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Premessa
La nuova edizione della Scuola di Autobiografia, che da diciotto anni si tiene alla Casa della cultura a cura di Duccio Demetrio, proporrà ai partecipanti momenti di riflessione e di scrittura dedicati agli argomenti qui di seguito delineati. Inoltre, dopo un primo incontro con il racconto autobiografico che Silvia Vegetti Finzi ha affidato al suo libro 'La bambina senza stella', gli iscritti ai laboratori si incontreranno con coloro, autori e scrittori amatoriali, che hanno fatto diretta esperienza della scrittura di sé come forma di autoaiuto e di cura. Nella malattia, in carcere, raccogliendo e trascrivendo le storie altrui, scoprendo il valore curativo e memorialistico di pagine dedicate al nostro rapporto con la natura. I momenti di scrittura successivi si ispireranno di conseguenza anche alle suggestioni ascoltate.
La memoria salvata dalla scrittura: quali virtù
La memoria ha bisogno di tecniche per non abbandonarci. Oggi ne possediamo innumerevoli, ma nessuna di esse continua a mantenere il potere e il fascino dell'antica possibilità di salvarla dall'oblio con la scrittura. Specialmente quando essa, abbandonate le forme più autorevoli e distanti dalla nostra personale esperienza diventa una modalità per raccontarsi in prima persona. Direttamente, senza mediazioni, quasi seguendo l'istinto a fermare quanto il tempo cancella, quanto l'ascolto altrui si fa più debole o distratto. Tale mezzo di autodifesa appartiene alla tradizione propria della scrittura autobiografica o di sè. E' questa innanzitutto è un'arte umile, fedele e semplice. Quando ce ne avvaliamo, in quei preziosi e solitari istanti di raccoglimento meditativo, impariamo e pratichiamo, non una, ma più virtù. Esercitiamo ad esempio l'umiltà di riconoscere che scriviamo senza pretese; ci mostriamo coerenti con la necessità di correggere un copione in continuazione (la nostra vita) mai definitivo finché ci sia dato scriverne; non badiamo sempre alla forma, ma all'essenzialità e al senso che assume per noi quel che raccontiamo. In una autentica libertà del pensiero e del sentire. Tenere un diario - anche saltuariamente - su fogli sparsi o rilegati, trasformando la propria oralità silente in un appunto visibile, è purtroppo una possibilità che non coltiviamo mai abbastanza; è una risorsa che aspetta, tacita, di svelarci quanto non sappiamo ancora di quella nostra memoria che attende la penna per dischiudersi e trovare le mostre origini dimenticate. Solo le dita riescono ad aggiungere al passato ritrovato altra materia per comprenderne i segni. Scrivere di sé è sempre un ricordare, pur senza ricordi precisi. La scrittura di cui ci serviamo viene da qualcosa che abbiamo imparato a fare, a imitare, a invidiare in altri più grandi di noi, già alfabeti, nel tempo memorabile dell'infanzia.
La scrittura autobiografica ricuce ferite
La penna cuce ferite se abbiamo la coscienza che uno spreco è presumere di tentare di rimarginarle del tutto; ci consente di vederle meglio in faccia, nella temerarietà di ricominciare senza volerle cancellare. Così facendo, ci sentiamo di più a casa (ospiti accetti di noi stessi ) e, in poche righe, al contempo ne usciamo. Per scrutare ciò che l'esterno può ispirarci. La scrittura infatti rinchiude e schiude la mente, il sentire, le emozioni: in un movimento continuo troppe volte non riconosciuto. Anzi, respinto o negato: forse per paura di lasciare tracce, quegli indizi troppo intimi in grado di svelare altre immagini di noi; forse per scarsa fiducia nel valore della memoria. Se la scrittura, come ogni scrittura personale, è già memoria di per sé ma non ne facciamo uso, non la riproponiamo, non condividiamo quelle nostre pagine anche soltanto abbozzate, tradiamo il suo ruolo sempre anche sociale e relazionale. La scrittura venne inventata per comunicare, per far sapere, per tramandare, non per tacere, nascondere, celare. Negandole questa funzione, ci limiteremmo ad una spesso sterile esibizione di sé, soltanto per sé, contravvenendo al principio dello scrivere come ritorno e ri-accesso alla comunità umana. Tanto in quei moti dell' animo spontanei, effimeri, inconsci, quanto laddove ci accada di offrire alla scrittura il tempo di gestazione, lento e pensoso, di cui ha bisogno. Quando la scrittura della propria storia accetti di sottoporsi ad un'attività certo impegnativa, di lungo periodo, che esprime un attaccamento alla vita, una caparbia voglia di non dimenticarsi di esistere pur nei momenti peggiori, grazie alla disciplina interiore che inizieremo a coltivare dandoci un metodo, assecondato un progetto, risolutezza e costanza. Il desiderio di scrivere per lenire la sofferenza ( la perdita, la solitudine, il dolore fisico, la depressione) scaturisce pertanto dalla tenacia e dall' applicazione del nostro lavoro di amanuensi contro l' oblio, il lutto, nella quotidiana disfida con le tante fisionomie del morire. Scrivere di noi e di chi è stato od è intorno a noi, ci trasforma e ci riconsegna perciò al giorno nuovo senz'altro meno assopiti, nel mentre ne facciamo diretta esperienza; specie se prolungata, regolare e accanita. Erroneo sarebbe attribuire poi allo scrivere autobiografico le nostre ambizioni letterarie. Prima di tutto, occorre chiedersi se dando parole a questa intenzione qualcosa di nuovo, di imprevisto di fecondo sta accadendo in noi. Scrivere è prima di tutto una manifestazione narrativa: fosse anche la più ingenua, elementare, inesperta essa ci chiede indulgenza, così come lo domanda ai nostri eventuali quattro lettori. E' quell' istinto vitale che torna a visitarci e che senza ambizioni riesce a farci attraversare i momenti peggiori. Il quale, pian piano, può dotarsi di un metodo e divenire uno stile di vita, un'abitudine di cui sentiamo la mancanza se più del dovuto deponiamo la penna. Soltanto in tal caso può diventare, a lungo andare, oltre ad un farmaco immateriale, un modo di essere, una condotta filosofica, persino una sapiente disciplina intellettuale o un gesto sacro. Può riconfigurare la nostra persona, inducendoci ad una minor superficialità; può educarci alla lettura nella ricerca di un' ispirazione autorevole, a sperimentare registri narrativi di maggior impegno e finezza. La cura della scrittura non si manifesta soltanto nello sfogo spontaneo, in quel cercare una tastiera o un foglio di carta affannoso, ma soprattutto ci offre benessere e sollievo se le conferiamo la dignità di un appuntamento regolare, di processo non alieno da inquietudini e dubbi, se ci inizia a consuetudini nuove. Se si rivela, strada facendo, compagna fedele nel nostro bisogno di non rimuovere segreti e bugie; se ci sollecita a ricostruire immagini fatali ad istanti che credevamo già ingoiati dall'oblio; se ci impedisce di affogare quando ci stiamo perdendo nella troppa folla e persino nella eccessiva nostra solitudine. La scrittura, ancora, ci cura in relazione ai suoi paradossi.
I paradossi di un appagamento
Può accadere di chiederci, magari proprio nel mentre vorremmo con la scrittura evacuare le pesantezze della vita: ' Ciò che non ho, più o mai avuto, di cui avverto la mancanza, nella nostalgia, nell' acuto dolore, non è forse la sorgente delle nostre anomale felicità più che delle scontentezze di una vita? 'E ci chiediamo ancora' Forse, siamo felici proprio là dove non sappiamo di essere già stati, di avere avuto, di aver perso irrimediabilmente?'. Questo stato, che di solito chiamiamo ' senso di vuoto' ci fa paura, ma cela invece tutta la sapidità, greve o leggera, del sentimento profondo del nostro vivere. Questi luoghi interiori, dove non siamo più o non siamo ancora giunti, possono darci attimi, lampi di gioia e prolungate, perduranti, sensazioni di felicità se sappiamo riprenderli in mano: renderli e-venti ( qualcosa che viene a noi e si rinnova) attraverso l' umile arte narrativa cui stiamo dando vita, dando forma ad una nostra seconda esistenza. Non immaginaria, anzi quanto mai ancor più reale proprio perché la stiamo riesaminando da cima a fondo. Nel mentre rovistiamo nei ricordi, questi si dischiudono nelle loro verità e nelle loro dissolvenze; trascriverli è affidarli al realismo magico con il quale la memoria sempre li confeziona. Per fermali, depositandoli in pagine che sono al contempo espressione ancestrale di una cura materna (mentre scriviamo, noi generiamo e accogliamo ciò che nasce e ritorna per la prima volta per nostra volontà) e di una sollecitudine paterna. Poiché scrivere mira ad altro; ad oltrepassare il presente in atto, a trasferire il passato negli indizi di futuro. La scrittura, così, può accadere ci renda - almeno - un poco meno infelici; perché ci offre il conforto di aver conquistato un approdo per merito nostro e di nessun altro. È rassicurante l' e-vento recuperato, anzi riconquistato, che riesca a concederci una tregua, un' espiazione non troppo acre. È rincuorante l' intero testo che andiamo costruendo nel presente, poiché ci offre passato e indizi di futuro, ogni sua parola o frase espugnata all' dimenticanza adempie a questa missione. Ciascuno di noi, del resto, è inevitabilmente una costellazione di punti fermi o in sospeso cui la scrittura dona l' abbozzo di una figura, di un disegno, di un destino. Durante questo viaggio a zonzo, affidandoci ad una navigazione a vista la rotta si palesa quasi da sé un esercizio dopo l' altro e l' appagamento può darsi si annunci laddove pensavamo si fosse allontanato per sempre e in cifre diverse da quelle a lungo inseguite. Inimmaginabili, prima di iniziare a scrivere. La scrittura ci accompagna dunque verso la riconquista di timide felicità, quanto più riusciamo a rendere le parole (anche quelle dedicate al dolore) più lievi, leggere, serene. Purché la penna si mostri in grado di conferire alle afosità, al tedio, ai silenzi amari dei nostri giorni quegli spiragli che sono i suoi spazi brevi, silenziosi, tra una frase e l' altra che ci provocano a trovare altri modi e luoghi per raccontarsi. La scrittura ci cura se accelera il nostro respiro, se lo attenua, se ci trasferisce in zone arcane dove l'apnea possa diventare una condizione meditativa su di noi. Tra risalite e nuove immersioni: in quelle oscure profondità personali che lo scrivere non può impedirci di visitare, rischiarandole senza più respingerle in fondo al pozzo. Scrivere di noi, per noi e per altri, è dunque l' indizio della volontà esistenziale di chi non si vuole arrendere, affidandosi inerme al divenire degli eventi; è il coraggio di chi va piuttosto controcorrente non per narcisismo, ma per ribadire la propria dignità umana; è la ricerca non di un consenso plateale e consolatorio, né di una pietà a buon mercato: ma l' esercizio di un diritto civile ad essere ascoltati, letti, compresi.
Duccio Demetrio, professore ordinario di filosofia dell' educazione e della narrazione alla Bicocca, è ora docente e direttore scientifico della Libera Università dell' Autobiografia di Anghiari ( Arezzo) da lui fondata nel 1998 con Saverio Tutino e di Accademia del silenzio. Coordina il Consiglio culturale della Casa della cultura. Tra le sue ultime opere: L' interiorità maschile ( 2010); Perché amiamo scrivere ( 2011): Educare è narrare ( 2012); I sensi del silenzio (2012); Green autobiography ( 2015); Silenzi d' amore. Scrivere i sentimenti taciuti ( 2015)
© RIPRODUZIONE RISERVATA 16 GENNAIO 2016 |