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Tra le molte pubblicazioni uscite quest'anno in occasione della morte di Giacomo Matteotti, si distingue quella di Federico Fornaro, "Giacomo Matteotti - L'Italia migliore", edita da Bollati Boringhieri, e ciò per almeno due motivi: è una biografia accurata e completa della breve vita dell'uomo di Fratta Polesine e in essa vi sono utili e puntuali riferimenti ai principali giudizi e interpretazioni di ieri e di oggi del suo pensiero e della sua azione politica.
Viene a lungo analizzato il particolare contesto familiare, sociale e politico in cui visse e si formò, ovvero quello di una famiglia molto agiata, di un Polesine rurale politicamente combattivo e pervaso da un profondo malessere sociale e quello dell'Università di Bologna dove condusse studi e ricerche importanti in tema di Diritto penale, amministrativo e altro ancora.
Proprio le difficili e precarie condizioni in cui vivevano i braccianti e i contadini della sua terra, la provincia di Rovigo, funestata da disoccupazione, alluvioni e malattie, avevano sollecitato l'ancora adolescente Matteotti a interessarsi del "dramma della miseria" e ad avvicinarsi agli ideali del socialismo; infatti già nel 1901, appena quindicenne, scrisse il primo dei tanti articoli successivi su "La lotta", organo dei socialisti del Polesine, in cui criticava ogni forma di rassegnazione e passività e sottolineava l'importanza della militanza e dell'unità politica e sindacale per continuare a ottenere e mantenere diritti e migliorare le condizioni dei lavoratori.
Sin dagli inizi della sua attività politica Matteotti si sentì vicino al socialismo riformista, come quello di Badaloni e Prampolini, che propugnava gradualismo, accettazione della democrazia politica, conquista legale del potere e individuava i principi-guida nella giustizia, la libertà, l'eguaglianza e la fratellanza; divenne già nel 1910 consigliere provinciale di Rovigo e poi amministratore locale per il PSI, mostrando grandi competenze e capacità politiche e organizzative nonché una vocazione "pedagogica", di stampo quasi mazziniano, nei confronti dei compagni e dirigenti del suo partito, dei sindaci e degli altri consiglieri socialisti.
La grande guerra, il tumultuoso dopoguerra con il "biennio rosso" e la nascita del fascismo interruppero e sconvolsero questo lineare percorso di vita politica e personale e le sue idee, pur rimanendo sostanzialmente coerenti, in qualche modo si radicalizzarono, optando per un pacifismo e una condotta politica vieppiù sfidanti e intransigenti. Ritenne insufficiente il contrasto all'interventismo e pilatesca la decisione del "né aderire, né sabotare" del PSI; al tradizionale riformismo socialista rimproverava gli eccessivi compromessi politici e una difesa piuttosto debole degli interessi di tutti i lavoratori, soprattutto della campagna, mentre al neonato partito comunista contestava il modello sovietico, il settarismo e l'obiettivo della dittatura del proletariato.
Egli era per stabilire un rapporto stretto tra democrazia e socialismo e per seguire una lotta di classe non settaria, che non escludesse l'alleanza con le altre organizzazioni della sinistra e con i "sani" ceti borghesi, e avesse nel Parlamento il più alto punto di riferimento e confronto politico. Il suo pacifismo lo portò addirittura a ipotizzare la possibile realizzazione degli Stati Uniti d’Europa.
Il suo esordio nazionale avvenne con le trionfali elezioni per il PSI del 1919, in cui fu eletto alla Camera dei Deputati senza tuttavia lasciare o trascurare il suo impegno nel territorio e negli enti locali del Polesine, che stava conoscendo una stagione politica difficile dovuta allo squadrismo e al crescente consenso al fascismo. Infatti, come ha scritto Fornaro, il Polesine divenne presto "un drammatico laboratorio della commistione tra la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale governativa contro la prospettiva di esportazione in Italia della rivoluzione bolscevica". Davanti a questa situazione, Matteotti cominciò a denunciare alla Camera l'inerzia dei governi e la complicità delle istituzioni di fronte alle azioni e violenze dei fascisti tra Rovigo e Ferrara, andando subito incontro egli stesso a vessazioni, agguati e rappresaglie che, come egli stesso affermò, erano da considerarsi davvero "profetiche", cioè anticipazioni di quello che sarebbe stato il suo destino.
Matteotti fu tra i primi, con Giovanni Amendola, Sturzo e Nitti, a comprendere la natura eversiva e totalitaria del fascismo e mostrò grande coraggio nel denunciare tutto ciò nei suoi discorsi parlamentari, i suoi saggi, i suoi articoli, i suoi comizi e divenne presto l'uomo "più odiato d'Italia", come veniva detto allora nei molti ambienti a lui ostili: quelli di destra per il suo antifascismo militante e per il tradimento della sua classe sociale ma anche alcuni di sinistra che diffidavano di un uomo alto borghese, poliglotta e "aristocratico", nemico del velleitarismo rivoluzionario.
Questo suo indomito temperamento si manifestò ancora di più dopo le elezioni della primavera del 1924, di cui aveva denunciato illeciti, scorrettezze e brogli alla Camera dei Deputati nella quale era stato eletto nelle liste del neonato PSU, il partito da lui fondato insieme a Turati. Il suo ultimo discorso, a causa delle ripetute proteste e interruzioni, durò un'ora e mezza scatenando quello che "La Stampa" definì "un uragano infernale" a Montecitorio. Infatti egli senza retorica ricordò "il ruolo nefasto della milizia armata fascista", riferì sui casi più gravi di condizionamento del voto e chiese l'invalidazione delle elezioni perché "a più riprese il governo e gli oratori fascisti nei comizi avevano pubblicamente dichiarato che avrebbero mantenuto il potere con la forza", ovvero avrebbero instaurato una dittatura.
Il deputato fascista Francesco Giunta in quella occasione urlò senza mezzi termini queste parole: "Squadrista nel paese, io sono squadrista a Montecitorio, ma noi non dobbiamo prestarci al giuoco di quella congrega che va dall'on. Amendola all'on. Matteotti. Noi quindi cercheremo di mettere a posto quella "masnada di uomini". Occorreva insomma "smatteottizzare" l'Italia, secondo Mussolini e i suoi ras.
Come è noto così fu fatto e nel modo più tragico, anche perché Matteotti non si era limitato a denunciare gli atti di sopruso e violenza dei fascisti ma avrebbe voluto anche documentare in Parlamento la loro corruzione e propensione affaristica, in particolare per quel che riguardava l'oscura vicenda della compagnia petrolifera Sinclair, di cui aveva saputo nei suoi colloqui con i laburisti inglesi e in cui sembrava coinvolto il fratello di Benito Mussolini, Arnaldo.
Il suo sequestro, avvenuto il 10 giugno 1924 ad opera dello squadrista Amerigo Dumini e del suo commando, si concluse con l'omicidio e la sparizione del cadavere ritrovato mesi dopo; uno dei suoi sicari, che sarebbe stato in prigione come gli altri aggressori solo per pochi mesi, confessò a "L'Unità" che Matteotti non ebbe mai un momento di debolezza, continuando ad affermare che la sua idea non sarebbe mai morta.
Fornaro nel libro mette bene in luce quel che è accaduto a Matteotti, come peraltro anche a Giovanni Amendola, cioè il fatto che l'aura del martire antifascista e la sua enorme popolarità abbiano quasi sempre offuscato l'originalità e la modernità del suo pensiero politico. Ma questo "mito dimezzato" è stato possibile anche perché, come sottolinea l'autore del libro, nel secondo dopoguerra e oltre, la sinistra italiana maggioritaria era lontana, nella sua ideologia seppure non nella sua prassi, dalla cultura politica socialdemocratica e dal riformismo, sia pure intransigente e "rivoluzionario" come fu quello di Giacomo Matteotti. Oggi il contesto politico e ideologico è molto cambiato e la "rilettura critica" della biografia di Matteotti, come auspicato da Fornaro, non solo può contribuire a farlo riconoscere come un "leader morale e politico" di tutta la sinistra italiana ma aiuta anche a contrastare qualsiasi "rilettura buonista del ventennio fascista".
© RIPRODUZIONE RISERVATA 25 OTTOBRE 2024 |