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«Quartiere satellite di Pioltello […] caso paradigmatico di (una) periferia, segnata da aspetti sociali di marginalità, da un basso livello di coesione e dallo sviluppo di conflitti, ma anche da fenomeni di degrado fisico del patrimonio abitativo e dello spazio collettivo» https://ilgiornaledellarchitettura.com/2018/10/03
È una strana congiuntura quella che stiamo attraversando da qualche anno a questa parte, caratterizzata da un equilibrio instabile, costantemente in bilico tra un’adesione indiscriminata ad una tecnologia sempre più totalizzante in grado di fornire alle nostre azioni capacità straordinarie dall’intonazione extrasensoriale, e un innato bisogno di assecondare le necessità materiali più tipiche della nostra natura umana. È indubbiamente cambiato il nostro modo di abitare e di relazionarci allo spazio, pubblico o privato che sia, di intrattenere relazioni sociali, di spostarci da un luogo all’altro, così come di lavorare o di organizzare il nostro tempo libero. Astrazione e concretezza sembrano oggi convivere come non mai all’interno di uno stesso piano prospettico, tracciando diversi e inconsueti perimetri esistenziali. Lo aveva già capito Paul Virilio quando trent’anni fa sosteneva che le nuove tecnologie del tempo reale avrebbero indotto l’uomo ad una progressiva perdita dello spazio reale, indicando come già allora la tecnologia cominciasse a far parte di noi rimodellando la nostra coscienza del mondo, le nostre relazioni con gli altri e in generale lo spazio e il tempo nel quale avvengono le nostre azioni: «Far sì che il corpo e la sua energia vitale si mettano al passo con le tecnologie della trasmissione istantanea, vuol dire abolire il classico distinguo fra interno ed esterno a vantaggio di un nuovo tipo di centralità, o meglio di iper centralità: quella del tempo, di un tempo ‘presente’ […]» (Virilio 1993).
Si tratta di un tempo presente che pone ogni cosa sullo stesso piano, come se potessimo ammettere che la presenza più evidente dell’architettura non fosse quella definita dalla forma, dalla materia e dallo spazio, ma dalla capacità di instaurare relazioni, o per meglio dire, reti di relazioni, con un chiaro riferimento a tutto ciò che le tecnologie oggi ci permettono di fare. E tutto questo, superando i caratteri tipici dello spazio, per aderire ad un più ampio contesto fatto di soglie e protocolli di accesso (Augé 2007), di spazi interconnessi e di paesaggi instabili (Palumbo 2012) sempre pronti ad una possibile negoziazione e trasformazione, coerentemente con le necessità delle persone, e più in generale con gli equilibri dinamici e vitali del mondo vivente. Attraverso la tecnologia filtriamo ormai una gran parte delle nostre esperienze quotidiane e la connettività che essa ci permette è sicuramente diventata la modalità dominante con la quale ci relazioniamo al mondo e con la quale riorganizziamo una gran parte delle nostre esperienze quotidiane (Greenfield 2017). «La connettività è destino» sostiene Parag Khanna. «Osservare il mondo attraverso la lente della connettività genera nuove visioni su come stiamo organizzando noi stessi in quanto specie» (Khanna 2016, 36). Sembra ormai che si stia attenuando sempre di più la differenza tra reale e virtuale, tra un’azione che avviene nello spazio e in un luogo preciso e un’azione che si svolge nel non-perimetro del nostro smartphone. Di conseguenza si sta annullando la diversità tra spazio privato e spazio pubblico, tra spazio interno e spazio esterno, tra oggetto reale e oggetto virtuale, ma anche tra un tempo e l’altro o addirittura tra un luogo e l’altro.
Oggi siamo più propensi a fare esperienza delle cose che non a possederle realmente. Come sostiene già da diversi anni Jeremy Rifkin, «in una economia delle reti, è più facile che sia negoziato l’accesso a una proprietà fisica o intellettuale, piuttosto che venga scambiata la proprietà stessa» (Rifkin 2000, 7). In generale, possiamo dunque parlare di una sorta di possesso dei beni senza proprietà effettiva degli stessi. Sto parlando di un uso consentito degli spazi e dei manufatti della città, che oggi si carica di ulteriori possibilità dovute al complesso sistema di connessioni di rete nel quale siamo continuamente immersi. Pratiche di appropriazione e di ri-appropriazione che si esprimono come una forma di progetto collaborativo costituito da una sequenza continua di conversazioni, di proposte e di azioni, che hanno come fine il fatto di ambire a rendere come vorremmo che fossero i luoghi e gli spazi delle nostre vite e delle nostre azioni (Minervini 2016). Si tratta di una forma più allargata di quello che solitamente gli architetti sono abituati a chiamare progetto, il quale può oggi essere assegnato a chiunque, in forma più o meno consapevole, singolo o gruppo, decida di proporre soluzioni e di agire a suo modo sul mondo. È con queste modalità che ogni proposta e ogni progetto diviene parte di un più ampio processo di valutazione e di sperimentazione. Come tante piccole traiettorie che ogni individuo può utilizzare a proprio modo, ricombinando le parti, o, come sostiene Vito Campanelli, remixando e reimmettendo in rete le proprie proposte, con la possibilità che altri ne rielaborino i contenuti, perpetuandone il processo di scambio e di discussione (Campanelli 2011). E questo avviene quotidianamente quando raccogliamo immagini o informazioni dalla rete, le elaboriamo in qualche modo e le reimmettiamo in rete, partecipiamo a dibattiti postando il nostro parere sui social, quando mettiamo i “like” dove accordiamo il nostro consenso o lo neghiamo dove non ne condividiamo i contenuti… e molto altro ancora.
Ecco allora l’ipotesi che vorrei qui formulare per il futuro del quartiere Satellite di Pioltello, intesa come ricerca di una espressione multi-testuale, esito della complessità contemporanea e del suo positivo caos, fatta di contenuti multilivello, stratificati (si potrebbe dire layerizzati) e performanti (si potrebbe dire smart). Proposta che avanzo dopo aver letto il libro curato da Andrea Di Giovanni e Jacopo Leveratto – Un quartiere mondo. Abitare e progettare il Satellite di Pioltello (Quodlibet, 2022) – da cui emerge il ritratto articolato di un quartiere che mi permette qualche riflessione di carattere più generale sul ruolo dell’architetto oggi.
Alla semplicità dell’impianto urbano, in fondo molto chiaro e ordinato, con una sua logica compositiva sul piano architettonico, da un certo punto di vista perfino condivisibile, si contrappone una complicata sovrapposizione di strati sociali diversi e problematici che utilizzano gli spazi in vari modi, probabilmente talvolta in maniera inventiva e inconsueta, o se capita perfino illegale. Si tratta di una realtà composita dove tutte le parti, diversissime tra loro, sono poste su un unico piano prospettico che in qualche modo annulla il tempo e lo spazio, come un vasto plancton di questioni e di cose diverse, di forme e di usi, di luoghi e di ambienti, di linguaggi, di immagini, di scene, di regie spaziali fai da te, di umanità e di tecnologia, dallo smartphone all’automobile. Un tutto abitato, un mondo di una libertà esaltante e devastante allo stesso tempo. È una convivenza di opposti che fa venire in mente l’assordante titolo che il canadese di Vancouver, Douglas Coupland, ha scelto all’inizio del nuovo millennio per il suo romanzo, La vita dopo Dio (Coupland 2000) nel quale egli descrive un mondo dove non esistono più certezze e dove Dio scompare dalla vita degli uomini. Insieme a Dio si estingue qualunque idea di trascendenza e nessun ideale profondo è più capace di guidare il comportamento delle persone. Immersi in un universo indifferente si vive, si lavora, si incontrano persone, si ama, si muore, si lotta, ma sempre per ottenere successi temporanei e parziali. Una specie di nuova innocenza investe i protagonisti del romanzo, dove qualsiasi cosa ha senso soltanto se considerata in un panorama più ampio di esperienze, senza che esse siano finalizzate ad un obbiettivo finale o trascendente. Ogni azione vale per quello che è, senza pregiudizi, ponendo l’uomo in una specie di nuova condizione di verginità. È il recupero di una innocenza assoluta e di una purezza che si potrebbe definire laica, non tanto per l’assenza di Dio, ma soprattutto per l’atteggiamento inclusivo di una generazione non selettiva che trova nelle cose come nella natura, negli animali come nell’uomo, nella fiction come nella vita reale, nei media elettronici e nello spazio virtuale come nello spazio tangibile, le risposte alle domande esistenziali, ma parziali, che di volta in volta si pone. E tutto questo, non per generare confusione o perdere il senso della morale, semmai per superare moralismi ipocriti o falsi pudori. Questo, a mio giudizio, si scorge tra le righe del libro di Coupland, e anche noi che ci occupiamo di architettura, ne siamo in qualche modo coinvolti.
La lezione del quartiere Satellite ci insegna che per noi architetti è venuto meno il lieto fine di cui parlava il Movimento Moderno agli inizi dell’altro secolo. Sono venuti meno i vecchi armamenti etici sui quali si basava la modernità classica che utilizzava strumenti critici oggi inservibili. È venuto meno quello scenario unitario profetizzato da Le Corbusier, secondo il quale alcune regole applicate all’architettura avrebbero dovuto migliorare le condizioni di vita dell’uomo semplicemente dando una forma più funzionale e gradevole allo spazio abitato. Nel quartiere Satellite nuove connessioni di significato e altri tipi di sensibilità dovrebbero preordinare il progetto di riorganizzazione degli spazi. Una diversa organizzazione che non può nascere da una ricomposizione delle architetture, ma da una nuova e differente attitudine culturale, civile, e magari anche artistica. Un rinnovamento che non deve a tutti i costi descrivere uno scenario unitario o una metafisica forte, come il libro di Coupland ci indica in maniera spregiudicata, piuttosto ambire ad una complessità fatta di contenuti multilivello, inclusivi e performanti. La città oggi comprende “testi” di diversa natura, appartenenti anche ad altri mondi che ci portano, se necessario, fuori dall’architettura. Realtà composta da diversi “layer” posti su un unico piano prospettico, come frattali tridimensionali multicolore. È la fine dell’unità del progetto, la quale apre ad una diversa distribuzione dei ruoli all’interno della catena di lavoro che va dalla progettazione alla realizzazione.
Il progettista non può più essere l’unico mediatore tra l’universo delle idee e la costruzione, ma semmai dovrà essere inteso come parte di un più ampio processo di dialogo tra pratiche concrete e pensiero progettuale. Dobbiamo superare la vecchia separazione tra creatività e produzione ripensando ad una nuova cultura di relazione, e in questo differente contesto il web sembra assumere un particolare ruolo di spicco nell’innescare processi di confronto e di uso sinergico delle capacità. Ma attenzione, la città dell’epoca informatica non è la capitale della tecnologia, al contrario essa è il territorio dell’umano, con tutta la sua capacità di costruire relazioni e connessioni (La Rocca 2010). Processi di progettazione complessi e partecipati, che inevitabilmente conducono verso una diversa sensibilità nei confronti del manufatto architettonico e del suo spazio. Dunque, l’architetto dovrebbe fare un passo indietro, e in una situazione complessa e compromessa come quella del quartiere Satellite tutti sono chiamati ad essere progettisti, come una sorta di ridistribuzione orizzontale delle responsabilità progettuali. Disintermediazione del ruolo del progettista e sua fusione con quello dell’utente che ha ormai prodotto un sovvertimento del modo di abitare, oggi sempre più dilatato e aperto, sempre più eterogeneo e inclusivo. Sono cambiati i nostri gesti, è cambiata la sequenza delle nostre azioni quotidiane, è cambiato il modo di relazionarsi alle cose e alle persone, è cambiata l’idea che abbiamo della nostra individualità e di conseguenza il concetto di spazio personale in relazione allo spazio pubblico. In breve, è cambiato il modo in cui fare esperienza dei luoghi.
È chiaro che tutto ciò ha forti conseguenze sulle misure e sulla forma dello spazio, nonché sulla sua estetica. Spazio che non potrà essere più lo stesso di prima, almeno in molti suoi aspetti. Vale a dire che molti degli spazi nei quali siamo abituati a svolgere le nostre attività non avranno, e in tanti casi già ora non hanno, ragion d’essere nella loro abituale conformazione. Il processo è evidentemente non lineare e molto complesso, ma sicuramente si è ormai avviato, e senza interrompersi coinvolgerà sempre di più ogni tipo di società e di luogo, lo spazio pubblico come quello privato, compresi gli ambienti domestici, anche quelli più intimi, che magari ci ostineremo a proteggere da questo vero e proprio tsunami epocale. Lo diceva già Melvin M. Webber, il quale in un suo articolo del 1974 parlava di Pianificazione permissiva (Webber 1974) sviluppando l'idea che gli urbanisti avrebbero dovuto diventare più abilitatori che progettisti o controllori. Webber ragionando verso il finire degli anni Sessanta sulle città del futuro, immaginava che l’era delle telecomunicazioni e della mobilità di massa, soprattutto quella dell’automobile, avrebbero modificato radicalmente la nostra idea di luogo di aggregazione. Gli ammassi concentrici delle città del passato si trasformano per Webber in nuovi tipi di «aree urbane-associative» introducendo, la nuova (per allora) idea di «comunità senza prossimità» (Webber 1964).
Rivisto alla luce delle nostre odierne città il discorso di Webber mostra ancora tutta la sua attualità, dimostrata dalle infinite connessioni possibili tra le persone, tra le persone e lo spazio e tra lo spazio e il tempo. Il tutto consentito dalle attuali tecnologie digitali. Una trasversalità questa che modifica continuamente l’uso e il significato dei luoghi dove avvengono le nostre relazioni sociali, fino a coinvolgere gli spazi delle sfere personali degli individui. Ecco allora che la città può essere considerata ovunque e in ogni cosa (Amin e Thtift 2001), negli esterni come negli interni, nelle azioni come nelle cose, nell’urbano come nel non urbano e probabilmente nel reale come nel virtuale. Non cambia solo lo spazio in sé, nelle sue geometrie e nei suoi perimetri, ma quello che soprattutto cambia è la nostra idea di spazio, l’immagine utile che gli attribuiamo in relazione alle nostre azioni. Idea questa che pervade le nostre società già da parecchio tempo e che si collega perfettamente al concetto di efficienza che sta alla base delle Smart Cities, fondato sulla stretta relazione tra alcuni importanti fattori rappresentati dalle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, sulle strategie di governance dei servizi e degli spazi, sul coinvolgimento responsabile e autentico delle persone nei processi d’uso, a cui dovrebbero corrispondere nuovi e differenti aspetti qualitativi degli spazi deputati ad ospitare le azioni degli attori coinvolti.
È come una specie di diverso processo costitutivo dell’architettura, che supera il concetto classico di edificare. Abitiamo un’architettura non soltanto per le sue qualità spaziali e materiche, ma anche per la sua capacità di attrarre verso di sé una molteplicità di tecniche, di reti e di piattaforme immateriali. Ne derivano spazialità sovrapposte e compresenti, su cui è possibile costruire un nuovo ordine e un diverso sistema di nessi logici che ci consentono di espandere le nostre esperienze oltre i consueti limiti fisici. La nostra casa non è più soltanto uno spazio domestico, ma è anche luogo di immaterialità, di scambio e di comunicazione. E lo stesso vale per lo spazio pubblico che può assumere in alcune sue parti o in alcuni momenti, valori e usi più aderenti alla sfera personale delle persone che lo frequentano. Probabilmente potremmo sostenere che uno dei valori fondanti lo spazio odierno, privato o pubblico che sia, sta più nella debolezza e nella indeterminatezza degli scenari e nella loro libertà di determinarsi in relazione alle situazioni che di volta in volta si vengono a costituire. Lo spazio fisico si erode a favore di nuovi territori di conquista, eterogenei, trasversali, multidisciplinari, dispersi, introflessi e talvolta immateriali. Dimensioni tutte contenute nell’architettura, ma difficilmente descrivibili con i codici formali classici dell’architettura stessa. La conseguenza più evidente di tutto ciò è che la città, l’architettura e gli oggetti della nostra quotidianità non sono più considerabili come universi sinergici e legati da processi storici, al contrario essi possono addirittura rappresentare sistemi conflittuali che perseguono obbiettivi talvolta anche divergenti. Ne derivano nuovi tipi di spazi, forse ancora non perfettamente comprensibili o universalmente condivisi, ma sicuramente dalla forte capacità dinamica e performativa dove le pratiche d’uso ne tracciano la forma e i perimetri. E questo è ciò che auspicherei per il quartiere Satellite di Pioltello, per il quale potrebbe essere utile e costruttivo, parafrasando Andrea Branzi nei suoi Scritti presocratici (La Rocca, 2010), rintracciare nelle proposte dei suoi abitanti e nelle loro partiche d’uso, soluzioni parziali da intendere come frazioni forti contrassegnate da acutissime connessioni deboli.
Pierluigi Salvadeo
Riferimenti bibliografici Amin A., Thtift N., 2001, Cities. Reimagining the Urban. Cambridge: Polity Press. Augé M., 2007. Tra i confini - città, luoghi, integrazioni. Firenze: Mondadori. Branzi A., 2006. Modernità debole e diffusa. Milano: Skira. Campanelli V., 2011, Remix It Yuourself. Bologna: CLUEB. Coupland D., 2000. La vita dopo Dio. Milano: Marco Tropea. (titolo originale: Life after God). Greenfield A. 2017, Tecnologie radicali. Torino: Einaudi. Khanna P., 2016, Connectography – La mappe del futuro ordine mondiale. Roma: Fazi Editore. La Rocca F., (a cura di). 2010. Scritti Presocratici - Andrea Branzi: visioni del progetto di design 1972/2009. Milano: Franco Angeli. Minervini G., 2016. La politica generativa. Pratiche di comunità nel laboratorio Puglia. Roma: Carocci editore. Palumbo M.L., 2012, Paessaggi sensibili. Architetture a sostegno della vita. Cielo Terra Sponde. Palermo: :duepunti edizioni. Rifkin J., L’era dell’accesso. Milano: Mondadori. Virilio P., 1993. Dal superuomo all’uomo sovraeccitato. Domus, 755, 1993. Webber M.M., 1964. The Urban Place and the Non-Place Urban Realm. (in) Explorations into Urban Structure. Pensiylvania: ed Melvin - M. Webber - University of Pennsylvania Press. Webber M.M., 1974. Permissive Planning. (in) The Future of Cities. London: Hutchinson Educational.
N.d.C. - Pierluigi Salvadeo è professore ordinario di Architettura degli Interni e Allestimento al Politecnico di Milano. Coordinatore del corso di studi magistrale ACI/BEI e della doppia laurea Xi’an Jiaotong-Polimi, è membro del collegio dei docenti del dottorato in Progettazione Architettonica, Urbana e degli Interni. Ha organizzato e/o partecipato come relatore a conferenze e incontri nazionali e internazionali oltre che a numerosi concorsi di architettura. È membro del comitato scientifico della collana “Quaderni di Períactoi”.(Lettera Ventidue), “ii inclusive interios Peer Reviewed Book Series” (Maggioli), “University Press” (SMOwnPublishing), “Esperienze di Interni” (Maggioli). Nel 2018 vince il “Premio Compasso d’Oro”.
Tra i suoi libri: a cura di, Paesaggi di architettura. Infrastrutture, territorio, progetto (Skira, 1996); Architettura a teatro (Clup, 2004; Maggioli, 2012); a cura di, L'inquieta scena urbana, tra architettura e allestimento (Clup, 2004); Adolphe Appia: 1906, spazi ritmici (Alinea, 2006); a cura di, Architetture sonore (Clup, 2006; Maggioli, 2012); Abitare lo spettacolo (Maggioli, 2009); con Lorenzo Consalez, a cura di, Navigare sulla carta bianca. Cinque idee di città e di architettura (LetteraVentidue, 2013); con Davide Fabio Colaci, Marina Spreafico, Set design (SMOwnPublishing, 2013); con Luca Basso Peressut e Giampiero Bosoni, Mettere in scena, mettere in mostra (LetteraVentidue, 2015); con Antonio Longo e Chiara Rabbiosi, a cura di, Forme dell'inclusività. Pratiche, spazi, progetti (Maggioli, 2017); Gordon Craig. Spazi drammaturgici (LetteraVentidue, 2017); con Chiara Lionello e Marina Spreafico, a cura di, La città dei progetti personali (Maggioli, 2022); con Clarissa Orsini e Marina Spreafico, Il gesto sportivo e la sua forma (LetteraVentidue, 2023).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Chiara Merlini, L’insegnamento di un controesempio (14 settembre 2023); Agostino Petrillo, Satellite: cronaca di un fallimento (27 ottobre 2023); Anna Delera, Una periferia metropolitana (privata) (8 dicembre 2023).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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