|
|
L'ultimo libro di Ferruccio Capelli 'La porta rossa. La Casa della Cultura tra storia e storie' (ed.Casa della Cultura) ha stimolato riflessioni e interventi che pubblicheremo con grande piacere. Il dibattito è aperto! Qui il commento di Fulvio Papi
La porta rossa di Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura, è una ricostruzione storica di questa istituzione milanese nata nel 1946 e tuttora in piena attività con un programma che investe tutte le forme culturali emergenti sia a livello nazionale che internazionale.
È un libro nel quale la ricerca storica, pur sempre adeguata, non si arena nella descrizione di 'fatti' che hanno costituito la tessitura di settant'anni di vita della Casa della Cultura, ma ne coglie sia il senso puntuale che la ricchezza e la problematicità delle sue trasformazioni, adeguate ai cambiamenti culturali, sociali ed epocali del tempo contemporaneo. È del tutto corretto dire che l'autore riesce sempre a cogliere il senso che la Casa della Cultura riesce a dare al suo operare nel contesto, sempre più difficile da rappresentare, dei mutamenti del mondo contemporaneo. La prima osservazione che viene ovvio di fare è come una istituzione culturale abbia potuto riprodurre se stessa, replicando nella contemporaneità il senso e il metodo delle sue origini. La risposta dei Capelli è semplice e definitiva: la Casa della Cultura non ha mai rispecchiato se stessa in un contesto culturale statico e in una modalità operativa circoscritta, ha piuttosto trovato la sua identità in una apertura al mondo contemporaneo che in poche decine di anni è parso imparagonabile con il suo profilo precedente, a cominciare dalla trasformazione degli equilibri internazionali e degli assetti economici, passando per le fondamentali emergenze storiche e la caduta di sintesi filosofiche e storiche, per giungere alle nuove identità politiche e alle attuali modalità informatiche della comunicazione.
È un elenco che potrebbe allungarsi a una ulteriore citazione di temi, ma qui si vuole sostanzialmente evidenziare il divenire dell'intelligenza critica della Casa della Cultura e Capelli ne traccia la storia essenziale. Le origini della Casa della Cultura sono in un progetto che prendeva corpo nel pieno del periodo resistenziale a Milano. Banfi, Vittorini e Curiel - dirigente del Fronte della gioventù nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel febbraio del 1945 - tracciarono in quei giorni il programma culturale da realizzare nel nostro paese - e, in particolare, nella nostra città - dopo la liberazione dal lungo periodo fascista sfociato in una collaborazione con l'occupazione nazista, soprattutto in funzione della repressione delle forme di resistenza che, già dalla fine del 1943, si diffondevano nel paese, dal Sud non ancora occupato dagli alleati al Nord, dai confini liguri e piemontesi con la Francia al Friuli e alla Venezia Giulia. Un filosofo, Banfi, che aveva rinnovato negli anni precedenti la scena di quel sapere in Italia, uno scrittore come Vittorini che aveva colto nella sua opera la realtà sociale e ideale del paese, uno scienziato, Curiel, che aveva come obiettivo l'affermazione di un razionalismo scientifico, del tutto in ombra nella dittatura fascista e nella tradizione idealista: furono questi i protagonisti di un'iniziativa di rinnovamento della cultura italiana e della sua diffusione nel paese.
Dopo la liberazione, due furono le realizzazioni che incarnarono questo originario progetto: la Casa della Cultura, inaugurata nella primavera del 1946, e la rivista 'Politecnico' diretta da Elio Vittorini. Con un'analisi veloce ma sempre puntuale, Capelli rievoca il periodo iniziale, inaugurato dal discorso d'apertura di Ferruccio Parri sul tema della cultura e della morale, e quindi aperto a tutte le iniziative filosofiche, scientifiche, economiche, artistiche che nascevano nella conquistata libertà del paese. La Casa della Cultura voleva riflettere la pluralità di linee tematiche che si propagavano nella cultura italiana, un clima culturale che bene si univa allo spirito della ricostruzione proprio dei primi anni del dopoguerra.
Anche dopo la crisi politica del 1948, questo patrimonio non andò disperso, e riuscì persino a superare le difficoltà che alla fine del '49 sorsero con lo sfratto della Casa della Cultura dalla sede di via Filodrammatici 5. Furono due anni in cui le poche attività possibili venivano ospitate da altre sedi di enti milanesi. Nel 1951 la liberalità generosa della famiglia Usiglio regalò alla Casa della Cultura un ampio scantinato situato nel centro della città. Con difficoltà questa fu la rinascita della Casa della Cultura, fondamentalmente per l'opera di Rossana Rossanda, allieva di Antonio Banfi, che compì il 'miracolo' di garantire alla Casa della Cultura un suo spazio di libertà intellettuale nel quadro della cultura della sinistra italiana. Il 'miracolo' nasceva dal contenuto critico delle iniziative di Rossana Rossanda che riusciva a mantenere uno spazio proprio, libero, in un tempo in cui l'egemonia partitica del PCI a sinistra e la fortissima repressione della politica da parte del ministero degli Interni diretto da Scelba dall'altra potevano rendere più che difficile il mantenere la linea originaria della istituzione. La reazione unanime da parte di intellettuali comunisti e socialisti all'invasione sovietica della Ungheria nel '56 fu la prova decisiva della libera autonomia di pensiero e di azione della Casa della Cultura, la sua stessa condizione di esistenza.
Questo il tratto iniziale ma fondamentale per tracciare poi la continuità di uno stile. È quanto fa brillantemente Capelli nel suo lavoro seguendo analiticamente tutte le vicende storiche salienti che dagli anni Sessanta ci hanno condotto sino ad oggi.
L'autore mostra una sensibilità storica e una informazione preziosa per attraversare questo periodo così accidentato e alla fine caratterizzato da un'espansione mondiale del neoliberismo, dalla nascita di nuove centralità storiche come la Cina, l'India, l'America del Sud, dai movimenti rivoluzionari (o riformisti) che sostenevano la possibilità di un nuovo mondo rispetto a quello che nasceva dagli effetti del mercato mondiale, dominato da investimenti alla ricerca di un facile profitto più che promotore di una evoluzione sociale positiva, e da un capitalismo finanziario che poi condusse alla crisi del primo decennio del nuovo secolo. La cultura reagì sostanzialmente male a fronte della nuova situazione: 'suonò il piffero' (per usare le parole di Vittorini) alla globalizzazione capitalista e alla sua ideologia individualista, o si chiuse in quell'orizzonte del post-moderno che allontanava il discorso teorico da ogni presa di posizione nei confronti del mondo storico.
Capelli analizza tutto questo processo con rara capacità sintetica ed espressiva, con l'abilità di mostrare come queste trasformazioni sollecitassero risposte pertinenti e critiche da parte dell'attività della Casa della Cultura. Sino ad oggi, quando l'intelligenza razionale e critica, la fedeltà all'antico metodo di pensiero, deve affrontare la pluralità di eventi storici e sociali che richiedono una disponibilità assoluta di analisi priva di una qualsiasi centralità interpretativa che non sia quella del metodo di lavoro. Capelli individua benissimo questo difficile gioco tra pluralità storico-culturale e unitaria continuità metodica, come un piano aperto di iniziative.
Aggiungerei solo un'osservazione. Oltre allo sguardo sullo svolgersi della temporalità, la Casa della Cultura potrebbe anche divenire il luogo della custodia e della interpretazione di quella straordinaria cultura europea del primo Novecento che è scomparsa, ma che rimane la vera identità di una storia europea conclusasi con il doppio suicidio della prima e della seconda guerra mondiale. È anche questo passato a rafforzare il nostro sforzo di mantenere e di diffondere la nostra identità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 28 GENNAIO 2016 |