diventa un requisito fondamentale. Negli anni ‘90 abbiamo visto fiorire una varietà di esperimenti di «programmi complessi»: PIT, PRUSST, URBAN e altri ancora. Clementi non solo ha partecipato direttamente a quelle esperienze, ma ne ha colto la funzione essenziale per le visioni urbanistiche: la rappresentazione al futuro di un territorio complesso non può essere meramente compilativa, ma deve contare sulla selezione di progetti integrati di rilevante impatto territoriale e strategico – lo scenario prefigurato dal suo originale Piano di Inquadramento Territoriale della regione Marche (1997). Si tratta dunque di una questione chiave. Peccato che in molti casi resti profondo lo scarto fra le retoriche del progetto integrato e la realtà di proposte preconfezionate che vanno alla ricerca di opportunità di realizzazione. Anche questa retorica, come quella strategica, rischia di funzionare come mero heresthetic (secondo le anticipazioni di William Riker, The art of manipulation, Yale University Press,1986). Ma forse questo è un problema che vale oggi per tutta l’urbanistica, che – come sostengo da anni – rischia di ridursi a un simulacro (come forma e procedura che si limita ad accompagnare il corso di processi che trovano altrove le determinazioni più significative) oppure di diventare la leva che facilita il primato degli interessi più forti e più intraprendenti. Se così fosse, dovremmo riconoscere la sostanziale irrilevanza della disciplina rispetto alle intenzioni originarie. Questo non significa, però, che manchino ipotesi e proposte per svolgere un ruolo più dignitoso. Non credo che siano necessarie nuove invenzioni. Le idee di territorio, di infrastruttura, di paesaggio, di visione, di progetto, che Clementi ha elaborato nel corso del tempo e messo alla prova per quanto possibile, conservano a mio avviso una piena attualità. Sono le condizioni materiali che continuano a mancare perché gli sviluppi in opera possano essere più significativi. Pertanto, non ritengo che il messaggio di Clementi debba essere considerato pessimistico o inerme. Si tratta di una lucida rappresentazione dello stato delle cose, che deve scontare gravi limiti e incertezze sugli scenari possibili.
Un appello alle responsabilità minime
Perché mai le prospettive dovrebbero cambiare nel prossimo futuro? Per quali ragioni potremmo confidare, finalmente, nella possibilità di tradurre le buone intenzioni in atti concreti? In effetti, non sono solo istituzionali e politiche, ma innanzi tutto sociali e culturali – cioè ben radicate – le ragioni per le quali l’urbanistica è sempre meno rilevante per le sorti di società e ambiente. Una palingenesi improvvisa non è in alcun modo plausibile. Non è neppure vero, però, che la sola alternativa sia un’attesa paziente o rassegnata, comunque passiva. Io penso che sarebbe giusto richiamare gli urbanisti ad alcune minime responsabilità. Questo appello non emerge formalmente dal libro di Clementi, che preferisce adottare uno stile sobrio e composto (forse anche troppo educato), ma tutti gli elementi essenziali, a mio avviso, sono a disposizione del lettore: il quale potrebbe trarre autonomamente alcune conclusioni, come possibili prerequisiti del cambiamento auspicato.
Il primo passo è la revisione della funzione del plan-making alla scala urbana. Secondo i canoni del progetto moderno, era quella la responsabilità essenziale dell’urbanista. La pretesa sembrava giustificata dato il carattere impositivo e costituente di quello strumento di piano: che prefigurava, disegnava, regolava il futuro della città (o meglio presumeva di saper interpretare formalmente tali funzioni). Il piano comunale dei nostri giorni ha largamente perso una valenza prescrittiva e forse anche strutturale, per assumere una più limitata e intrinsecamente vaga funzione strategica (come mostra la più recente revisione legislativa della regione Emilia-Romagna). Non mi sembra lecito intendere questa posizione come una conquista. Infatti, l’esito è stato a lungo contrastato dalla cultura disciplinare, nella versione moderna come in quella riformista (basta ricordare le critiche severe alla concezione dell’urbanistica proposta da Luigi Mazza a fine ‘900, che oggi deve essere accettata, di fatto, come quadro di riferimento attuale e pertinente, forse il solo sostenibile). Alla fine, un po’ ovunque, gli urbanisti si sono adeguati a questa prospettiva, per necessità o per rassegnazione. Tuttavia, non è possibile sopravvalutare la rilevanza di un approccio strategico; tanto meno il suo potenziale innovativo, se è vero che si tratta di orientamenti altrove sperimentati da quasi mezzo secolo, con risultati che non sono mai stati esaltanti (come anche Clementi ha documentato). Questa forma di piano risulta per costituzione incompiuta. Un giudizio sulla qualità e sulla rilevanza dello strumento resta ampiamente indeterminato fino a quando non è possibile valutare alcuni complementi decisivi: nella forma di atti di policy-making, intese, progetti, interventi, cioè di un’idea di urbanistica come azione effettiva (non più, soltanto, regola o visione). Perché le regole sono deboli e la visione resta vaga fino a quando le operazioni non prendono corpo.
Il secondo passo riguarda la pianificazione d’area vasta, cioè quella che dovrebbe essere la visione al futuro di un territorio complesso. Tradizionalmente, la disciplina ha affrontato questo problema con un ventaglio di piani, a diversi livelli territoriali, con finalità di inquadramento spaziale, tutela ambientale e orientamento strategico. Questo repertorio raramente ha dato risultati convincenti. Le esperienze riformiste di fine ‘900 hanno provato a valorizzare varie forme di spatial planning, strategic spatial planning, scenario planning, a scala vasta, ma gli esiti (come ho anticipato) sono stati deludenti: in effetti, questi strumenti sono stati ovunque ridimensionati negli anni più recenti; persino cancellati, senza troppi rimpianti, in più di un contesto. Non capisco e non condivido l’orientamento dell’INU che, ragionando di nuovo sulle possibilità di una riforma nazionale (Urbanistica Informazioni, n. 305, settembre 2022) sembra voler riproporre ancora una volta i tradizionali livelli di piano. Non è importante che ogni ente di governo, in sostanziale autonomia, elabori la sua visione del territorio di competenza. La priorità, a mio avviso (ma ritengo che la prospettiva sia corroborata dagli esperimenti e dalle riflessioni di Clementi) è che sia potenziata la cooperazione inter-istituzionale fra i molteplici livelli, cioè la capacità effettiva di multilevel governance. Il tema essenziale della visione al futuro di un territorio articolato dovrebbe essere l’intesa inter-istituzionale su priorità politiche e grandi progetti condivisi, di chiara rilevanza transcalare. Credo che dovrebbe essere responsabilità precipua degli urbanisti rinunciare alla moltiplicazione di piani di carta, ma impegnarsi per una governance più articolata, legittima ed efficace.
Il terzo passo riguarda la realtà concreta dei progetti di trasformazione. L’analisi di Clementi documenta lo scarto desolante fra i buoni principi che hanno ispirato alcune visioni interpretative, critiche e progettuali, e le pratiche correnti che chiaramente privilegiano obiettivi più immediati di interesse materiale e facile consenso. La deriva del progetto urbano a me sembra imbarazzante negli ultimi tempi. L’Italia è il paese che nel secondo dopoguerra ha anticipato un filone originale e fertile di studi morfologici; che ha dimostrato nel lungo periodo, in forme diverse, ma comunque importanti (grazie a De Carlo e Gregotti, prima di tutti), i nessi essenziali fra urbanistica e progetto urbano. Oggi, le trasformazioni urbane in atto mi sembrano troppo spesso indegne di quelle tradizioni. Ho denunciato più volte, negli ultimi dieci anni, il caso di Milano: dove trasformazioni rilevanti – come City Life e Porta Nuova, ma altre situazioni sono in corso, con caratteri non dissimili – si configurano (dispiace dirlo) come un’accozzaglia di architetture occasionali e di varia qualità, senza un vero progetto urbano, tanto meno un progetto di suolo. Dove anche opere degne di interesse o di chiara fama soffrono per una varietà di limiti e problemi. Perché, per esempio, l’ultima torre di Cucinella, a Porta Nuova, trabocca letteralmente dal suo sito, e viene a collidere, visualmente, con gli edifici circostanti, accostati senza logica, né cura. E la vertical forest sarà un’opera di indiscusso successo mediatico, ma questa specie di zoo verde mi sembrerebbe giustificato in un’area ad alta densità, non all’interno di uno (pseudo)parco. Trovo anche singolare la facilità con la quale viene accettata una denominazione priva d’ironia e di misura. La letteratura ci ha lasciato alte voci sul tema «la foresta e la città» (Baudelaire, Rilke, Benjamin: il lettore frettoloso può consultare la post-fazione di Franco Rella a La foresta intelligente di Carlo Formenti, Cappelli, 1981). Nel caso milanese, invece, vertical forest sembra espressione degna del linguaggio e dello stile di «Open to Meraviglia»: sarà un segno dei tempi (si può dissacrare l’idea di foresta per raggiungere un effetto mediatico?). Prendere le distanze da questa deriva dovrebbe essere una responsabilità minima che la cultura urbanistica non dovrebbe eludere. Il discorso educato di Alberto Clementi non alza la voce su questi temi: rinuncia a sermoni o invettive, puntando sulla forza e sulla chiarezza delle argomentazioni. Mi sembra però che tutta la sua densa analisi ci spinga verso conclusioni simili a quelle che ho voluto proporre in quest’ultimo paragrafo.
Pier Carlo Palermo
N.d.C. - Pier Carlo Palermo è professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano dove ha fondato e diretto il Dipartimento di Architettura e Pianificazione ed è stato preside della Facoltà di Architettura e Società.
Tra i suoi libri: Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli, 2004); Innovation in Planning: Italian Experiences (Actar, 2006); con G. Pasqui, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, 2009); con D. Ponzini, Spatial planning and urban development (Springer, 2010); con D. Ponzini, Place-making and urban development (Routledge, 2015); Il futuro dell’urbanistica post-riformista (Carocci, 2022).
Per Città Bene Comune ha scritto: Per un'urbanistica che non sia un simulacro (5 febbraio 2016); Non è solo questione di principi, ma di pratiche (18 gennaio 2017); Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto (30 giugno 2017); Il futuro di un paese alla deriva (23 febbraio 2018); Oltre la soglia dell’urbanistica italiana (13 settembre 2019); Le illusioni del “trasnational urbanism” (22 maggio 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 SETTEMBRE 2023 |