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Lectio magistralis sulla pace Festival della Pace Brescia 10 novembre 2023
“Se la pace fosse un premio”: così ha intitolato Salman Rushdie il discorso di accettazione del premio per la pace che gli è stato assegnato dall’Associazione dei Librai tedeschi alla Fiera di Francoforte il 18 ottobre scorso.[i] Citando alcune fiabe della tradizione indiana, che hanno ispirato i suoi romanzi, lo scrittore afferma che i nostri valori più preziosi sono contingenti e pagati a caro prezzo. Salman, il nome che gli hanno dato i suoi genitori, vuol dire pacifico, ma la sua vita non lo è stata per niente. Rushdie ha pagato il prezzo della libertà di espressione in prima persona (dopo lunghi anni dopo la fatwa il recente attentato ha lasciato segni pesanti sul suo corpo). Nel suo discorso Rushdie parla di un racconto che ha in mente, ma non sa se lo scriverà dal titolo L’uomo che ricevette come premio la pace.
Lo scrittore immagina che in un piccolo villaggio, durante una fiera in cui si premiano le torte e il maiale più grasso, arrivi un venditore ambulante con un pastrano malandato su di una carrozza trainata da un cavallo. Il nuovo arrivato chiede di essere autorizzato a fare il giudice nella gara in quanto potrà offrire i premi migliori che si siano mai visti. Ai vincitori egli offrirà delle piccole bottiglie con l’etichetta: Verità, Bellezza, Libertà, Bontà, Pace. Gli abitanti del villaggio sono delusi, avrebbero preferito denaro contante. Negli anni successivi, capitano cose strane. Dopo aver bevuto il liquido nella bottiglia Verità, il vincitore inizia a dire che cosa pensa veramente dei suoi concittadini, che iniziano a allontanarsi da lui. La vincitrice della bottiglia Bellezza diventa più bella, ma insopportabilmente vanitosa. Il comportamento licenzioso del vincitore della Libertà colpisce i suoi amici. Chi ha bevuto dalla bottiglia Bontà si crede un santo e diventa insopportabile. Infine il vincitore della Pace non fa altro che stare seduto sotto un albero e sorridere, cosa irritante per un villaggio pieno di problemi. Il venditore ambulante ritorna per una nuova fiera e gli abitanti del villaggio lo cacciano, dicendo che non se ne fanno nulla di quei premi. Preferirebbero una rosellina, un pezzo di prosciutto, un formaggio, un nastro rosso con una medaglia.
Cosa vuol dire Rushdie? Ogni messaggio di pace ha qualcosa di fiabesco, di utopico, di ambiguo, in ogni caso di impossibile. Guardando al mondo vicino a noi, lo scrittore cita i due film che hanno sbancato il botteghino quest’estate. Oppenheimer ci ricorda che la pace del dopoguerra è venuta dopo due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Barbie che un mondo di pace e di felicità perenne esiste solo avvolto di plastica rosa.
Nonostante le sue perplessità, lo scrittore conclude che dobbiamo continuare a cercare ardentemente la pace. La mia interpretazione del suo tormentato discorso è che la pace è una scommessa, quella di bere dalle bottiglie del racconto non ancora scritto di Rushdie, le bottiglie della Verità, della Libertà, della Bellezza, della Bontà, insomma dello sforzo sempre rinnovato di umanizzazione dell’inumano.
Per questo motivo darò voce a due pensatrici, Hannah Arendt e Simone Weil. Dal centro delle catastrofi che hanno sconvolto il Novecento – le guerre mondiali, la Shoah, i totalitarismi – e continuano a gettare la loro ombra sul tormentato e non certo pacifico mondo attuale Arendt e Weil hanno guardato avanti, rifiutando di totalizzare il male e invitando a riflettere sulla ricchezza della realtà che offre un “panorama inatteso di azioni, sofferenze e nuove possibilità umane”.[ii]
Negli ultimi mesi di vita (morirà il 24 agosto 1943), Simone Weil fu infaticabile. Lavorò a Londra con France Libre, l’organizzazione sorta in esilio intorno a De Gaulle che preparava la ricostruzione della Francia e dell’Europa dopo la sconfitta del nazismo e scrisse alcuni testi politici tra cui il Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, pubblicato da Albert Camus nel 1949 con il titolo L’enracinement (La prima radice). In attesa di andare a Londra, dagli Stati Uniti, dove si era rifugiata con la famiglia dopo l’occupazione nazista della Francia, aveva inviato a Maurice Schumann un Progetto per una formazione di infermiere di prima linea, un gruppo di volontarie a cui affidare il compito di assistere i soldati direttamente al fronte, sul campo di battaglia. Questo progetto fu respinto da De Gaulle come una “follia”. Simone Weil lo presenta così:
“Il semplice persistere di un compito umanitario nel centro stesso della battaglia, nel punto culminante della ferocia, sarebbe una sfida clamorosa alla ferocia che il nemico ha scelto e che ci impone a sua volta. La sfida colpirebbe tanto di più perché a svolgere questi compiti umanitari sarebbero delle donne, e animate da una tenerezza materna. Di fatto queste donne sarebbero poche e il numero dei soldati di cui potrebbero occuparsi sarebbe proporzionalmente piccolo; ma l’efficacia morale di un simbolo è indipendente dalla quantità”.[iii]
Questa proposta può apparire visionaria, ma ci sfida ancora oggi. Puntiamo l’attenzione su due elementi: le infermiere sono donne e stanno “nel centro stesso della battaglia, nel punto culminante della ferocia”. Esse s’interpongono tra le due forze combattenti opposte, entrambe in preda alla logica della forza che non conosce limiti (Simone Weil parla altrove del male che si espande come un virus, infetta e corrompe per contagio, vittime e carnefici). Con la loro presenza in carne e ossa quelle donne rappresentano l’esistenza di un’altra logica, quella dell’aiuto e della compassione.
Simone Weil parla dell’ “efficacia morale”, aggiungerei politica, di un simbolo. E ha ragione: parlare di pace implica interrompere la logica degli opposti, dell’amico e del nemico, della forza e della debolezza che si sfidano sul campo di battaglia. Molto semplicemente, parlare di pace, desiderare la pace vuol dire passare di piano, alzare lo sguardo al bisogno degli esseri umani di riconoscersi nella loro umanità.
Negli scritti di Simone Weil troviamo vari approfondimenti di questa idea. Per esempio nel saggio Iliade poema della forza del 1939-1940.
Simone Weil nota che nell’Iliade, poema della forza che non risparmia né vincitori né vinti, accadono “miracoli […] rari e brevi”, nei quali dalla violenza trapela la luce dell’amore e del coraggio. Anche nel mezzo della guerra più atroce, che Omero guarda con “amarezza”, balugina improvvisamente un “altro mondo”, il “mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia”, dove le ancelle preparano un bagno caldo per Ettore che torna dalla battaglia e ai lavatoi si fa il bucato.
Uno di questi miracoli è l’amicizia che nasce tra Achille e Priamo, i “nemici mortali”, tra il vecchio re che supplica perché gli venga restituito il corpo del figlio ucciso in duello e il giovane eroe vincitore che si è vendicato dell’uccisione dell’amico Patroclo.
Succedono molte cose nella scena descritta da Omero. Priamo arriva nella tenda di Achille, cade in ginocchio e implora il giovane eroe, che esprime il suo disdegno per la sua supplica. Quindi i due piangono inconsolabilmente, ognuno chiuso nel suo dolore. Arriva poi il momento in cui si siedono a tavola, mangiano e si guardano l’un l’altro. Priamo ammira la bellezza di Achille, Achille si stupisce guardando il volto nobile e udendo la voce del vecchio re. Guardarsi l’un l’altro fa sparire la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso; cancella, miracolo ancor più grande, la distanza tra benefattore e supplice, tra vincitore e vinto. [iv]
L’ammirazione e la meraviglia dell’uno verso l’altro è nutrita dal riconoscimento che anche l’altro soffre, che paura, disperazione, rabbia non possono annientare una comune umanità.
Simone Weil trae dallo sguardo di Omero una lezione di umanità:
“Nulla di prezioso, sia o no destinato a perire, è disprezzato, la miseria di tutti è esposta senza dissimulazione o disdegno, nessun uomo è posto al di sotto o al di sopra della condizione comune a tutti gli uomini, tutto ciò che è distrutto è rimpianto. Vincitori e vinti sono ugualmente prossimi, sono i simili, allo stesso titolo, del poeta e degli uditori”.
È giusto chiedersi come possiamo vivere e mettere in pratica la lezione di umanità di Omero. Mi aiuta un’altra immagine, quella di un “miracolo” politico, breve, in molti modi smentito, ma che non dobbiamo dimenticare.
Molti anni fa ho letto su un quotidiano una frase pronunciata da Johann Joergen Holst, ministro degli esteri norvegese, artefice dell’accordo tra Israele-Olp sigillato il 13 settembre 1993, morto il 13/1/1994. Rabin fu ucciso il 4 novembre 1995. Probabilmente Holst si riferiva alle trattative condotte in una villa nel bosco vicina a Oslo, dove i diplomatici e i politici vissero insieme per alcuni giorni, condividendo, si suppone, i pasti e magari delle passeggiate e parla della
“voracità di parlare, di parlarsi, delle due parti. Parlare per esorcizzare l’odio, verosimilmente, parlare per sentirsi eguali. Parlare fino alla sfinimento”.
“L’incessante parlare continuamente ricondotto alle vicende e alle cose del mondo”” è al centro dell’idea di politica di Hannah Arendt ed è la pratica dell’“umanità in tempi bui”, come suona il titolo del saggio scritto nel 1959, dedicato a Lessing, illuminista atipico, polemista accanito, partigiano, arrabbiato e sferzante, distrutto dai tempi bui della Prussia autoritaria.[v] La pratica lessinghiana del dialogo e dell’amicizia era una pratica del dire la verità, della libertà di espressione, di un gusto per la discussione che non mirava ad avere ragione, ma, affrontando ciò che riguarda tutti, teneva costantemente conto del punto di vista di altri. Tale pratica consegna a noi la domanda della pace, dell’umanizzazione dell’inumano: com’è possibile agire e pensare umanamente in un mondo in cui dominano la disumanità, la stoltezza, l’ingiustizia? Arendt scrive:
“Il mondo non è umano perché è fatto di esseri umani, e non diventa umano solo perché la voce umana risuona in esso, ma solo quando è diventato oggetto di discorso… Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi solo parlandone e, in questo parlare, impariamo a diventare umani”.[vi]
In una conferenza tenuta nel 1955, Arendt dice con molta semplicità: “quel che è andato storto è la politica”, frase che suona spesso sulle nostre labbra in occasione dei numerosi conflitti intrattabili che ci tormentano. Ciò che è andato storto è ciò che gli esseri umani possono fare insieme, in presenza gli uni degli altri, legandosi sull’unica scena della loro esistenza, il mondo condiviso con i propri simili. Arendt allude a una politica che è energia di legame, relazione tra uomini e donne, abitanti di un mondo che esisteva prima della loro nascita e, si spera, esisterà dopo la loro morte. La storia dell’Occidente ha costantemente messo in pericolo e a volte distrutto le condizioni dello stare insieme. Arendt amava i detti popolari e i proverbi, usati spesso anche dai politici. Un suo saggio del 1950-51, intitolato Le uova alzano la voce, è dedicato alla massima “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, usata da Stalin a proposito della violenza levatrice della storia e ancora oggi da coloro che pensano che per combattere un drago bisogna trasformarsi in drago.
Il feroce realismo di chi pensa che “per fare una frittata bisogna rompere le uova” o che “quando si pialla cadono schegge e trucioli” non esclude che “le uova alz[i]no la voce” e invitino a riflettere sulla legittimità della “frittata”, ossia dell’affidamento una volontà cieca di potenza, di supremazia e di controllo e alle sue “sanguinose richieste all’umanità”.[vii]
L’idea arendtiana di politica richiama direttamente il rischio di essere umani in tempi di umana disumanità. Questo rischio è stato affrontato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani, proclamati solennemente nel 1948, cioè 75 anni fa. Anche la questione dei diritti umani fa parte del dibattito sulla pace e su di essa le vie di Arendt e di Weil (che morì mentre la guerra era in corso) s’incontrano.
Arendt affronta le “incertezze” dei diritti umani in alcune parti del celebre libro Le origini del totalitarismo. L’idea di una governance sovranazionale delle discriminazioni e delle ingiustizie si scontra a suo parere con la contraddizione tra “la nudità astratta dell’essere uomini e null’altro che uomini” e il meccanismo di inclusione/esclusione del diritto posto alla base dello Stato nazione che ammette al suo interno solo coloro che rientrano in una qualche categoria, appartenenza etnica, territoriale o altro.[viii]
“La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana […]. Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene esattamente l’opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile.”[ix]
“Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo”, e non ha avuto remore nel respingere in un nuovo stato di natura gli individui ridotti a una differenza priva di significato perché privata delle “comuni responsabilità umane”, ossia della possibilità di agire e di esprimersi in un mondo comune.[x]
Sono noti i giudizi presaghi delle future tragedie pronunciati da Arendt nei confronti del nuovo Stato ebraico istituito nel 1948 sul modello dello stato nazione e fatalmente legato alla creazione di nuovi rifugiati e apolidi privi di diritti, i Palestinesi. Arendt sapeva altrettanto bene che questo tipo di “soluzione” della “questione ebraica” era stata preceduta su scala molto più vasta dalla “partizione” di India e Pakistan nel 1947.
La lezione storica degli avvenimenti della metà del Novecento è ancora attuale. L’idea astratta dei diritti umani mette infatti di fronte alla precarietà della cittadinanza corrispondente in un mondo la cui crescente interconnessione non diminuisce, ma aumenta la disuguaglianza. Ed è sorprendente la risonanza delle idee di Arendt e di Weil su questo tema.
In uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato postumo, il Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Weil sostiene che i “diritti umani” non rappresentano una “proprietà” inalienabile dei singoli individui, indipendente da differenze etniche, culturali, sessuali, economiche e sociali, e quindi un “diritto” da rivendicare, ma sono gli individui che compongono una comunità politica a garantire l’umanità degli esseri umani, sentendosi obbligati verso i bisogni concreti, fisici e morali, di ogni singolo altro.[xi] Ogni essere visto nella sua inermità e vulnerabilità è “sacro”,[xii] ed è la radice di una universalità dell’umano fondata su una sorta di accordo o di sensibilità comune tra culture e tradizioni anche lontane nel tempo e nello spazio e corrispondente al dovere di ogni individuo (mai di un collettivo) di rispettare l’altro riconoscendogli un fondo assoluto, eterno e intangibile di umanità.
Nella pace si gioca l’umanità degli esseri umani e tale umanità, come insegnano Arendt e Weil, è un obbligo per quanto non stipulato nei confronti dell’umanità degli altri, perché la libertà e la capacità di agire, la verità, la bontà e la bellezza acquistano valore solo in un mondo condiviso, ossia in uno spazio pubblico creato e sostenuto dall’energia delle relazioni e reso durevole da istituzioni che salvaguardino la scena terrena della nostra esistenza.
Le pensatrici hanno sottratto il concetto di umanità ai sogni degli umanisti e ai ragionamenti dei filosofi e l’hanno reso di stretta attualità politica. Il debito di umanità nei confronti di coloro con cui condividiamo il mondo invita a pensare la pace, a pensare il futuro e rappresenta un potente dispositivo di contrasto con l’esperienza contemporanea di un presente e di un futuro sull’orlo della catastrofe, che oggi assume le sembianze del pericolo atomico, del perpetuarsi di guerre combattute con sofisticati strumenti tecnologici, di un pianeta inabitabile per la specie umana.
[i] Vedi S. Rushdie, “If Peace were a Prize”, The New Yorker,31 ottobre 2023.
[ii] H. Arendt, “Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere)”, in Archivio Arendt 2. 1950-1954, tr. it. di P. Costa, Feltrinelli 2003, p.88.
[iii] S. Weil, “progetto di una formazione di infermiere di prima linea”, in Pagine scelte, a cura di G. Gaeta, Marietti 1820, Genova 2009, pp. 155-164.
[iv] Vedi S. Weil, “L’”Iliade” poema della forza “, tr. it. in La Grecia e le intuizioni precristiane, a cura di M. Harwell Pieracci e C. Campo, Borla, Roma 1984, pp. 14-5, p. 32, p. 34.
[v] H. Arendt, L’umanità in tempi bui, tr,it. di L. Boella, Cortina 2006.
[vii] H. Arendt, “Le uova alzano la voce”, in Archivo Arendt 2, cit., pp. 49-51. Il titolo richama una poesia di Randal Jarrell. A proposito della ”pseudo-saggezza” dei proverbi popolari, Arendt afferma che si tratta in genere della “cristallizzazione di una lunga tradizione di autentico pensiero filosofico o teologico”.
[viii] Vedi H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr.it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 402.419. p. 412.
[xi] S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano (1949), tr. it. di F. Fortini, SE, Milano 1990, p. 53, pp. 13-45.
[xii] Vedi S. Weil, La persona e il sacro (1943), tr. it. di M.C. Sala, Adelphi, 2012.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 27 NOVEMBRE 2023 |