Recita l'articolo 47 della Costituzione: La Repubblica favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, e alla proprietà diretta coltivatrice. E senza risalire al dibattito dell'Assemblea Costituente, non è azzardato ascrivere alla sinistra la tenerezza per la proprietà della casa e alla democrazia cristiana l'attenzione al mondo contadino che porterà alla riforma Segni.
E se oggi l'ISTAT sostiene che l'80% degli italiani vive in una casa in proprietà - magari con quei figli adulti che non riescono a trovare lavoro ma che nella casa sono comunque protetti - il popolo della sinistra dovrebbe considerarlo ed esaltarlo come un proprio successo, e semmai dispiacersi che soltanto il 50% sia titolare di una seconda casa.
Invece no: al colmo del masochismo quella proprietà della casa così sperata nel 1947 è diventata un simbolo del decadimento borghese delle classi lavoratrici, e quella casa così desiderata rirubricata come il disastroso dilagare del cemento.
Qualcosa non torna, e forse tutte codeste recriminazioni - che passano per essere le bandiere dei progressisti di oggi - sono proprio quello che sembrano, rigurgiti reazionari a dispregio del desiderio di quel popolo del quale sostengono di ergersi a difensori.
E in effetti, a guardar bene, codesti progressisti lamentano come il paesaggio sia stato deturpato da questo desiderio, e invocano un più fermo ricorso alle leggi del 1939, rubricate come le ottime leggi Bottai, senza vedere subito che sono l'espressione coerente del programma centralizzatore del fascismo, e dunque da mettere in campo nella nostra società democratica con la dovuta prudenza.
Gli urbanisti lamentano poi le endemiche trasgressioni alla legge urbanistica del 1942, variamente o no legalizzate, senza voler vedere che anche questa è una legge coerente con il programma fascista di contenere l'immigrazione dalle campagne, e tradotta in questo dopoguerra nel programma altrettanto totalitario non tanto di provvedere alla migliore soddisfazione del legittimo desiderio di casa sullo sfondo dell'articolo 47 della Costituzione quanto nello strozzarlo nel nome di principi disciplinari esili come carta velina: perché - occorre sottolinearlo - quella disciplina urbanistica della quale la sinistra ha sempre chiesto la rigida applicazione non ha alcuna consistenza e alcuna legittimazione se non proprio nella sua ingiustificata protervia.
Tutti sanno come la procedura della pianificazione urbanistica, codificata lucidamente da Giovanni Astengo, comporti - sulla base dei trend del passato - la previsione di quanti saranno in futuro gli abitanti di una città, quanti di loro saranno gli addetti alle industrie o alle attività terziarie, e su questa base verranno dimensionate le zone residenziali, quelle del lavoro, quelle della ricreazione e quelle dei servizi, e perfino quanti metri quadrati di verde dovranno venire riservati a ogni abitante.
Il fatto è che i piani redatti con questa legge e con la relativa procedura comportano quanto desiderava il legislatore nel 1942, di porre un limite con questi calcoli all'ampliamento delle città, ma siccome la pianificazione tratta le persone come soggetti di una statistica e non come persone con un proprio desiderio non riducibili al progetto totalitario dei pianificatori, all'atto pratico questa previsione demografica è quasi sempre inattendibile. Sicché mentre i piani regolatori di un tempo, fatti del disegno di strade e di piazze fino ai confini del comune, con un paio di norme sull'altezza dei fabbricati, fino alla metà del Novecento mantenevano la loro efficacia per secoli, i piani regolatori moderni devono venire continuamente aggiornati per adattarli al lievitare imprevisto di una domanda oppure fomentando un diffuso abusivismo.
Tutta la faccenda è ormai tema di una critica radicale e appassionata, cui ha vivacemente contribuito dal maggio di quest'anno il libro di Stefano Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile, edito da Carocci, che la questione riprende di petto con gli argomenti convincenti supportati da una sterminata bibliografia.
La questione di partenza è che tutto il complesso degli interventi legislativi e amministrativi è un inutile spreco di risorse umane, e soprattutto che la pretesa di una pianificazione ex ante che comporti il programma di far coincidere la forma della città con la variabilità della sua vicenda viva è insostenibile: sicché, dice bene Moroni, un piano regolatore non è un progetto da attuare - come è d'uso prevede sempre appunto 'norme d'attuazione' - ma semplicemente una normativa da rispettare.
Perché bisognerà metterci bene in testa che non possiamo controllare gli esiti di un progetto che comporti conseguenze dirette sulle condizioni di vita degli abitanti semplicemente perché non possiamo prevederle, e anche la pretesa di migliorare con le nostre azioni le condizioni di vita dei nostri figli e dei nostri nipoti - che Moroni ritiene un obiettivo onesto - a me sembra a sua volta periclitante.
Se le cose stanno così la pretesa di una pianificazione fondata sulla rigorosa previsione dei futuri bisogni - non, si badi bene, dei desideri - sarà largamente legittimata in Italia dalla rilevante presenza del partito comunista non soltanto a ingessare la sfera politica ma anche ad appiattire la sfera culturale sostanzialmente sul modello della pianificazione totalitaria perseguita appunto dai paesi comunisti, un atteggiamento che consentiva a una generazione di austeri intellettuali di salvarsi l'anima sostenendo progetti, come la riforma Sullo, che non tenevano in alcun conto di quell'etica della responsabilità che domina la sfera politica rifugiandosi nella rivendicazione di principi determinati fuori dal contesto di una società democratica assumendo il ruolo di quegli esperti che sostenevano di fatto e legittimavano quei regimi totalitari che avrebbero voluto trapiantare in Italia, avrebbe detto Popper.
Allo stato delle cose questa schiera di nostalgici di uno stato totalitario - o quanto meno centralizzato e autoritario - viene messa a nudo da una schiera di critici classificati come 'liberali', un corrente di pensiero generosamente tollerata perché, dicono, in fondo qualcosa di buono in questo schieramento di destra c'è.
Solo che, se la sinistra è l'anima progressista e la destra l'anima conservatrice e perfino reazionaria, allora proprio non ci siamo, perché questi cosiddetti liberali sono al giorno d'oggi quasi i veri eredi del socialismo.
Percorre tutto il libro di Stefano Moroni la convinzione che siano i desideri dei cittadini a dare corpo, attraverso le loro iniziative, a quel minimo intervento della sfera istituzionale che ne consente la realizzazione smussandone gli eventuali conflitti, mentre tutt'al contrario le loro iniziative - la cui legittimità legittima a sua volta la sfera istituzionale fino a quella dello Stato - vengono programmaticamente compresse.
E poi il curioso mantra che occorra esorcizzare il consumo di suolo, come se il suolo potesse venire consumato come un paio di scarpe, che consiste poi nell'impedire a chi vorrebbe costruirsi una casa nel solco dell'articolo 47 della Costituzione di procurarsi il terreno necessario, di fatto escludendone i meno abbienti e, dio non voglia, gli immigrati.
Ora dobbiamo immaginare che una antica tradizione della sinistra, a cominciare da Proudhon - che sosteneva le cooperative edilizie - e riconfermata nell'articolo 47 ha sempre visto quell'accesso alla proprietà della casa non soltanto un obiettivo economico quanto una strategia politica, perché il possesso della casa è in Europa la condizione essenziale della cittadinanza e presidio della libertà del cittadino, la sua casa inviolabile come quella libertà.
Così, se possiamo rintracciare le radici della sinistra nei movimenti socialisti dell'Ottocento, dovremo pur riconoscere che in questo campo, quello del legittimo desiderio di una casa, oggi la tradizione socialista sta nell'atteggiamento dei liberali, come Stefano Moroni, e non dei comunisti alla testa degli urbanisti, sempre alla ricerca di nuovi strumenti giuridici per comprimere il desiderio di libertà.
Ecco, che il legittimo desiderio di libertà dei cittadini e delle loro associazioni dovrà magari confrontarsi con quel potere autocratico della Soprintendenze cui Bottai affidava l'heimat degli italiani nel giugno del 1939, orgoglio del regime di quei tempi. Che poi, se la Repubblica di Weimar nel 1919 aveva attribuito al Reich la tutela del paesaggio, dopo l'esperienza di come la nozione di heimat aveva accompagnato le sue armate nel settembre di quel medesimo anno sui territori della Polonia, la Repubblica Federale accortamente ne trasferirà le competenze ai Laender.
Il principio autoritario viene continuamente ribadito - scrive Moroni - evocando la dicotomia pubblico/privato, una dicotomia che comporta la costituzione di una sfera collettiva istituzionalizzata nel 'pubblico' come se la res publica, la nostra Repubblica, non fosse sempre l'espressione istituzionale, nei suoi diversi livelli, dei cittadini, dai nostalgici del totalitarismo di destra classificati come un 'pubblico' costituito dai suoi occhiuti interpreti e custodi.
Artificio retorico che ha per esempio diffuso l'idea che esistano 'beni comuni', la cui consistenza è radicata soltanto nella loro riconoscibilità da parte di un gruppo di esperti - rileva Moroni - che profittano della diffusa propensione dei loro concittadini ad abbandonarsi a qualsiasi credenza.
A questo punto dobbiamo domandarci come il punto di vista di Stefano Moroni - da qualche tempo ormai diffuso e condiviso in molte sedi - incontri così tante resistenze, ma si sa - diceva Keynes che è più difficile rinnegare una teoria alla quale abbiamo da sempre creduto che inventarne una nuova - che sarà difficile per i cultori della pianificazione e del suo totalitarismo riconoscere il fatto d'essere diventati non soltanto conservatori ma, nella misura in cui danneggiano proprio il desiderio popolare, addirittura reazionari.
Solo che il meccanismo della pianificazione così com'è ha appunto i suoi inerziali sostenitori nei professori di urbanistica delle nostre facoltà di architettura, che dopotutto hanno conquistato i loro gradi nella gerarchia accademica proprio a cavallo delle teorie reazionarie e non sono propensi a rimetterle in discussione senza sapere poi bene cosa insegnare - ribadiva Max Planck, che le nuove teorie vengono accettate perché muoiono i sostenitori delle vecchie - ma anche sostenitori impliciti nell'apparato burocratico dei comuni, che ha un vasto campo discrezionale nel quale esprimersi, e soprattutto negli amministratori pubblici che vi possono volendo tessere le reti di una corruzione endemica seppure spesso solo virtuale.
Ma io divago e potrei continuare a divagare perché un libro a questo serve, ad accendere nella testa qualche lampadina, e il libro di Stefano dovreste leggerlo anche per questo.
Marco Romano
© RIPRODUZIONE RISERVATA 12 DICEMBRE 2015 |