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Da tempo al lavoro sulla figura di Piero Bottoni, in questo nuovo volume della collana “Quaderni dell’Archivio Piero Bottoni” – Il design prima del design. Piero Bottoni e la produzione di mobili in serie in anticipo sulla società dei consumi (La Vita felice, 2023) –Giancarlo Consonni affronta il tema della produzione (proto-)industriale di mobili dell’architetto milanese attingendo alle fonti dell’Archivio Piero Bottoni (DASTU-Politecnico di Milano), oltre che alla sua approfondita conoscenza dell’opera di Bottoni. Il panorama delineato completa non solo la vicenda professionale di quest’ultimo, ma dà più luce alla vicenda culturale dell’arredo italiano, quasi sempre indagata solo nell’ambito storiografico del design(1).
Una premessa da sottolineare è come il progetto dell’arredo di Bottoni, pur tentando di scardinarne i limiti, si scontri con il contesto culturale e socioeconomico in cui egli opera. Fino al secondo dopoguerra, pur disponendo di produzioni industriali autoctone per lo più a gestione familiare, l’Italia non dispone infatti di mezzi e tecnologie – come la contemporanea industria statunitense – per avviare una reale produzione di massa per i mobili e per di più connotata da quel «nuovo criterio economico, la possibilità di una standardizzazione precisa, e perciò di un diffuso benessere specie nelle classi medie», auspicato dal critico Edoardo Persico(2). Diverse sono le sperimentazioni relativamente agli arredi per ufficio come quelli, in buxus e legno, per il Palazzo Gualino a Torino (1928-30) di Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini, quelli metallici per la Casa del Fascio a Como (1928-36) di Giuseppe Terragni o le serie in tubo metallico, d’impronta razionalista, messe a punto da piccole e medie aziende come Cova di Milano (che produce alcuni arredi di Agnoldomenico Pica), Emilio Pino di Parabiago (per la quale Gabriele Mucchi disegna una serie di mobili fra il 1934 e il 1936), SIAM di Torino (per cui è Pagano a progettare alcuni arredi), Columbus, marchio per i mobili della ditta metallurgica A. L. (Angelo Luigi) Colombo di Milano (che realizza le sedute per la sala del direttorio del Palazzo comasco del fascio) e Olivetti Synthesis, fondata nel 1930 quale branchia di Olivetti per i mobili da ufficio (suoi una serie di schedari e il supporto E1 per macchina da scrivere). Se nell’esempio degli uffici Gualino si può parlare di un «artigianato in serie», cioè di una produzione di piccoli numeri affidati alla perizia artigianale – che ha sempre contraddistinto il nostro Paese, specie nell’arredamento –, negli altri casi si tratta comunque di produzioni in serie dalla portata limitata, non solo nei numeri effettivamente realizzati, quanto per la reale distribuzione nel mercato nazionale, il cui pubblico non è ancora pronto ad accettare elementi d’innovazione, se non – al massimo – negli ambienti di lavoro.
Educare la platea nazionale, ancorata a una cultura dell’abitare tradizionale o di stampo umbertino, al «nuovo gusto» della modernità – che implica ordine, funzionalità e una «nuova e antichissima bellezza», come scrive Bottoni nel 1932(3) –, è quanto si propone la generazione di autori come Pagano, Persico e Bottoni. Allo stesso tempo, l’auspicio è giungere a una produzione seriale di qualità e a basso costo per far accedere facilmente quella platea a una diversa idea di abitare. Più che le realizzazioni destinate a un’élite e non sempre note al pubblico tramite la stampa specialistica, sono le esposizioni temporanee a costituire le migliori occasioni per diffondere ai contemporanei la modernità nell’arredamento, oltre che nell’architettura. Bottoni vi partecipa sovente e con l’intento dimostrativo di una diversa concezione abitativa.
Già nel 1930, nella IV Esposizione delle Arti Decorative e Industriali, nella «Casa elettrica» costruita nel parco della Villa Reale di Monza da alcuni componenti del Gruppo 7(4) e da Bottoni, quest’ultimo ha modo di prospettare nel progetto della cucina un’altra modalità d’abitare. Più che un debito con la popolare Frankfurt Küche (1926-28) di Margarete Schütte-Lihotzky, lo spazio e gli arredi di Bottoni mostrano un’affinità con l’ambiente borghese ideato da Bruno Taut per la sua casa a Berlino-Dahalewitz (1926-27). In entrambi i casi, la cucina appare come un meccanismo complesso: non è solo organizzata scientificamente secondo le modalità indicate tempo addietro dalla giornalista Christine Frederick(5), che tante eco hanno negli Stati Uniti e in Europa, ma, in Taut, è distinta dal pranzo da un ridotto office di servizio e, in entrambi, comunica con l’ambiente dei lavelli tramite un mobile a doppia faccia. Sia in Taut sia in Bottoni, la cottura dei pasti è a sua volta disgiunta dall’area di pulizia, che può fungere anche da lavanderia: si separa cioè «una “cucina sporca” dalla “cucina pulita”, preoccupandosi dei rapporti funzionali tra queste due parti e la zona pranzo, e quindi dei percorsi di andata e ritorno delle stoviglie»(6). Il progetto del percorso più breve da una parte all’altra dello spazio è, quindi, essenziale alla sua riuscita.
L’idea di una cucina accessibile ai più non è però solo limitata – almeno in Italia – dal costo di mobili e dalle attrezzature elettriche, ma si scontra con il modello di casa borghese di influenza vittoriana che Taut e Bottoni in definitiva propongono: in entrambi i progetti, l’ambiente è compartito in area preparazione e cottura e in scullery (retrocucina; per Bottoni è l’area dell’acquaio). Se Taut vi aggiunge pantry (dispensa), ghiacciaia e ripostiglio per il carbone, Bottoni pone invece nell’immediata adiacenza la «camera per la donna», cioè per la domestica che si dovrà occupare dei pasti e della pulizia delle stoviglie. In altre parole, la meccanizzazione del lavoro domestico – tanto propugnata dagli alfieri del taylorismo nella casa, ma vero inganno per la «liberazione della donna» dalle faccende domestiche – si accompagna alle «virtù» della famiglia borghese, la cui sussistenza è affidata alle cure di figure ancillari o, laddove l’economia familiare non lo consenta, a quelle della padrona di casa. Dal punto di vista architettonico, nelle proposte di Taut e di Bottoni sembrano quindi risuonare le raccomandazioni per l’organizzazione della cucina(7) fornite dall’architetto Robert Kerr nel noto manuale The Gentleman’s House (1864), un sentito omaggio alla figura del «gentiluomo» quale unico proprietario di casa, e sua legittima guida morale e pratica, e alle (sottaciute, ma evidenti) discriminazioni fra generi e ceti sociali su cui la residenza vittoriana è impostata.
Con il disegno degli arredi della cucina della «Casa elettrica», d’altra parte, Bottoni – scrive Consonni (pp. 8-9) – «approda a una giocosità trasognata e a un’aria sognante che si fanno insieme sentimento della casa e interpretazione dello spirito del tempo», visibile soprattutto nella prospettiva a colori che illustra il libro. I mobili della cucina presentano un’uniforme laccatura in colore grigio-azzurro, lo zoccolino e i ripiani in linoleum, mentre le porte sono rivestite in tessuto gommato lavabile e il pavimento è in ceramica – una tonalizzazione lucido/opaco espressiva dell’idea del nuovo gusto che l’architetto intende perseguire.
L’influenza borghese nell’arredamento e nell’organizzazione dello spazio è via via ricusata da Bottoni nell’affrontare il tema dell’alloggio di dimensioni ridotte secondo il credo dell’existenzminimum che, sancito dal II Congrès international d’architecture moderne (CIAM, 1929) e dalla mostra Die Wohnung für das Existenzminimum coordinata da Ernst May, attraversa l’Europa come una corrente rinnovatrice, a cui non si può non sottostare. Nel 1933, alla V Triennale di Milano, fra le trentatré case-modello realizzate nel Parco del Sempione solo le soluzioni di Bottoni con Enrico A. Griffini affrontano realmente il tema dell’abitazione economica e riducono ulteriormente le dimensioni già esigue proposte per l’ambiente di servizio da Schütte-Lihotzky. Nell’alloggio (III) per due persone, la compressione spaziale gioca con il disvelamento mediante una cortina tessile fra l’area giorno e quella notte, illudendo gli abitanti di una più generosa superficie. La cucina è in nicchia, formata solo da acquaio e fuochi e un piccolo piano di lavoro a mezzaluna, ribaltabile sotto la finestra. Gli altri arredi in legno della casa hanno un rigore elementare, ma non sono organicamente composti nello spazio, piuttosto appaiono come elementi disgiunti, da ordinare su un ipotetico catalogo a seconda delle proprie disponibilità economiche. Nell’alloggio (VI) per quattro persone è invece replicato, quasi pedissequamente il prototipo della «Cucina di Francoforte», riducendone però al minimo le attrezzature fisse. Ben più interessante, il blocco delle vasche del lavatoio comune – illustrato nel libro con una foto dall’alto e un disegno di pianta – che disegna con pochi elementi, ripetuti e giustapposti fra loro, un’ardita composizione spaziale, che sembra spezzare le catene dello scientismo per porsi piuttosto avanguardisticamente come un’opera à la Sol Lewitt.
Il rigore elementarista corre anche negli arredi delle quattro case per vacanza, presentate alla medesima V Triennale, progettate da Bottoni con Griffini ed Eugenio Faludi. L’ambiente domestico è semplicemente scandito da pareti, che si arricchiscono di contenitori a muro (altro retaggio dello standard «minimo»), a cui fanno da contrappunto i contenitori bassi e i rigidi tavoli da pranzo. La semplicità dei mobili proposti è certamente coerente con l’idea di produzione in serie a cui l’architetto tiene e, a tal proposito, Consonni riporta alcune note da un dattiloscritto dell’architetto (Distinta prezzi per la merce proposta alla Triennale di Milano), che fanno intuire il suo legame con il mercato e la fattibilità alla produzione e alla vendita di quanto esposto.
Nella VI Triennale di Milano (1936), Bottoni s’impegna nell’arredamento di due uffici che, scrive Consonni (p. 10), «vedono l’estensione della ricerca ad ambienti non domestici, con l’invenzione […] di architetture d’interni in sintonia con l’affacciarsi di nuovi stili di vita». Gli arredi presentati sono decisamente più interessanti di quelli domestici, prevedendo per l’«ufficio per piccole aziende a orario unico» un contenitore che, aperto, funge anche da piano per consumare i pasti (e qui l’adesione al meccanicismo esistenziale dell’epoca si fa evidente: il dipendente non ha modo di desinare fuori dal posto di lavoro). Compaiono anche delle sedute in tubo metallico (i primi studi di Bottoni risalgono al 1929), progettate con Mario Pucci, che riecheggiano le ricerche sul tipo «cantilever» di Mart Stam e Ludwig Mies van der Rohe prima, in parte presentate al Werkbundsiedlung am Waissenhof a Stoccarda (1927), e di Marcel Breuer poi. I prototipi di Bottoni sono realizzati dalla citata azienda Columbus, per i quali Consonni suppone che Bottoni e Pucci immaginassero una produzione in serie. Del resto, Bottoni ha in quegli anni e nei successivi contatti anche con altre aziende, come gli Établissements Raymond Carpe Sièges et Mobilier metalliques, la Fabbrica Italiana Mobili Curvati Beltrami, la Thonet France; se con le prime due la collaborazione porta alla messa a punto di arredi singoli per commesse private, con quest’ultima l’ideazione dei tre oggetti concordati per la produzione in serie non arriva alla realizzazione. È del resto l’ingrato destino di altre proposte dell’architetto in molte occasioni.
Maggior fortuna hanno gli arredi per gli appartamenti di privati, dove l’estro di Bottoni trova liberamente espressione (si veda, per esempio, lo straordinario tavolo da pranzo per casa Minerbi a Ferrara) secondo un «motivo musicale» per Persico, puntualmente riportato da Consonni (p. 22). Ma queste avventure sono frutto di un’élite borghese, culturalmente aggiornata, e dalle potenzialità economiche ben diverse dagli abitanti delle «case minime». A quest’ultimi avrebbe forse dovuto rivolgersi la Società K.N., il cui piano di fattibilità è immaginato da Bottoni nel 1936, al termine della VI Triennale di Milano: un vero programma di produzione, marketing, vendita, capace di dar vita a una filiera creativa – con il coinvolgimento di altri progettisti – e a proposte di design, di cui però non vi è traccia di realizzazione. Riverberi di quell’esperienza compaiono, d’altra parte, nella Società Anonima Ar-Ar, fondata nel 1941, che, pur se dalla breve esistenza (poco più di un anno), rappresenta un interessante esercizio di rinnovamento dell’arredamento, a cui Bottoni partecipa con Franco Albini, i BBPR, Ignazio Gardella, Gabriele Mucchi, Giuseppe Pagano, Giancarlo Palanti, Mario Pucci e Giovanni Romano. Le proposte variano da mobili singoli ad arredi integrali di stanze, ma l’impresa si scontra con il periodo storico (nel 1940 l’Italia entra in guerra), le difficoltà economiche e di realizzazione, la difformità delle proposte, che non si caratterizzavano per uniformità di sensibilità estetica, come sarà per la più fortunata impresa di Azucena.
Nel 1944, Bottoni partecipa anche all’esperienza dell’A.P.E. Società per lo sviluppo e l’esportazione delle produzioni artigiane, ma nonostante lo sforzo profuso per l’iniziativa (circa un’ottantina di progetti di mobili singoli), anche questa non va a buon fine. In ultimo, le impegnative problematiche poste dall’ideazione e dalla realizzazione del programma del quartiere dimostrativo QT8 a Milano (1946-56), diretto da Bottoni e supportato dal Ministero dei Lavori Pubblici, lo conducono a dare la precedenza a tale progetto, mentre la storia del design italiano ha durante la seconda metà degli anni Cinquanta un punto di svolta, imprenditoriale quanto creativo, grazie al boom economico, il cui inizio è lumeggiato dalla X Triennale di Milano (1954).
Al di là dell’ampia documentazione archivistica offerta dal volume, le conclusioni di Consonni a fine testo sottolineano le difficoltà del mestiere dell’architetto Bottoni quando cerca di proporre le proprie idee per la produzione corrente nel tentativo di forzare un sistema di valori estetici e d’uso acquisito così come, al tempo stesso, di affrontare le difficoltà economico-produttive del Paese per il mercato dell’arredamento, dagli anni Trenta ai Cinquanta. Di fatto, i mobili più noti di Bottoni sono quelli progettati per la committenza borghese, per lo più in un numero limitatissimo di pezzi, venduti oggi a caro prezzo nelle aste internazionali: nella italiana battaglia fra «La serie e il pezzo unico»(8) sembra cioè essere prevalso il secondo nel riconoscimento attuale dell’avventura progettuale di Bottoni. Questo libro ne testimonia, d’altra parte, l’impegno e la caparbia con cui l’architetto milanese ha perseguito nonostante le tante difficoltà l’ideale di un arredo «per tutti».
Imma Forino
Note 1) Per l’area italiana si vedano: P. Fossati, Il design in Italia, 1945-1972, Einaudi, Torino 1972; Il disegno del mobile razionale in Italia, n. monogr., «Rassegna», a. II, n. 4, 1980; V. Gregotti, a cura di, Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, Electa, Milano 1982; A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, Laterza, Roma-Bari 1993; A. Branzi, Introduzione al design italiano. Una modernità incompleta, Baldini & Castoldi, Milano 1999; R. De Fusco, Made in Italy. Storia del design italiano, Laterza, Roma-Bari 2007; F. Bulegato, E. Dellapiana, Il design degli architetti italiani, 1920-2000, Electa, Milano 2014; D. Dardi, V. Pasca, Manuale di storia del design, Silvana, Milano 2019. 2) E. Persico, Mobili in ferro, in «La Casa bella», a. VIII, n. 34, ottobre 1930, p. 9. 3) P. Bottoni, Uffici moderni, in «Edilizia Moderna», a. X, n. 5, aprile 1932, p. 17. La riflessione dell’architetto è relativa agli uffici «moderni» tedeschi. 4) Il Gruppo 7 è costituito nel 1926 da Luigi Figini, Gino Pollini, Guido Frette, Adalberto Libera, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava e Giuseppe Terragni. Al progetto della «Casa elettrica» partecipano i primi quattro architetti dell’associazione. 5) Il suo manuale più noto è C. Frederick McGaffey, The New Housekeeping. Efficiency Studies in Home Management, Doubleday, Page & Co., Garden City NY 1913. 6) M. Romanelli e M. Laudani, Appunti per una storia italiana, 1928-1957, in M. Romanelli, M. Laudani, L. Vercelloni, a cura di, Gli spazi del cucinare, Electa, Milano 1990, p. 21. 7) R. Kerr, The Gentleman’s House: Or, How to Plan English Residences, from the Parsonage to the Palace; with Tables of Accommodation and Cost, and a Series of Selected Plans, J. Murray, London 1864; Johnson Reprint, London e New York 1972, pp. 204-205. 8) G. Ponti, A. Fornaroli, La serie e il pezzo unico, in «Domus», a. II, n. 227 (numero speciale), 1948, p. XXI.
N.d.C. – Imma Forino è professoressa ordinaria di Architettura degli Interni e Allestimento presso il Politecnico di Milano. Le sue ricerche si incentrano soprattutto sugli spazi interni e l’arredamento secondo una prospettiva spaziale e storiografica che considera fondante per il settore disciplinare la «vicenda umana nel quotidiano». In quest’ambito assume prioritaria importanza lo studio delle relazioni di potere e dei dispositif architettonici e arredativi con cui esse vengono attuate nel corso della storia.
Fra i suoi libri: L’interno nell’interno. Una fenomenologia dell’arredamento (Alinea, Firenze 2001); Eames, design totale (testo&immagine, Torino 2002), George Nelson, thinking (testo&immagine, Torino 2004); Uffici. Interni arredi oggetti (Einaudi, Torino 2011-Premio Biella Letteratura e Industria per la saggistica 2012); La cucina. Storia culturale di un luogo domestico (Einaudi, Torino 2019); (con F. Berlingieri, E. Corradi e C. Cozza) Yasmeen Lari. An Architect (Springer, Milano 2021). E le curatele: (con B. Bonfantini) Urban Interstices in Italy. Design Experiences (LetteraVentidue, Siracusa 2021); (con M. Bassanelli, L. Lanini e M. Lucchini) Per una Nuova Casa Italiana. Prospettive di ricerca e di progetto per la post-pandemia (Pisa U.P., Pisa 2023); (con M. Bassanelli) Gli spazi delle donne. Casa, lavoro, società (DeriveApprodi, Bologna 2024); (con A. Lefebvre, A. Markovics e A. Viati Navone) Les intérieurs aujourd'hui. Analyses, projets, usages (P.U. de Septentrion, Villeneuve-d’Ascq 2024).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 23 FEBBRAIO 2024 |