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Una riflessione attorno agli effetti dell'abuso della parola e alla possibilità di restituire al discorso politico le proprie radici e il proprio legame con la prassi.
Svuotamento semantico delle parole e semplificazione propagandistica sono oggi i caratteri specifici del linguaggio politico, quelli che maggiormente danno conto del suo degrado. L'uso irresponsabile e puramente strumentale delle parole è un segno importante dei tempi storici negativi, inscindibile dall'indifferenza dei più alla vita pubblica, fenomeno che rende particolarmente disponibili alle lusinghe manipolatorie, come ha mostrato la peggior storia novecentesca.
Si può reagire a una simile situazione tornando a considerare la natura propria del discorso politico, cioè la sua natura retorica, nella forma specifica evidenziata dalla tradizione sofistico-protagorea. Convinti che ogni possibile cambiamento intrecci in sè innovazione e conservazione, l'appello all'antichità non ha il fine di riproporre ancora una volta un ideologico mito positivo, ma è piuttosto un richiamo al significato eterno della politica, che da sempre si smarrisce nei periodi di crisi, e all'importanza della memoria nell'esercizio del pensare: è un modo per evitare di subire il proprio tempo. Oltretutto i principi fondamentali della politica - gli stessi che ne costituiscono la dimensione ideale e ne delimitano l'orizzonte - sono sempre i medesimi, a dispetto della crescente complessità delle scienze e delle teorie politiche, oltrechè dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, che hanno favorito inedite forme di espressione e partecipazione, ma anche risvegliato e rinforzato antiche forme di pericolosa propaganda.
Ecco che allora la tradizione sofistico-protagorea permette di riscoprire una parola persuasiva che, diversamente da quella propagandistica, è tutt'uno con il comportamento e con l'azione di chi la pronuncia. Una parola, quindi, ben diversa da quella volta a provocare, in modo opportunistico, determinati comportamenti e azioni in colui che ascolta. In questione non è qui l'agire in un ambito specifico, ma piuttosto il modo di essere che in ogni azione, a partire da quella linguistica, si specchia e si palesa: il discorso retorico, infatti, è pronunciato da - e si rivolge a - un uomo concreto nel quale l'inseparabilità di razionalità e sentimento impedisce ogni tentazione riduzionista in entrambe le direzioni e mostra al tempo stesso l'impossibilità di separare l'azione e la parola di qualcuno dal suo costume. Avvertire questa impossibilità è tutt'uno con la sfida che comporta l'antico e sempre attuale interrogativo sulla qualità della politica e sulla sua inseparabilità dall'etica: già i sofisti e Platone, pur avendo obiettivi e presupposti teorici molto diversi, erano d'accordo sul fatto che non ci si potesse improvvisare politici, che per governare la città fosse necessario avere ricevuto un'educazione adeguata, unica garanzia di esemplarità, vale a dire di coerenza fra modo di essere e parola.
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 24 MARZO 2015 |