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Sono trascorsi trent’anni da quel 19 settembre del 1985 in cui Italo Calvino moriva improvvisamente all’età di 62 anni a Siena. La vita di Calvino non è stata poi così lunga, eppure ha scritto tanto e soprattutto ha attraversato da protagonista insieme ad altri (Pasolini, Sciascia, Morante, Volponi, Moravia, ecc.) la letteratura italiana del dopoguerra, dal 1947, anno del suo debutto con Il sentiero dei nidi di ragno, sino a quella fatidica metà degli anni Ottanta.
Trent’anni sono un tempo sufficiente per tracciare un bilancio della sua opera. C’è ora una nuova generazione di critici che si affaccia con intelligenza e crescente autorevolezza nel paesaggio letterario italiano. Sono quasi tutti nati negli anni Ottanta, ed erano ancora bambini quando Calvino ci ha lasciato. A loro abbiamo chiesto un bilancio dello scrittore Italo Calvino nella forma più diretta ed efficace: cosa è vivo e cosa è morto della sua opera? Cosa ci serve ancora oggi di Calvino, dei suoi libri, dei suoi saggi, dei suoi interventi giornalistici e anche politici? Cosa è invece diventato obsoleto o non serve più? Quale giudizio formulare su di lui? Possiamo separare Calvino dalla sua epoca, dal rapporto con il suo tempo, oppure no? È diventato un Classico?
Si tratta di tracciare un bilancio e di prendere delle misure, formulare giudizi che saranno, ovviamente, anche generazionali. Ed è proprio questo che ci interessa.
Nello spiegare il perché amasse i suoi scrittori preferiti, in un’intervista apparsa nel 1959 su “Nuovi Argomenti”, Italo Calvino affermava: «amo Kafka perché è realista». Quel Kafka che ha insegnato al nostro Novecento che realismo, dopo di lui, avrebbe significato «qualcosa di più profondo» e che pertanto Calvino non poteva esimersi dall’arruolare alla sua genealogia. Fautori, entrambi, di un necessario sguardo obliquo sulla realtà, di un realismo che potremmo qui definire strabico: Franz declinandolo sotto il sole allucinato dell’angoscia; Italo, al contrario, in nome di quel valore-cardine della leggerezza (da intendere sempre come «reazione al peso di vivere»), sotto il segno del quale si apriranno le sue postume Lezioni americane (1988). Non è un caso che quella prima conferenza si chiudesse proprio ricordando il cavaliere del secchio, protagonista di un breve ed enigmatico racconto di Kafka (Der Kübelreiter, 1917), che, alla ricerca di un po’ di carbone in una fredda notte al tempo della guerra, vola in sella al suo secchio vuoto (segno di privazione e insieme desiderio, ricerca): la più azzeccata proiezione autobiografica; emblema per antonomasia del senso ultimo dell’avventura letteraria del signor Calvino (a suggerire come, in fondo, la levità calviniana discenda da un’analoga inquietudine nei confronti dello stare al mondo).
Nel loro destino di autori è inscritto il desiderio comune di esorcizzare, reinventandole, angosce e paure: è lo stratagemma di Perseo assurto a metodo, lo scrutare nello scudo che si fa specchio deformante; strumento di allegorizzazione di una realtà che riesce comunque indecifrabile. Come accaduto già con Dostoevskij e Proust, anche la letteratura di Kafka e Calvino (certo ciascuno a suo modo) si volge alla radicale necessità di raccontare l’uomo, offrendone una mutata rappresentazione (è indubbio che il più sofisticato, geometrico, intellettualistico, fu senz’altro il ligure). Si potrebbe parlare, in analogia con il mondo della scienza, di svolte paradigmatiche o di rivoluzioni copernicane, riguardo alle possibilità intraviste, da Dostoevskij a Calvino, passando per Proust e Kafka, nel ripensare e immaginare la nostra condizione. Che la partita decisiva per la sopravvivenza dell’uomo del XXI secolo non possa più prescindere dall’attualissima lezione dell’autore delle Città invisibili – dal rigoroso memento che l’uomo della storia non debba mai smarrire la coscienza di essere, prima di tutto, uomo nella natura e della natura – mi pare sia sotto gli occhi di tutti. L’uomo è stato e rimane, per dirla con una battuta, un bipede che s’è montato un po’ troppo la testa. L’occhio di Calvino avrebbe dovuto aiutarci a sviluppare gli anticorpi di un’etica tanto essenziale quanto complessa. Certamente fu questa l’utopia di superficie connessa a quel controrealismo disancorato da ogni addentellato col tradizionale canone dell’impegno. E invece?
A trent’anni di distanza dalla sua scomparsa, possiamo tentare un bilancio, interrogarci sulla tenuta di quell’alternativa rappresentazione, frutto di una siderale presa di distanza; mirare, più da vicino, al disegno nel tappeto. La lettura unilaterale di quest’autore ha finito, da un certo punto in poi, per disinnescare e neutralizzare l’effettiva portata della sua opera: e, forse, non poteva andare diversamente, appellandosi il nostro a un’ideologia così onnicomprensiva nel declinare la sua perplessa critica dell’esistente, tradotta in ossessiva ricerca di metodo e nella speciale devozione per il gioco combinatorio. Il moltiplicarsi degli studi sull’autore, se da un lato ha contribuito a certificarne l’indiscutibile peso, dall’altro sembra non aver giovato abbastanza a fugare del tutto il vizio prospettico di una lettura o in subordine o in chiave d’antagonismo; e questo ancora sul finire degli anni Novanta, se a due anni di distanza da un saggio di svolta nella critica calviniana come quello di Belpoliti (L’occhio di Calvino, 1996) Carla Benedetti usciva con il suo Pasolini contro Calvino (1998), comprimendo il suo giudizio nella dialettica tra non-finito e finito, contestazione e incarnazione delle dinamiche in atto, per risolverlo a tutto vantaggio di P.P.P., interprete non accomodante (a differenza del ligure) della crisi intellettuale e culturale degli anni Settanta. A parte il sentire oggi, dal canto mio, prossimo, più l’incerto Calvino che non lo sventurato Pasolini, profeti entrambi senza dubbio, ma il primo assai più insospettato, proprio nel teorizzare quel continuo annaspare, quella mancanza di centro, di punti saldi, che mai come adesso fa parte del nostro bagaglio minimo di navigatori a vista. La loro contrapposizione può avere ragioni d’esistere solo partendo da presupposti ideologici; mentre bisognerebbe tenerli insieme, entrambi preziosi e direi, semmai, complementari, nel fornire una chiave di lettura – il poeta di Casarsa sul piano della storia, lo scoiattolo della penna su quello d’una finalmente recuperata filosofia della natura – di quegli anni decisivi. Così come mi ha stupito non poco leggere, in un editoriale di Berardinelli apparso lo scorso anno sul “Foglio”, che l’olivettiano Volponi sarebbe «l’anti-Calvino della narrativa italiana», per poi sbalzarne un ritratto le cui caratteristiche – e soprattutto l’assillo del caos, l’utopica disposizione a ricercare la quadratura tra mente e realtà fisica – appartengono, inequivocabilmente, anche e in maniera decisiva al Calvino della svolta cosmicomica...
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