Esiste un rapporto assoluto tra una ballerina e lo specchio. L’immagine riflessa diviene esempio di perfezione e di errore: perfezione ed errore entrambi da superare perché quando il limite è se stessi allora i limiti non ci sono più.
Esercizio e costanza che dallo sguardo e solo passando attraverso lo sguardo arrivano al corpo, ai suoi movimenti, alla grazia che ne contraddistingue il volo. Assistere ad un balletto senza musica è probabilmente una delle esperienze più travolgenti di quell’intelligenza del suono fatta dal legno del palcoscenico battuto dai passi della ballerina e dalla relazione imprevista, ma del tutto conseguente della giacca dello spettatore che scivola e struscia sul velluto della seduta.
Una relazione inapparente che trova il suo legame nell’occhio: quello votato alla perfezione della ballerina e quello stupito e incantato dello spettatore. Entrambi gli sguardi nascono infatti da un movimento figlio di una pratica che come suo principale scopo ha quello di scaturire una relazione, generare uno scambio che sappia contenere la differenza e la diversità, lo scarto e l’ingenuità. L’applauso che cerco, diceva Rudolf Nureyev è il silenzio che mi lega al pubblico e che prende corpo poco prima del battere delle mani.
Il silenzio è lo spazio del cambiamento, in cui l’azione necessita dello sguardo per darsi forma e significato. Il silenzio quindi come forma sorgente del contenuto che si fa innovativo. L’innovazione culturale è infatti prima di ogni cosa, anche del suo stesso contenuto, pratica. Una pratica di relazione che poco c’entra con il lavoro culturale da sempre inquinato da paradigmi principalmente di sfruttamento e assoggettamento.
L’essenziale inutilità del lavoro culturale è stata raccontata con lucida ironia da Luciano Bianciardi anche se spesso se ne fraintende totalmente la critica legando il suo pensiero ad una sorta di morale culturale che poco c’entra con il discorso dello scrittore grossetano. Bianciardi individua nel lavoro culturale il virus di una negazione creativa che attraversa tutta la società riducendone gli spazi di cittadinanza. Una critica che però non sarà mai in grado di individuare una prospettiva d’uscita o di elaborare una proposta reale di cambiamento e ancor meno una possibilità di salvezza per lo stesso Bianciardi schiacciato da un sistema anafettivo di sfruttamento, pur avendone compreso le dinamiche.
È chiaro quindi che l’innovazione culturale debba setacciare strade altre, luoghi anomali ed eccentrici, recuperare disobbedienze e aprirsi anche alla diversità più acerba e impacciata. Fare in sostanza del proprio contesto una vera e propria metropoli.
La pratica deve lavorare generando una forma di contenuto abile alla relazione sfruttando così gli spazi stretti dell’inconsapevolezza o dell’errore come ricordava precisamente Gianni Rodari ne Il libro degli errori. È del pertugio che tutti sono curiosi, è nella calle nascosta di Venezia che si genera meraviglia ed è nel saper trasmettere la libertà dello spazio che l’innovazione culturale acquisisce la sua forma.
Ci sono ovviamente scrittori, filosofi, sociologi e teorici tout court dell’innovazione che questa pratica la raccontano e la scandagliano, ma è ad un autore del secolo scorso a cui vorrei fare riferimento, si tratta di Albert Camus. Algerino di nascita, francese di formazione ed estraneo alle ideologie per istinto o potremmo meglio dire per consapevolezza. Figlio di una terra negata, Albert Camus seppe costruire sulla propria diversità una visione culturale e politica innovativa che nasceva dal sentire naturale del proprio corpo fattosi carico delle contraddizioni di un tempo che poco concedeva alle terze vie.
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 10 GENNAIO 2016 |