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La città invisibile è un ossimoro. Come può essere invisibile, infatti, se è il luogo di massima espressività, dove si manifestano le tendenze della società? Eppure proprio quest’ossimoro rende affascinante il tema e ci spinge ad indagarlo. Possiamo farlo prendendo in mano due libri molto diversi. Il capolavoro di Italo Calvino, Le città invisibili (Einaudi, 1972), che contiene una cinquantina di immagini fantastiche raggruppate secondo alcune parole chiave: la città dei desideri, della memoria, degli scambi, dei segni ecc. Questa catalogazione impegnò molto l’autore, tanto che utilizzò i giochi dell’arte combinatoria e apportò diverse correzioni, come si vede ancor oggi nelle bozze del suo archivio. Oppure il libro curato da Alessandro Balducci, La città invisibile. Quello che non vediamo sta cambiando le metropoli (Feltrinelli, 2023) dove sono raccolti i contributi di diversi esperti configurandosi come lo studio di una ventina di fenomeni ancora invisibili, appunto, che però stanno modellando, nel bene e nel male, la città del futuro.
Anche Balducci, nel saggio conclusivo, propone diverse chiavi di lettura dei fenomeni. A cominciare dal più semplice, per argomento. Così abbiamo le città invisibili delle disuguaglianze, troppo a lungo sottovalutate, dell’immateriale, come il digitale che pure performa lo spazio e la vita urbana, dell’opacità di governo che ostacola la comprensione e quindi la partecipazione dei cittadini. È una classificazione semplice, ma già compone un’agenda di governo, che sarebbe utile se il nostro Paese decidesse di darsi una politica nazionale per le città, come si fa in Europa.
Poi il curatore propone due chiavi più raffinate. La prima considera l’invisibile come un difetto di percezione: quando, in sostanza, non vediamo ciò che dovrebbe essere acclarato. Per esempio, il saggio di Simona Giampaoli rileva a Roma un tasso di mortalità a Tor Bella Monaca più alto del 25% rispetto all’area dell’Auditorium. Con la prevenzione in periferia si potrebbero evitare 4500 morti l’anno, lo stesso numero del Covid, ma questa epidemia della povertà non suscita lo stesso clamore dell’epidemia del virus. Tant’è che non ne avete mai avuto notizia al telegiornale della sera. La seconda si fonda sul fatto che l’invisibile necessita di un disvelamento, al fine di rimuovere gli interessi che vorrebbero mantenere l’opacità. Per esempio, la rendita immobiliare che si valorizza in virtù di deliberazioni comunali o di miglioramenti delle infrastrutture pubbliche, ma viene incamerata senza merito dai proprietari, creando una ricchezza privata e una povertà pubblica, come dimostra il saggio di Mike Raco. Di conseguenza, nelle città per ampie fasce di popolazione è difficile trovare un alloggio, soprattutto le giovani coppie sono in difficoltà.
Queste due chiavi di lettura dell’invisibile indicano il da farsi; i problemi della percezione richiedono adeguate policies; quelli del disvelamento, invece, invocano l’autorevolezza di una politics per rimuovere la resistenza degli interessi.
Nella lingua italiana non c’è la chiara distinzione tra policy e politics, ma abbiamo qualcosa di più importante: un articolo della Costituzione dedicato proprio al disvelamento: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Proprio il disvelamento suggerisce di pensare insieme il Visibile e l’Invisibile, prima distinguendoli e poi mettendoli in relazione.
Nella distinzione il Visibile è legato alla conoscenza. Quando i saperi hanno già chiarito i problemi si dovrebbe passare alle soluzioni. Per esempio, il saggio di Roberto Mezzalama ci dice che se continuiamo a non far niente, nel 2050 il clima di Roma si avvicinerà a quello dell’area che fu di Cartagine, con enormi sconquassi per il Mare Nostrum. E papa Francesco ha persino richiamato il nesso con la giustizia sociale sottolineando che a pagare maggiormente saranno i più poveri.
L’Invisibile, però, non va considerato il lato negativo della distinzione, anzi è una risorsa, e indica soggetti troppo a lungo ignorati che, invece, possono arricchire le relazioni sociali. A cominciare dai giovani, come ha spiegato bene Paola Piscitelli nel suo bellissimo saggio. Un discorso analogo per gli anziani è sviluppato nel testo di Flavia Martinelli e Costanzo Ranci.
Quindi il binomio Visibile-Invisibile definisce i due requisiti essenziali del buongoverno: cogliere i frutti della conoscenza e avere riguardo per la molteplicità dei soggetti sociali. Dalla loro combinazione scaturiscono tutti i possibili scenari. Se mancano sia la conoscenza sia la molteplicità, cioè se vengono meno sia la Visibilità sia l’Invisibilità, rimane solo la cieca amministrazione che si occupa di gestire l’esistente. Questo livello zero del governo, purtroppo, è maggioritario nel nostro Paese, a livello locale e nazionale.
Se il Visibile e l’Invisibile sono presenti, ma in un rapporto sterile tra loro, allora entrambi si impoveriscono. Diventano due separati in casa. La conoscenza si riduce a mera tecnica che alle volte produce mirabolanti progressi, ma nasconde la visibilità nei suoi misteriosi algoritmi. E la molteplicità viene ricacciata in una marginalità impotente, in un’invisibilità irredimibile. Di questo rapporto sterile tra Visibilità e Invisibilità si danno molti esempi nel libro. Mara Ferreri cita l’algoritmo per le locazioni che, di fatto, esclude le persone povere. Pierre Filion dimostra come un’infrastruttura mal progettata può illuminare un quartiere e oscurarne un altro. Agostino Petrillo spiega bene come le élite attribuiscano alle periferie le narrazioni dell’invisibilità. Ancora oggi lo stereotipo mediatico di Corviale oscura la vivacità delle sue associazioni culturali e mutualistiche. La vita che, di fatto, in esso avviene.
La sterilità tra Visibile e Invisibile, quindi, crea una frattura tra logica di sistema e forma di vita, tra compatibilità tecnico-economiche e bisogni reali, tra provvedimenti governativi ed eccedenza di umanità popolare che trabocca i contenitori normativi, tra narrazioni che certificano la visibilità delle classi dirigenti e i lapsus della visibilità, come li chiamava Michel de Certau, che suscitano l’Invenzione del quotidiano (Edizioni Lavoro 2001, p. 157). Questa incomunicabilità svuota soprattutto il lessico politico. Come dice Walter Siti: “Non so immaginare un borgataro riformista” (intervista di E. Ilardi, in M. Ilardi, E. Scandurra, Ricominciamo dalle periferie, manifestolibri, Roma 2009, p. 141).
Rimane da esaminare allora l’ultimo scenario, quello che ci è più caro e che coltiva una speranza. Quando Visibile e Invisibile non solo sono presenti, ma instaurano una relazione tanto feconda tra loro da esserne trasformati. Il Visibile perde la propria sicumera e accoglie il nucleo di verità dell’Invisibile; l’Invisibile esce dalla marginalità e propone una nuova idea di visibilità. Si genera così un reciproco riconoscimento, e la conoscenza è messa a frutto nella molteplicità dei soggetti sociali.
Il riconoscimento è una forma di apprendimento sociale, è l’invenzione di nuove visioni che scaturiscono dall’interazione tra gli invisibili. L’apprendimento sociale, in altre parole, è la politica più urbana che ci sia. Quando le persone si prendono cura di un luogo, tra loro si rinnova anche il legame di cittadinanza. È come ritrovarsi in quella piazza che avevano scelto per darsi un appuntamento. Claudio Calvaresi, nel suo stimolante saggio, dice che gli spazi urbani sono il corpo docente. Allora bisogna prendersi cura innanzitutto delle scuole, non solo per l’istruzione dei giovani, ma come i centri della vita pubblica. I loro spazi dovrebbero essere aperti giorno e sera per tutte le generazioni, costituirsi come laboratori dell’apprendimento. È nato un movimento di scuole per la pedonalizzazione delle rispettive strade. Questo perché le scuole sarebbero i luoghi dove dismettere la fretta e coltivare la relazione tra scuola e città.
Anche l’Università può fare molto per alimentare l’apprendimento sociale: un contributo viene dal libro curato da Balducci. Non solo, c’è una nuova generazione di ricercatori sociali che sentono il bisogno di confrontare le teorie con la vita dei quartieri. E lì incontrano giovani attivisti urbani, e insieme animano nuove esperienze sociali. Questo connubio tra ricerca e azione Illumina la periferia - per usare il bel motto della Caritas richiamato da Giustino Trincia - e alimenta una sorta di ironia della rigenerazione, cioè pratiche di creatività urbana che inventano nuove vocazioni dei luoghi e si fanno beffe delle funzioni precedenti. Per esempio, a Roma c’è ironia nella street-art che colora le facciate anonime delle borgate. C’è ironia negli orti urbani promossi dall’associazione Zappata Romana che salva terreni dall’edificazione di nuovi centri commerciali. C’è ironia nel Museo dell’Altro e dell’Altrove che espone arte contemporanea proprio in una fabbrica di prosciutti abbandonata, senza sfigurare con il prestigioso MAXXI. C’è ironia nei coworking dell’immateriale realizzati nelle officine dove si batteva il ferro. C’è ironia nel prendersi cura dell’ameno laghetto della Snia, sgorgato dall’esagerato colpo di ruspa dello speculatore. E c’è ironia, per citarne ancora uno, nell’associazione Nonna Roma che ricuce i legami generazionali per assistere le persone deboli. Queste sono tutte esperienze di apprendimento sociale, di un riconoscimento tra Visibile e Invisibile, di un’invenzione del quotidiano, di un mormorio sociale che propone un’altra narrazione della città. Per questo assomigliano al gioco dei bambini, quando accompagnano la costruzione di castelli sulla spiaggia con un mormorio ludico che dice: “facciamo che io ero il principe e tu la regina”.
L’augurio è che il mormorio sociale alzi il volume e si affermi come nuovo discorso pubblico sul futuro della capitale. Ne abbiamo tanto bisogno, ma non ci nascondiamo la cruda realtà. A promuovere queste esperienze sono le avanguardie culturali. Nella vita della periferia oggi è più difficile immaginare il futuro. Non è stato sempre così. Nella mia esperienza politica giovanile ricordo che i borgatari si sentivano riconosciuti come cittadini mediante le grandi lotte di emancipazione. Pur nel fango, nella polvere e nella miseria avevano fiducia nell’avvenire come si è ricordato di recente nel cinquantenario del convegno sui Mali di Roma, che diede voce alle classi subalterne.
Nel saggio più urticante e controverso, Paolo Perulli introduce una tripartizione della società tra élite, classe creativa e neoplebe. Questa parola non mi scandalizza, poiché ha assunto ingiustamente, a mio avviso, un senso spregiativo nonostante abbia alle spalle una grande tradizione filosofica. Ha fatto bene Perulli a riutilizzarla nel dibattito scientifico, non nel senso di una nuova classe sociale, bensì di una galassia sociale (e accolgo la sua critica a una versione precedente di questo articolo in cui parlavo ancora di classe). La plebe contemporanea è una figura antropologica determinata proprio dalla mancanza di riconoscimento, come insegna Hegel. Il sistema politico-economico dominante ha colonizzato la vita popolare e ha desertificato i processi di riconoscimento, rendendo impossibile l’aspirazione al cambiamento, come ha svelato Appadurai. Se questa interpretazione ha qualche fondamento, è ancora più prezioso il mormorio delle avanguardie culturali, poiché possono elaborare nuove tracce di riconoscimento per l’intera periferia.
La nostra speranza, ma anche il nostro impegno, è che le sperimentazioni di apprendimento sociale contribuiscano a riattivare l’immaginazione popolare. Da Roma e, più in generale, dalle grandi città ancora Invisibili può così emergere la Visione dell’avvenire.
Walter Tocci
N.d.C. – Walter Tocci si è laureato in Fisica e in Filosofia alla Sapienza Università di Roma. È stato vicesindaco di Roma dal 1993 al 2001. Eletto alla Camera dei Deputati nel 2001, al lavoro parlamentare ha affiancato un'intensa attività di studio, pubblicando libri e saggi su Roma e sulla scienza. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato. Dal 2013 al 2018 è stato senatore per il Partito Democratico, seguendo in particolare le tematiche della scuola e delle riforme istituzionali.
Tra i suoi libri: Roma che ne facciamo (Editori Riuniti, 1993); con G. Ligi, La piazza di Pietralata a Roma (Gangemi, 1998); Politica della scienza? (Ediesse, 2008); con I. Insolera e D. Morandi, Avanti c'è posto (Donzelli, 2008); Sulle orme del gambero (Donzelli, 2013); Non si piange su una città coloniale. Note sulla politica romana (GoWare, 2015); La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative (Donzelli, 2015); Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale (Donzelli, 2020).
Per questa rubrica ha scritto: La complessità dell’urbano (e non solo) (24 gennaio 2020).
Sui libri di Walter Tocci, v. in questa rubrica: Enzo Scandurra, Roma, e se non capitasse niente? (16 luglio 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
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