Biagio Cepollaro e Luca Vaglio  
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A PROPOSITO DI UN POPOLO DI POETI


Sulla “percezione” della poesia da parte del pubblico “colto”



Biagio Cepollaro e Luca Vaglio


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La conversazione che segue tra Luca Vaglio e me ha trovato spunto iniziale dall’articolo-inchiesta da lui pubblicato il 29 maggio 2015 dal titolo Un popolo di poeti, ma chi li legge oggi? su Gli Stati Generali. Rileggendo l’articolo ho fatto alcune riflessioni che gli ho poi inviato via mail. E così è nata questa conversazione sul tema dell’ ipotetica diminuzione della “percezione” della poesia da parte del pubblico “colto”.

Biagio Cepollaro:

Continuo a non essere sicuro della validità dell’ipotesi iniziale e cioè che oggi la poesia sia meno ‘percepita’ dalle persone di buona cultura rispetto a ciò che sarebbe avvenuto negli anni ‘50… Questa ipotesi dovrebbe essere suffragata da un’indagine adeguata. Però nonostante i miei dubbi, devo riconoscere che l’inchiesta ha sollecitato una serie di riflessioni interessanti. A me pare che le risposte si siano disposte sostanzialmente su due versanti: uno “sociologico” confermante questo declino: le vendite o le mancate vendite, l’istruzione, i mass media, i social network, il mandato sociale e la superiorità della canzone o del ruolo ‘pubblicistico’ del narratore; l’altro più fiducioso e minoritario, tradizionalmente idealistico o avanguardista: la fiducia nella poesia e nei suoi tempi lunghi, la valutazione della vivacità innovativa della lingua poetica.

Credo sia necessario partire dalla considerazione che non esista un solo modo di concepire una “buona cultura”: in questi ultimi tre decenni si è trasformata proprio la forma della cultura, fino a diventare quasi irriconoscibile per le ‘generazioni’ di cultura precedenti. Negli anni ’90, anche sulle pagine della rivista Baldus, riflettevo su questo sulla scorta di riferimenti alle suggestioni provenienti da Wittgenstein e, per altri motivi da McLuhan e Walter Ong, da Lyotard e Paul Virilio. Quelle riflessioni andrebbero aggiornate con il nuovo campo di discorso istituito dalla rete.

Le forme della cultura non sono solo vesti retoriche, sono anche una sorta di a priori che sembrano determinare i modi concreti in cui i contenuti possano apparire ed essere trasmessi, anzi, condivisi. E non si può forse prescindere da questo. Né si può più dire che la ‘poesia non la legge nessuno’ perché vi è un consumo in rete notevole che non corrisponde certamente al mercato librario che resta quasi inesistente, se sono corretti i numeri citati dall’articolo. Mi viene il sospetto insomma che il problema non sia tanto della marginalità del genere poetico (ma è mai stato davvero un problema? Forse no …) quanto piuttosto del passaggio ad altra forma della cultura che non prevede la centralità della parola e la forma della soggettività che a quella centralità si riferiva (penso a Robert  Musil  che scriveva La conoscenza del poeta nel 1918, affidando al poeta ciò che dell’esperienza è singolare, la singolarità, l’eccezione …). Il digitale ha intaccato sia la solitudine della parola che riflette, mescolandola profondamente all’immagine e al suono, sia l’esperienza del singolare che è diventata una specie di ‘personalizzazione’, nel senso che questo termine ha assunto nelle “opzioni” che ogni programma prevede … Il singolare, l’eccezione,  di fatto sono previsti dal programma … Ho sentito anche il neologismo “customizzare”… Le forme della soggettività (o della soggettivazione, meglio) dipendono dalla piattaforma, come una volta dal campo di discorso che istituiva le parti e i ruoli. Quindi credo che sia molto mutata sia la forma della cultura che la sua trasmissione e condivisione e che la poesia come genere letterario scritto abbia subito un’ulteriore mutazione grazie alla rete che l’ha ricondotta in quella condizione che Walter Ong definiva di ‘oralità secondaria’, dopo le forme imposte e introiettate del libro stampato.

Luca Vaglio:

L’intenzione, come precisato nell’articolo, è di riflettere, di far riflettere su di un tema, quello della marginalizzazione del genere della poesia, di cui la critica già negli anni scorsi si è occupata. Non va trascurato il calo delle vendite denunciato da un editore storico come Crocetti e che una condizione analoga, pur in assenza di dichiarazioni, riguardi i pochi altri grandi editori che ancora pubblicano poesia. E c’è anche che rispetto al recente passato risulta nel complesso meno forte la presenza dei poeti all’interno dell’industria culturale. Non esistono, o non sono facilmente reperibili statistiche di sistema sul numero delle vendite e dei lettori di poesia. E la ricerca Nielsen secondo cui poesia, classici e saggistica insieme valgono il 3% del mercato rafforza l’idea che i numeri con cui abbiamo a che fare siano piccoli. E’ vero poi che oggi molta poesia viene letta e pubblicata su blog letterari e in altri spazi online, ma si tratta comunque di una fruizione di nicchia. Superando la logica dei numeri, che per la poesia non sono e non sono mai stati il centro del discorso, l’ipotesi di partenza è che la poesia, il ruolo e il nome dei poeti oggi siano meno percepiti dal pubblico vasto rispetto ad alcuni decenni fa. E il fenomeno è più notevole se avviene anche tra persone con un livello di formazione elevato e che mostrano interesse verso altri generi letterari e artistici. Forse il tema meriterebbe un’indagine statistica, che comunque non risolverebbe ambiguità e dubbi. Ma non mancano indizi che lasciano pensare che da qualche decennio i poeti italiani siano meno conosciuti o percepiti dal grande pubblico. Può essere un arbitrio usare per una ricerca di questo genere lo strumento dell’inchiesta giornalistica, di sicuro adatto a casi, come quelli della cronaca o dell’economia, più facili da circoscrivere nel tempo. Però si tratta di un arbitrio cosciente, di un rischio calcolato, poichè l’inchiesta, potendo ospitare in poco spazio diverse opinioni, si presta bene a sollevare problemi, introdurre discussioni e avviare riflessioni. Se questo avviene, posti alcuni dati di fatto e un lavoro attento, di norma vuol dire che la domanda è corretta, che il tema c’è, al di là di possibili investigazioni successive.

Provando ad affiancare altre considerazioni a quelle presenti nell’articolo, qui sopra e in altri luoghi, e senza pretendere di esaurire il problema, credo che giovi ragionare sul ruolo della canzone leggera. Proprio su questo, a mio avviso, come evidenzia Guido Mazzoni nel suo saggio “Sulla poesia moderna”, si gioca molto dello spostamento di percezione del grande pubblico e della conseguente marginalizzazione del genere della poesia. L’argomento merita di sicuro più spazio, però non è un fatto di poco conto che proprio a partire dal dopoguerra e per il periodo successivo si affermi sempre di più, e con gradi diversi di ambizione artistica, la canzone leggera. E’ possibile che la canzone, sebbene per struttura sia tutt’altra cosa rispetto alla poesia, essendo più immediata da recepire e a sua volta con il testo in versi, nella percezione e nella fruizione di molti abbia, almeno in parte, sostituito la scrittura poetica. O, forse meglio, può essere che la canzone abbia in qualche misura eclissato la poesia, anche soltanto nell’immaginario collettivo di una porzione del pubblico potenziale. E la facilità di diffondere le canzoni attraverso la radio e la televisione può aver rafforzato il fenomeno. Questo processo probabilmente ha favorito un grado di confusione tra la poesia e la canzone. Spie, cartine di tornasole di questa confusione sono stati diversi interventi apparsi sui media. Tra questi il dibattito, presente sui giornali a più riprese nel corso degli anni ’90, che aveva portato alcuni critici musicali a domandarsi se le canzoni dei cantautori potessero essere considerate poesia. Tema sul quale il poeta Mario Luzi interviene nell’aprile del 2000, rimarcando la differenza tra il testo di una canzone e quello di una poesia: “Uno è intuitivo, l’altro di riporto. Ci sono canzoni molto belle, ma non ci sono collusioni fra loro e la poesia. Quando ho detto queste cose, ho ricevuto dai cantanti parecchi insulti mascherati, soltanto Francesco De Gregori ha capito”.

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06 OTTOBRE 2015

 

 

 

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