Da “Corriere della Sera” del 19.11.2023
“Non c’è crisi, ma un senso di abbandono più forte che mai”, scrive così Maria Zambrano, filosofa spagnola, nel 1958. Lo scrive da un esilio ventennale, lontana da una patria franchista.
Quel che colpisce di un testo che spera in una società capace di vedere la propria crisi non è tanto la natura di rivelazione della crisi - e delle complessità delle nostre convivenze e prospettive (troppo spesso ci giungono parole e relative etimologie come fossero soluzioni magiche e non possibili vie di accesso a più profonde ricerche sulla cultura e sull’esperienza) – quanto il ricorso alla parola abbandono.
Anzi: in spagnolo troviamo proprio orfandad. E le parole sono importanti, soprattutto se difficili da tradurre. Muovono cura e domande.
In italiano si direbbe orfanilità: individua la mancanza di quei legami fondanti che mettono al riparo da solitudini senza guida e riferimenti affettivi. Zambrano non parla di una nudità esistenziale; invita ad evitare astrazioni o a confidare in definizioni perentorie. (Nella crisi il già pensato è più facile).
Orfandad non è parola astratta; la sua inquietudine fa addentrare nella mancanza, nel suo carattere di privazione, quasi di rapimento. Viene sottratta una visione (è affine la mancanza di chi sia orfano a quella di chi sia “orbato”, privo, finanche della vista).
Cosa, dunque, non si vede in una crisi? Cosa manca, tanto da disorientare? Il problema sembra porsi nell’assenza di legami concreti: affettivi, relazionali, rispetto alle circostanze e al tempo.
Il senso di abbandono è una sofferenza connessa alla difficoltà di visione di nessi e alla mancanza di sensazioni ed emozioni di connessione. Ciò da cui ci si sente strappati è una dimora comune che faccia senso intorno.
Non è facile riconoscere i dolori altrui, non solo per assuefazione mediatica. Sappiamo che anche gli altri soffrono, ma questi occupano uno spazio della nostra esperienza dove noi li poniamo e da cui non reclamano più; non ci chiediamo: “ma mi riguarda?”
Ancora questione di sguardi, reciprocità, cura e ricerca.
La nostra orfandad non è astratta se siamo perduti o spaventati da scenari di guerra, malattie, incognite planetarie. Lo sguardo interroga il senso nelle questioni reali, fatte di corpi e sentimenti. Può diventare (lo si può insegnare) “devozione per i labirinti della realtà nascente”, osservando ciò che è lontano. Da lì sentiamo cosa ci muove e verso dove e se ci commuove
Se la crisi è abbandono dei nessi, il riguardo può aiutare ad avvicinarci a ciò e a chi è distante, anche quando si tratti di noi stessi. Quel vuoto ha bisogno di cura. Simone Weil la chiamava attenzione.
Emanuela Mancino
Insegna filosofia dell’educazione presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa” – Università degli Studi di Milano-Bicocca, è membro del Comitato Etico della Fondazione Veronesi e del Comitato Culturale della Casa della Cultura. E’ direttrice della Scuola di Scrittura autobiografica della Casa della Cultura e della Scuola di Sguardo, Scrittura e Bellezza presso il Convento dei Cappuccini di Monterosso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 26 NOVEMBRE 2023 |