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Franco La Cecla è un viaggiatore instancabile, un osservatore attento e ricco di un 'sapere nomade ' che, forte di una sua 'ideologia' - lui lo negherà -, passa al setaccio gli argomenti che di volta in volta affronta. Nel suo ultimo libro - Contro l'urbanistica. La cultura delle città (Einaudi, 2015, pp. 147, € 12) tocca all'urbanistica o, per meglio dire, a quella che egli crede sia l'urbanistica ma nell'argomentare - ed è un aspetto apprezzabile - la sua tentazione è quella di scandalizzare. Questo insieme di virtù e difetti fa sì che questo come altri suoi testi siano interessanti e al tempo stesso irritanti perché talvolta la sua vis polemica lo porta a sbandare.
Per quello che conta, sono d'accordo con lui: le città sono le persone che ci vivono - i 'corpi ' cari all'autore - e infatti gli urbanisti insegnano che fare urbanistica significa occuparsi degli uomini e delle donne che in una città o in un territorio vivono. Sono d'accordo con lui anche sul fatto che spesso i 'cittadini ' - soprattutto se giovani - riescono a mutare il segno e il senso di alcuni spazi codificati. Paradigmatico il caso di un 'non luogo ' - concetto che all'autore non piace (e sono anch'io della partita) - come lo è, per esempio, un grande parcheggio che nella notte, deserto dalle automobili, viene densificato di musica, di relazioni, di amori, di bevute. Un'appropriazione che modifica il senso di quel luogo, come succede anche con l'occupazione degli spazi urbani come forma di reazione politica. Perché allora non guardare con lo stesso spirito i centri commerciali che, 'occupati ' da uomini e donne, diventano luoghi di socialità, dove i bambini corrono, spesso in monopattino, lungo le 'vie ', dove gruppi di famiglie si riuniscono, dove i giovani si danno appuntamento provenendo da luoghi anche molto lontani del territorio o della città? Conosco l'obiezione: per i primi si tratterebbe di una manifestazione di libertà, di una scelta non condizionata, mentre per i secondi il condizionamento sarebbe forte. Se i comportamenti di uomini e donne danno senso allo spazio questo deve valere sempre e in ogni caso è difficile distinguere libertà e condizionamento perché forme diverse di condizionamento sono presenti sempre. Non penseremo che i giovani che, con la loro presenza e la loro musica, danno senso a un parcheggio nella notte non siano condizionati a sentire una certa musica, a bere una certa bevanda, a fumare una certa erba, a tatuarsi non come rito di appartenenza ma per moda, perché è bello, in un processo di massificazione in cui ogni deviazione - i calzoni stracciati, gli scarponi, ecc. - diventano 'comuni ' e banali? I comportamenti non possono essere solo osservati, classificati, descritti: vanno anche interpretati. Pare, invece, che il modello interpretativo di La Cecla - la strada è la vita - sia riferibile a un pensiero anarchico che definirei ingenuo.
Se fermiamo l'attenzione sulla questione delle periferie questo è ancor più evidente. Cito testualmente: 'Le periferie sono il pensiero sbagliato di un'urbanistica che ha mitizzato la condizione operaia e le ha negato però il centro della città. Queste roccaforti del sonno operaio sono diventate da subito l'incubo delle classi subalterne e oggi degli immigrati. Il loro carattere sbagliato non è formale, non c'entra nulla la dimensione del disegno, la qualità degli edifici. C'entra l'errore concettuale del pensare che esiste una cosa come le periferie '. Mi pare che l'autore rifiuti di considerare i processi economico-sociali - che gli sono ben noti - che hanno investito le città nel novecento e la meccanica propria della loro trasformazione. Affermare che sia stata l'urbanistica a negare ai ceti subalterni il centro della città non può che essere interpretato come il desiderio di scandalizzare. Sono sicuro che l'autore ha sentito parlare della rendita e del mercato. Non aver voluto, nel nostro paese, eliminare la rendita - un ministro che in parte ci ha provato, Fiorentino Sullo, ci ha rimesso carriera politica e non solo -, l'avere affidato il problema della casa e dell'abitare al mercato ha avuto come conseguenza il fatto che quest'ultimo ha messo ciascuno al 'posto giusto ', al posto che gli toccava in relazione alle proprie possibilità economiche.
Ma forse c'è dell'altro. Nelle parole dell'autore riecheggia anche una polemica verso l'urbanistica quantitativa, ovvero l'urbanistica che si è occupata delle 'quantità ' e non della 'qualità '. A me pare che sia stata la richiesta improcrastinabile di 'casa ' da parte di centinaia di migliaia di persone immigrate in un lasso di tempo brevissimo in molte città ad aver imposto la 'quantità '. Ma attenzione: nel secondo dopoguerra i progetti per nuovi quartieri periferici, nella loro generalità, erano ricchi di servizi e di spazi verdi. Ciò che è mancata è la realizzazione di questi ultimi - per incuria, per inconsapevolezza, per mancanza di adeguati finanziamenti, per cattiva gestione - che spesso ha fatto delle periferie dei luoghi di marginalità. Prendiamo il caso dello Zen 2 di Palermo - che sia La Cecla che io conosciamo -. Non sono né il progetto di Gregotti (piaccia o non piaccia), né la localizzazione urbana del quartiere a determinare il disastro noto, ma è la mancata realizzazione dei servizi, l'assenza di ogni controllo, la presa di potere della microcriminalità e del vandalismo che ne hanno fatto un inferno abbandonato e spopolato.
La Cecla irride a ogni interpretazione economica del processo urbano - il marxismo, vecchio e neo è inviso all'autore -, eppure se non si va alla radice dei fenomeni economici e sociali della nostra società non solo non si comprende l'evoluzione della condizione urbana ma si rischia - come direbbe mia nonna - di 'pestare l'acqua nel mortaio '. Non c'è da meravigliarsi che negli slum si faccia società, che si costituisca spontaneamente una regolamentazione locale, che si faccia anche economia (informale e marginale), ma che questo possa essere considerato un modello non lo credo e per la verità non lo crede neanche La Cecla. Fa parte dell'animus degli uomini e delle donne 'fare ' società ma non possiamo, per questo, dimenticare le cause della creazione degli slum - così come quelle delle periferie - accontentandoci del fatto che lì si 'fa ' società e dimenticando - La Cecla non lo fa - le condizioni in cui questo avviene.
La città è un organismo sociale - questo insegnano la maggior parte degli urbanisti - che va governato - termine che credo l'autore aborrisca -, ma tale governo ha una funzione politica che fa, bene o male, i conti con gli interessi esistenti, con le esigenze di corpi separati - vedi per esempio la funzione di polizia -, con i desideri degli abitanti, con i loro comportamenti, con i conflitti - salutari - che possono manifestarsi. Il meccanismo economico-sociale, con le sue diseguaglianze, con le sue discriminazioni, con le sue violenze esercita una forte influenza sia sui processi di formazione delle città che sul loro governo. Gli urbanisti - almeno quelli che conosco - non usando lo stesso linguaggio - ma la sostanza è la stessa - spiegano che l'urbanistica non può cambiare il meccanismo economico-sociale perché non esiste una via urbanistica al socialismo, anche libertario, ma esiste un lavoro volto a migliorare la vita egli abitanti di un luogo con particolare attenzione a chi è più svantaggiato. Nel mio specifico linguaggio si tratta di mitigare - attraverso le scelte urbanistiche, i servizi, l'organizzazione dello spazio, la dotazione di attrezzature - la condizione di uomini e donne che meno riescono a ottenere nel quadro dei meccanismi economico-sociali contemporanei che regolano la vita delle città.
Non ci dispiace una città bella - qualsiasi cosa significhi - ma vogliamo prima di tutto una città buona, una città tesa all'eguaglianza, al rispetto, alla convivenza. Obiettivi difficili, che spesso gli stessi uomini e donne che abitano un luogo rifiutano o ne negano la validità. Ecco il perché del governo. E sono d'accordo con La Cecla che la partecipazione in urbanistica può essere un equivoco, oltre che un elemento di burocratizzazione e di giustificazione di scelte prese altrove. Ma può e deve essere lo strumento dell'ascolto, perché 'fare ' urbanistica significa anche saper ascoltare. È vero: l'urbanistica ha a che fare con donne e uomini, non solo con cifre e statistiche. Ma perché contrapporre la strada, l'andare per strada, alle statistiche che se interrogate nel modo giusto dicono tante cose? I numeri parlano e così come non posso accontentarmi di sapere come i 'corpi ' reagiscono ai cambiamenti, non posso essere indifferente a come i meccanismi economico-sociali creano marginalizzazione e segregazione, anche se in quei luoghi si 'fa ' società, anche se il cibo di strada dà l'impressione di condivisione e di apertura. Non sempre l'urbanistica raggiunge questo obiettivo, spesso è 'sconfitta ', ma governare le trasformazioni, l'ambito dell'organizzazione della città, resta un compito gravoso e urgente.
Nonostante queste considerazioni il libro di Franco La Cecla è interessante, e non solo nella parte in cui descrive singole città o condizioni urbane (ogni capitolo è dedicato a un aspetto della contestata urbanistica ed è completato, per fare capire meglio al lettore l'assunto e la realtà, da una descrizione di una città o di un luogo visitato) ma anche nella parte più critica, perché da ogni critica si può apprendere. La lettura può essere a tratti irritante, ma il testo è ricco di osservazioni spesso acute. Basta riferirsi ad alcuni titoli dei singoli capitoli per comprendere le intenzioni dell'autore: 'Che cosa c'è di sbagliato nell'urbanistica'; 'Perché l'urbanistica non serve a capire la città '; 'Perché l'urbanistica è in ritardo'; ecc.
Per concludere, quello di La Cecla è un libro che mi sento di raccomandare ai colleghi che praticano l'urbanistica - la provocazione non può che essere salutare - ma spero che il lettore non 'specialista ' non si faccia un'idea sbagliata di questa disciplina.
Francesco Indovina
*Questo testo è comparso il 9 ottobre sul blog dell'autore Felicità futura in una versione leggermente differente e con il titolo 'Un libro 'contro' l'urbanistica ' Contro l'urbanistica. La cultura delle città (Einaudi, 2015, pp. 147, € 12) di Franco La Cecla
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