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IL PREZZO DELLA 'SCUOLA DIGITALE' PAGATO DALLA CULTURA


L'impoverimento della consapevolezza culturale dei futuri cittadini






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Di fronte alle novità introdotte dalla Legge 107, quella che ha reso possibile la realizzazione del progetto noto come 'La Buona Scuola', la comunità scolastica sembra mostrare incertezza rispetto alle strategie da percorrere. Tra i docenti, che pure avevano mostrato in modo deciso la loro contrarietà a tale progetto di riforma, il sentimento prevalente è quello di attesa, anche perché l'attuale anno scolastico rappresenta una fase di transizione, laddove le autentiche novità potranno essere applicate in modo rigoroso solo dal 2016-2017. In effetti, in questa prima fase dell'anno scolastico, l'attività didattica sembra procedere in modo consueto, e ciò alimenta l'illusione che il proprio lavoro non subirà anche in futuro trasformazioni sostanziali, e che l'atteggiamento più responsabile sia quello di compromesso tra la propria esperienza professionale e le nuove proposte. 

La Legge 107, però,  va interpretata come testo programmatico, di cui gli estensori non si propongono una realizzazione immediata, anche per evitare una ripresa della conflittualità; nello stesso tempo, appare chiara la strategia che approfitta di questa fase di disorientamento per stabilire, sul piano delle norme attuative, il completo rivoluzionamento della professione docente, da realizzarsi nei prossimi anni. Molti  insegnanti ricordano ancora la prassi dei ministeri dell'Istruzione precedenti, quando tra l'approvazione della legge e i Decreti attuativi trascorrevano mesi, con il risultato che i provvedimenti venivano poi travolti  dai mutati contesti politici.  Non è questo il caso dell'attuale esecutivo, che ha già preparato in anticipo i provvedimenti attuativi e che li pubblica con inconsueta rapidità; il che potrebbe confermare l'immagine di positiva efficienza che l'esecutivo vuole dare di sé, anche se ciò avviene senza tenere in alcun conto delle molteplici perplessità espresse dal mondo della scuola e, più in generale, della cultura.

È quanto si è verificato in questi giorni: il MIUR ha pubblicato un consistente documento (138 pagine in formato pdf) intitolato 'Piano nazionale scuola digitale'. La maggior parte dei docenti non aveva ancora fatto in tempo a visionarlo che, immediatamente, ha fatto seguito il Decreto attuativo, il quale obbliga le scuole in tempi brevissimi -entro il 10 dicembre- a inserire nella loro organizzazione una nuova figura formativa, che dovrebbe rappresentare al meglio, secondo gli estensori della riforma, lo spirito della 'didattica innovativa', vero fiore all'occhiello della nuova scuola che si vorrebbe realizzare in Italia. 

In altri interventi, sul presente sito, abbiamo sostenuto come quel complesso di esperienze racchiuse nel concetto di 'didattica innovativa' sia poco fondato dal punto di vista epistemologico e nient'affatto verificato con dati probanti; ad onta di ciò, i teorici di tali pratiche e i vari esponenti che si sono avvicendati in questi anni alla guida del MIUR, sostengono si tratti di un'acquisizione scientifica di ordine cognitivistico ormai acquisita, e la cui applicazione, nel contesto dell'attività didattica, sia inevitabile. Nei diversi documenti programmatici, e in modo ancora più evidente nell'ultimo dedicato alla Scuola Digitale, buona parte del corpo docente viene considerato non aggiornato su questi recenti esiti della ricerca e, proprio per questo, non viene affatto individuato quale interlocutore con cui confrontarsi, in ragione dell'esperienza guadagnata in anni di lavoro. Tale esperienza, ormai considerata inattuale, deve essere invece totalmente azzerata, attraverso un'operazione di riconversione professionale del corpo docente il quale, sulla base dell'ammissione di questa suo deficit cognitivo, deve accettare di buon grado di essere guidato verso nuove competenze professionali.

 

  Per chi non ha stretta familiarità con il mondo dell'istruzione, tali intenzioni della legge potrebbero non apparire evidenti; la 'Buona scuola' è stata per lo più presentata come un progetto teso a potenziare, nell'ambito del processo formativo, tre particolari ambiti: quello linguistico; il pensiero computazionale; la dimensione della digitalità. Non si comprendono questi propositi, però, se li si interpretano in relazione al sapere disciplinare, se li si intendono cioè come un rafforzamento di alcune discipline a scapito di altre. Ciò che si vuole introdurre con tale potenziamento è invece una nuova tecnica di trasmissione del sapere, fondata su una metodologia che diventa essa stessa il vero obiettivo della comunicazione didattica, a scapito dei contenuti studiati, ridotti a puro pretesto per l'acquisizione di tali competenze. Non è un caso che il 'potenziamento linguistico' non viene affatto raggiunto con un aumento delle ore curricolari dedicate alle lingue, bensì attraverso la metodologia CLIL, obbligando cioè il docente di una disciplina non linguistica a insegnare la propria materia, per il 50% del monte ore, in un'altra lingua a studenti che -è bene ricordarlo- quella lingua non la padroneggiano affatto. Il risultato è che la disciplina 'ospitante' viene totalmente annullata nei suoi obiettivi formativi ed è costretta a essere spezzettata in moduli, in verifiche formalizzanti e di estrema semplicità, rinunciando alla complessità narrativa con cui può essere comunicata, che darebbe agli studenti ben altra preparazione culturale.

Anche il nuovo 'Piano della Scuola digitale' si propone lo stesso obiettivo trasversale. Lo scopo è quello 'di collocare ogni ragionamento all'interno del quadro più ampio delle competenze, e dell'attività didattica'. Questa, da 'unicamente trasmissiva', si trasformerebbe in 'aperta ed inclusiva'. Non si cerchino nel documento riferimenti che vadano al di là di una terminologia così vaga e superficiale che corrobori le affermazioni presentate con tanta sicumera; nulla è cambiato, nel linguaggio di questo documento, da quanto denunciato da Giulio Ferroni già nel 1997: 'Il linguaggio della pedagogia associa spesso in frullati turbinosi materiali letterari, tecniche desunte dalle più varie scienze, gerghi massmediatici, anglismi di vario tipo desunti da trattati di pedagogia e di psicologia, formule politico-burocratiche: i termini più diversi assumono nell'argomentazione pedagogica un'aura tecnico-scientifica che spesso copre ed esalta riferimenti a realtà piuttosto semplici e banali. […] A leggere molti testi di questo tipo si ha proprio l'impressione di essere presi nella rete di una ovvietà che si presenta come complessità'. A ulteriore dimostrazione di tale criptico quanto teoreticamente vacuo proposito formativo riportiamo il seguente passo, il cui scarso senso appare più evidente dopo aver letto il commento di Ferroni: bisogna dedicare 'maggior vigore alle competenze cosiddette 'trasversali', come il problem solving, il pensiero laterale  e la capacità di apprendere. In questo, il digitale offre un traino fondamentale. […] sviluppare competenze attraverso la pratica e, contemporaneamente, produrre soluzioni di impatto'.  Sul piano metodologico, l'intento principale della scuola digitale è quello di plasmare la mente del discente in direzione del 'pensiero computazionale'. Esso 'è 'alfabeto' del nostro tempo  una nuova sintassi, tra pensiero logico e creativo, che forma il linguaggio che parliamo con  sempre più frequenza nel nostro tempo; è, infine, ad un livello più alto, agente attivo dei grandi cambiamenti sociali, economici e comportamentali, di economia, diritto e architettura dell'informazione, e che si traduce in competenze di 'cittadinanza digitale' essenziali per affrontare il nostro tempo'. Il pensiero computazionale vorrebbe ridurre l'attività intellettuale a una pura prassi operativa tesa a realizzare obiettivi assegnati, in un contesto 'prefissato' di cui si dominano tutte le condizioni. Già in matematica la pura riduzione ad operazioni computazionali, che si concretizza in quel procedimento noto come problem solving, è contestabile, in quanto lascia da parte una serie di aspetti disciplinari più essenziali, che non si risolvono ovviamente nell'ottica del puro calcolo. Lo ha ben argomentato il matematico Giorgio Israel, che ha individuato in tale impostazione una deriva della formazione scientifica europea, laddove i test di efficienza in matematica OCSE-PISA, orientati solo su tale tipologia di problemi, comporta poi, proprio da parte degli studenti che in quei test risulterebbero migliori, delle decise difficoltà nel frequentare le facoltà scientifiche. Per il documento del MIUR, tale dibattito sembra irrilevante, laddove afferma che ' è fondamentale rafforzare l'introduzione della metodologia del Problem Posing and Solving nell'insegnamento della matematica'. Il pensiero computazionale diventa però ancora più problematico quando pretende di diventare obiettivo formativo di qualsiasi ambito disciplinare, indipendentemente dalle caratteristiche epistemologiche dello stesso. Come ha ribadito Giulio Ferroni in un recente incontro alla Casa della Cultura, anche l'attività computazionale, nel momento in cui si realizza, non si presenta mai isolata in se stessa, non prescinde mai da condizionamenti di altro ordine, che rendono impossibile isolare completamente la pura procedurabilità, la quale rimane così una semplice astrazione. Tale proposito riduttivo ha per di più conseguenze negative sullo sviluppo formativo, in quanto nega la complessità delle diverse situazioni in cui ci si trova ad operare, introduce l'impressione ingannevole che esista un'unica soluzione a un determinato tipo di problemi, rende incapaci di stabilire i nessi tra una prassi e il contesto culturale in cui essa si esplica. Da qui il pericolo di quelle dichiarazioni, sempre più numerose tra i deputati e tecnici che hanno collaborato all'estensione della Legge 107, che vorrebbero trasformare la filosofia in una disciplina capace di valorizzare il pensiero computazionale. Il che implica negare valore formativo a qualsiasi impostazione storicistica o narrativa; la stessa metodologia delle scienze storiche o letterarie dovrebbe essere subordinate a quelle di scienze sociali ritenute più solide nei loro fondamenti.

 

Va da sé che tale impostazione comporti non solo un drastico impoverimento della consapevolezza culturale degli alunni e dei futuri cittadini ma, paradossalmente, anche una loro minore capacità di affrontare le sfide del nuovo mercato globale. Questo si presenta come luogo di feroce competitività, dove diventa sempre più concreta la possibilità di venire travolti,  in assenza di una consapevolezza dei meccanismi che  guidano il processo sociale, che solo un'istruzione ad ampio spettro può comunicare. L'assolutizzazione del pensiero computazione quale 'alfabeto del nostro tempo' risulta inefficace, paradossalmente, proprio nell'ambito dell'istruzione tecnica; intendere la finalità di tale indirizzo di studio nella risoluzione di problemi operativi, in linea con le richieste del mondo produttivo magari collocato nell'area in cui si situano gli edifici scolastici, vuol dire vincolare il sapere del futuro lavoratore a procedure tecniche che diverranno obsolete nel giro di pochi anni; di non renderlo cosciente della complessità dei processi interni all'impresa, in cui la singola operazione tecnica trova senso; di renderlo, al meglio, un esecutore capace unicamente di svolgere una funzione subordinata e precaria, ma non un attore del processo produttivo, in grado di sfidare in modo attivo i continui mutamenti che coinvolgono il mondo dell'economia e delle imprese. Non solo, la riduzione del sapere storico-sociale al ragionamento computazionale impedisce di comprendere il senso della proprie competenze professionali nel contesto della società civile di appartenenza, il valore del proprio lavoro rispetto ai principi di legalità e di solidarietà, in modo che il futuro lavoratore sia consapevole del personale contributo alla crescita democratica del proprio Paese. Una possibile regressione che investe, dunque, anche la tenuta dei valori democratici presso i giovani; in tempi drammatici come gli attuali, invece, il vissuto della propria cittadinanza deve essere la priorità nel processo di formazione di ciascuno.

Un'ulteriore conseguenza dell'invasività digitale è la riconversione -si potrebbe dire gestaltica- cui viene sottoposta la figura docente. Non si tratta di aiutare chi non ha competenze informatiche ad acquisirne, in modo da potere utilizzare le nuove tecnologie per meglio comunicare i contenuti della propria disciplina; ma di far diventare consapevole un'intera categoria professionale dell'inadeguatezza della propria preparazione. A proposito si legge nel documento: 'Consapevoli delle difficoltà insite nell'aggiornamento di chi in molti casi si trova in una fase avanzata della propria carriera, per coprire un fabbisogno così grande e generare un impatto significativo sull'intero sistema scolastico, abbiamo deciso che occorreva un piano complessivo: un nuovo modello di diffusione  che affronti, a livello territoriale e in ogni scuola, la necessità di rafforzare, attivare, propagare e animare le attività formative'. Il giudizio sull'esperienza accumulata in anni d'insegnamento è, come si nota, decisamente negativo. Che poi l'inadeguatezza risieda non nella scarsa dimestichezza con gli strumenti informatici, bensì nella metodologia didattica, è confermato più avanti: 'l'importanza della consapevolezza dei docenti nell'uso delle ICT a scuola, rivelando come sia necessaria un'alfabetizzazione digitale non solo come base delle conoscenze informatiche ma anche delle competenze orientate all'innovazione della pratica didattica'. La colpa dei docenti sarebbe proprio quella di rimanere legati al sapere disciplinare, di credere al valore della narratività e dell'approccio storicistico, di non essere persuasi -a ragione- dei presunti fondamenti scientifici delle nuove teorie. Cosa farne allora di un docente non più utile per una scuola che deve garantire nuovi bisogni? Diventa inevitabile 'riflettere sulla necessità di una definizione aggiornata delle competenze pedagogico, didattiche, relazionali dei docenti in generale e in particolare sulla capacità di volgere in senso pedagogico e didattico l'uso delle tecnologie a scuola, fissando obiettivi chiari'. I docenti, come dei minori, dovranno essere presi per mano e istruiti sui nuovi orizzonti della didattica, in un rapporto asimmetrico nel quale a loro spetta il ruolo di apprendere passivamente una nuova tecnica di cui non dispongono per oggettive carenze intellettuali: 'Occorre quindi vincere la sfida dell'accompagnamento di tutti i docenti nei nuovi paradigmi metodologici '; la resistenza dei docenti ad applicare una metodologia in cui non credono perché ne colgono gli oggettivi limiti, diventa una sfida da superare. La legge 107, stabilendo corsi di aggiornamento obbligatori per i docenti, intende proprio indirizzarli verso questo tipo di contenuti. Possiamo già immaginare schiere di pedagogisti di impostazione cognitivista e neopositivista, quasi mai avvezzi alla concreta esperienza scolastica, che terranno questi corsi tra l'incredulità di molti docenti. 'L'esperienza maturata in questi anni nelle molteplici iniziative di formazione sul tema del digitale indirizza un nuovo modello di formazione sulle seguenti aree di indirizzo: la formazione come accompagnamento e aggiornamento, non solo come trasmissione, come progetto formativo invece che come mera erogazione di corsi'. Il termine 'accompagnare' suona vagamente offensivo verso docenti che non sono considerati in grado di gestire autonomamente la loro attività professionale. Ma dietro questa disponibilità paternalistica si nasconde, in realtà, la logica evidenziata da Foucault del 'sorvegliare e punire': tutte queste attività di aggiornamento relativo alla didattica digitale, andranno chiaramente previste nel Piano Triennale dell'Offerta Formativa e vincoleranno l'intero corpo docente. Questa parte del piano sarà scritta da una nuova figura chiamata 'animatore digitale'; una scelta linguistica, in linea con altre contenute nei documenti precedenti, che stride con il registro espressivo proprio di un'istituzione come la scuola, dedicata alla cultura e alla professione intellettuale. 'Saranno gli 'animatori digitali' di ogni scuola, insieme ai dirigenti scolastici e ai direttori amministrativi, adeguatamente formati su tutti i suoi contenuti, ad animare ed attivare le politiche innovative contenute nel Piano e a coinvolgere tutto il personale'. La novità più sorprendente, destinata a rendere problematico il principio della 'libertà d'insegnamento', sta nell'invitare il docente, qualora mostrasse difficoltà a recepire le nuove direttive, a utilizzare unità didattiche elaborate non da lui, ma da pedagogisti esterni, e impostate secondo i nuovi principi: 'oltre alle tradizionali occasioni di formazione, è fondamentale che i docenti abbiano la possibilità di attingere da un portfolio di percorsi didattici applicati e facilmente utilizzabili in classe'. Un linguaggio paternalistico che esprime completa disistima per gli insegnanti i quali, equiparati a studenti sprovveduti, devono utilizzare percorsi semplificati: ' la sfida delle competenze digitali è quella di sostenere l'attività del docente come facilitatore, abbassando la soglia d'ingresso su temi ritenuti, a torto o ragione, estranei al suo background'.

 

 Se tali indicazioni si realizzeranno, si avrebbe una totale riconfigurazione, quasi su un piano antropologico, delle personalità del docente e del discente.  I parametri per giudicare la professionalità dei primi nulla avranno a che fare con la loro competenza disciplinare e con la loro esperienza didattica pregressa. In base alla nuova legge, gli insegnanti saranno nominati direttamente dal Dirigente Scolastico sulla base dei loro curriculum, che devono essere in linea con gli obiettivi proposti dal Piano Triennale dell'Offerta Formativa; le ragioni per cui essi potrebbero vedersi non rinnovato il contratto triennale potrebbero dunque risultare del tutto arbitrarie. Il potere del Dirigente Scolastico -e anche del nuovo Comitato di Valutazione- risulterà decisivo, in quanto potrà costringere il docente a praticare la propria professionalità sulla base di criteri che lo stesso potrebbe non condividere, rendendo problematico il reale esercizio della 'libertà d'insegnamento'. Di fronte all'imposizione di una modalità di comunicazione didattica che, con dubbie argomentazioni, tende a delegittimare qualsiasi attività d'insegnamento alternativa, la scelte individuali del singolo docente vengono di fatto rese impraticabili.

In virtù di tale sfida, il corpo docente nel suo complesso deve innanzitutto ribadire le ragioni culturali del proprio operare, cercando il più possibile, attraverso le proprie istituzioni rappresentative, di piegare verso i più concreti obiettivi didattici il Piano triennale dell'Offerta Formativa e gli stessi corsi d'aggiornamento; non accettando dai formatori la relazione asimmetrica, ma contestando sul piano scientifico -in un rapporto alla pari- i presupposti della 'didattica innovativa'; rendendo consapevole dei dubbi effetti di quest'ultima innanzitutto la componente genitori, la più suggestionabile dall'ottimismo superficiale contenuto nei documenti del MIUR. Solo a partire da questo lavoro dal basso, che coinvolga responsabilmente l'intera comunità scolastica, capace di valutare in modo critico l'efficacia del lavoro prodotto nelle scuole, è possibile ridare effettiva centralità allo studente, curando la reale emancipazione della sua persona, che può avvenire solo attraverso l'indispensabile patrimonio di cultura del sapere disciplinare. 

 


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01 DICEMBRE 2015