Franco Pezzini  
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LUCA RASTELLO E LE PAROLE




Franco Pezzini


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Qualche settimana fa il vecchio amico Cino spediva copia di un mazzetto di foto in bianco e nero: vi appaiono un gruppo di ragazzi in Val Soana nel Canavese, una casa di montagna (un triangolone con un piccolo patio, sedie, chitarre) e qualche scorcio della zona. Foto – mi dice – risalenti al ‘79, e che forse un tempo avevo visto, considerato che figuro tra i soggetti; e che ora, ad aprirne i file, mi strozzano qualcosa in gola.

Quando un personaggio di pubblica notorietà scompare, è sempre forte il rischio e magari la tentazione protagonistica dell’ “Io lo conoscevo bene”. E d’altra parte quanto più una vita è stata ricca, quanti più fronti ha incalzato, tante più voci possono testimoniarne senza pretendere di esaurire (o lottizzare) il ritratto: una precisazione e un’urgenza di understatement che, sia pure dopo una confidenza di quarant’anni, mi paiono necessarie nel parlare di Luca. La cui morte all’inizio di luglio ha fatto moltiplicare articoli sui giornali e sul web a memoria della sua statura di giornalista, scrittore e militante di un sociale su cui non ha mai smesso di ragionare con rigore e libertà: e rinvio per esempio, senza pretese di completezza, a quanto scritto da Lorenzo Fazio, Goffredo Fofi, Carlo Greppi, Nicole Janigro e Claudio Mercandino. Ma per quanti di noi hanno goduto la fortuna di un’amicizia con lui (anche se poi per lunghi periodi non riuscivamo a vederci) era chiaro come il Luca Rastello “pubblico” sorgesse dall’eccezionale latitudine di interessi e curiosità nutrite fin da ragazzo, e che conoscevamo bene. Da un senso di giustizia e un rigore intellettuale accompagnati a un’esplosiva fantasia; da un senso della bellezza, una gioia di condivisione anche conviviale – mangiare e bene insieme, mentre detestava la mondanità delle feste; e da tutta quella passione per la vita che ha contribuito a fargli tenere testa per dieci anni a un tumore spaventoso, al di là di qualunque previsione medica.

 

“Invano negheremmo che fin d’ora sentiamo quella stretta al cuore, quella dolce inquietudine, quel sacro timore che precede i momenti estremi. Ben presto ci mancheranno nella tavolozza i colori e nell’animo la luce per apporre i più alti accenti, sottolineare i più luminosi e ormai trascendentali contorni di questo quadro.

Che è mai quest’epoca geniale e quando fu?

Qui siamo costretti a divenire per un istante totalmente esoterici, come il signor Bosco di Milano, e a ridurre la voce a un penetrante bisbiglio. Dobbiamo punteggiare i nostri argomenti con sorrisi ambigui e, come una presa di sale, frantumare sulla punta delle dita la delicata materia delle cose imponderabili. Non è colpa nostra se a volte avremo l’aspetto di quei venditori di tessuti invisibili che mostrano con gesti ricercati la loro merce fasulla”.

Bruno Schulz, Il libro, in: Le botteghe colori cannella, Einaudi 1970, pagg. 98-99.

 

 

Nell’esistenza di ciascuno di noi si possono forse distinguere un’età del mito in cui forgiamo le nostre categorie e parole-chiave – le scoperte presentano qualcosa di magico e irripetibile, le giornate hanno lunghezza mitologica tanto da ricordarle a distanza d’anni – e un’età della storia che vede il tempo farsi breve e i giorni incalzare d’incombenze: e chi abbia la fortuna di condividere la prima, non solo (banalmente) cresce insieme, ma può meticciare idee e fantasie con un’intensità in prosieguo sconosciuta. Una persona come Luca – di cui rifiuto di dipingere un santino, perché gli voglio bene anche proprio nei suoi umanissimi limiti e difetti – e che in qualche misura ha davvero cambiato la vita di chiunque venisse a contatto con lui, tanto più ha segnato noi in quella nostra età del mito: fino a individuare nell’incontro con lui (lo dico senza sbavature retoriche, e anzi nella messa a fuoco più lucida di questi due mesi dalla morte) uno dei momenti-chiave della nostra esistenza. Con il pudore del caso, e tra la messe dei ricordi mi limito qui a qualche spigolatura, forse utile ad arricchire la conoscenza del Luca “pubblico”.

La nostra amicizia risale al ’76, tra le aule del liceo classico D’Azeglio di Torino. Siamo in quinta ginnasio, e la terribile insegnante di lettere ritiene di contenere il pericoloso sovversivo dell’MLS (Movimento lavoratori per il socialismo, lì pochi esponenti in una variegatissima galassia di sinistra) piazzandogli accanto un allievo tranquillo, appunto il sottoscritto. La simpatia nei confronti del compagno di banco tanto diverso da me, che frequenta uno strano mondo, il martedì (giorno di lezione più pesante) sparisce a dormire in aula delegati ed è un vulcano di sogni, mi garantisce un abbassamento del voto di condotta e un anno magnifico di risate e fantasie condivise (mi trasmette anche la rosolia, convinto trattarsi del postumi cutanei di panini alle acciughe – e passo malato tutte le vacanze di Pasqua); anche se poi l’insegnante ritiene di fargli un favore rimandandolo a settembre e, nonostante sia preparato, bocciandolo in quella sede. Ma nella classe dove va a finire – e con cui condividiamo parecchio anche fuori scuola – Luca incontra una ragazzina con le stelline negli occhi, la futura moglie Monica, avviando un sodalizio d’affetti e intellettuale di tutta la vita, persino oltre i limiti della separazione degli ultimissimi anni.

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14 NOVEMBRE 2015

 

 

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