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Premessa
Spesso le avvisaglie delle crisi finanziarie arrivano dal mattone. L'analisi economica in genere si limita a prenderne atto. È necessario invece comprendere le ragioni per cui il settore immobiliare costituisce non di rado il punto di rottura del sistema. Ci sono motivi di carattere economico, in quanto i beni immobili sono beni capitali un po' particolari, e cause di carattere politico-sociale legati al fatto che la casa è un bene primario irrinunciabile.
Il tema, portato all'evidenza dall'insorgere della crisi dei subprime, torna di forte attualità, soprattutto in Italia, perché le sofferenze bancarie riguardano in gran parte proprio il mondo del mattone.
Esiste dunque anche una specificità italiana riguardo alle dimensioni del settore immobiliare e alla dinamica che questo svolge nell'intera economia? A questa tanto domanda bisogna rispondere in modo articolato: da un lato analizzando le risposte della politica alle difficoltà del Paese, dall'altro individuandogli gli episodi chiave che hanno rafforzato il peso del mattone nell'economia nazionale. In particolare andranno sottolineati tre momenti che più di altri, a nostro avviso, hanno contribuito a irrigidire il nostro modello di sviluppo: la crisi bancaria di fine ottocento, la crisi del 1930 e il biennio 1962 - 62, la grande occasione.
Si è quasi colti da stupore se si rapporta l'importanza che perfino il senso comune attribuisce al settore immobiliare con la rimozione sociale di cui questo sembra essere oggetto tanto nei momenti di boom quanto nei periodi critici. Forse la ragione di questo distacco sta nel mancato incontro tra la scienza economia e l'urbanistica che ha prodotto, tra gli altri, due esiti altrettanto dannosi: il mancato aggiornamento dell'analisi della rendita alla luce, ad esempio, della forsennata speculazione sui suoli, con la conseguente scomparsa della rendita tradizionale basata sull'affitto e il contratto di locazione e un ambientalismo che fatica a fare proprie le ragioni dello sviluppo economico e della modernità, accettando implicitamente le ragioni di chi ritiene la cultura ambientalista in antagonismo con le ragioni dell'economia.
A nostro avviso proprio i dati economici dimostrano che non esiste contraddizione tra le ragioni dell'ambientalismo e quelle di un'economia moderna, fondata su una maggiore eguaglianza e che non ritenga ineluttabile un destino basato sulla proprietà e sul mattone.
Economia e mattone
parte I
'Le scadenze si allungano, ma la circolazione perde di elasticità soprattutto per la natura del portafoglio cambiario, che comprende in larga misura mutui fondiari ed edilizi e sovvenzioni agli speculatori di ogni genere.
Le rinnovazioni e gli effetti di comodo inoltre ingrossano fittiziamente il movimento delle operazioni. Fanno apparire affari dove non vi è che il vuoto dell'insolvenza e l'immobilizzo sospeso al tenue filo della speranza che la congiuntura volga più favorevole.'(1) Fu l'inchiesta del 1893 a portare alla luce la reale situazione del portafoglio bancario nazionale, con un gran cumulo di sofferenze (si chiamavano già così) foriere di perdite notevoli, rilevabili dalla proporzione delle 'sofferenze al netto dei recuperi' e a spiegare le ragioni della grande crisi di fine secolo. La crisi si sarebbe risolta solo con la riforma a seguito della legge bancaria approvata lo stesso anno. La legge 'ridefinì il sistema della circolazione cartacea, che venne basato sulla copertura metallica dei biglietti ( … ); pose le premesse per il risanamento degli istituti di emissione; avviò il processo di transizione verso una banca di emissione unica; introdusse norme che ponevano la tutela dell'interesse pubblico al di sopra delle esigenze di profitto degli azionisti ( … )'(2) .
Il processo di riforma si sarebbe concluso con un'altra legge bancaria, quella del 1936, a seguito di un'altra pesantissima crisi, ancora più terribile e globale, ma che ancora una volta i comportamenti dei banchieri avevano gravemente appesantito.
'Allo scoppio della crisi del 1929, riverberatasi in Italia dal 1930, le maggiori banche si trovano davanti al fenomeno della improvvisa caduta dei corsi delle azioni industriali da esse possedute e delle loro stesse azioni. In tali contingenze ( … ) misurando con occhio ottimistico la situazione, ritennero la crisi di carattere passeggero e, illudendosi di riuscire ad attenuarne le ripercussioni, anziché vendere, conservarono ed estesero anche il loro possesso di azioni industriali, per fronteggiare le vendite che affluivano sul mercato.'(3)
A fine ottocento tutto cominciò quando improvvisati costruttori, che avevano già molto guadagnato nel corso degli anni '70 si buttarono a capofitto nelle grandi speculazioni di Napoli (il Risanamento dopo il colera del 1884) e soprattutto di Roma (a seguito delle leggi speciali per Roma Capitale del 1881 e 1883). Quando furono chiamati a restituire i crediti pare che fossero molto sorpresi. Non ci avevano proprio pensato. Ma di crediti, come sempre succede quando scoppiano le bolle edilizie, ne rientrarono pochi e così 'rovinarono poscia le banche, prima la Tiberina, poi le altre, nessuna delle quali è rimasta in piedi fino alle ultime che si sono sfasciate dopo il '90'. (4)
Anche alla crisi di fine ottocento e a quella del '29 si pose rimedio mettendo ordine tra gli impieghi delle banche. Non si chiamava ancora bad bank, ma di quello in sostanza si trattava: 'Nel 1885 la Banca Nazionale del Regno, notando la pesantezza del proprio portafoglio, chiese ed ottenne di costituire una propria azienda di credito fondiario, che dotò di un capitale di 25 milioni attinto dalle proprie riserve, con la speranza di trasferire a tale azienda i suoi crediti di lento realizzo (che tuttavia continuarono a figurare in grandi quantità tra gli impieghi) e conseguire una maggiore elasticità della propria circolazione fiduciaria'(5). Nel 1931 invece, esplosa la crisi del Credito Italiano, si procedette dapprima alla separazione della banca dalle sue partecipazioni industriali più decotte e quindi al loro trasferimento nella neonata Società finanziaria Italiana (SFI), che nel '33 sarebbe confluita nell'IRI.
La prima e la seconda guerra mondiale rivoluzionarono tutti gli scenari, le discipline sociali e le coscienze. All'inizio degli anni sessanta la ricostruzione è terminata. L'Italia è ormai un paese industriale che tuttavia rimane gravato da squilibri territoriali e sociali che un secolo di storia unitaria e un decennio di boom non hanno scalfito. Il biennio 1962-1963 è uno scorcio di 'grande consapevolezza' politica che proviamo a condensare in due documenti di valore, entrambi consegnati purtroppo alla storia di ciò si sarebbe potuto fare: la 'Nota Aggiuntiva' (6) di Ugo La Malfa del maggio 1962 e la riforma Sullo sul regime dei suoli, presentata lo stesso anno e poi il successivo.
Nel documento di La Malfa si coglie la chiara necessità di scomporre i riscontri statistici del decennio precedente, fin troppo gratificanti: 'Gli investimenti in abitazioni sono aumentati ad un saggio del 12,3%, contro un saggio medio del 9,3%; essi sono quindi passati a rappresentare il 23% degli investimenti fissi nel 1961 mentre ne costituivano il 17% nel 1950'. È vero che alla base del fenomeno stavano anche l'emigrazione e le esigenze di miglioramento del tenore di vita della popolazione, ma 'per una quota non trascurabile detto aumento può essere attribuito allo sviluppo assunto da un tipo di edilizia residenziale che, per le sue caratteristiche, dovrebbe, con maggiore proprietà, essere considerato tra i consumi.' Anche se gli investimenti industriali sono aumentati al considerevole saggio del 7,6% all'anno, tuttavia 'il peso degli investimenti industriali sul totale degli investimenti fissi risulta diminuito tra il 1950 e il 1961, in conseguenza degli investimenti sia nell'edilizia che nei trasporti e negli altri servizi'. In sostanza gli investimenti nel settore edilizio (oltreché quelli nei trasporti), non sempre necessari in funzione degli spostamenti migratori, hanno sottratto parecchio allo sviluppo industriale del Paese e questo avrà ripercussioni notevoli non solo sul 'razionale assetto delle città', ma sull'insieme dell'economia nazionale. Una distorsione che non verrà mai rettificata.
La linea della programmazione e la legge Sullo, cui La Malfa col suo documento intendeva fare da apripista, finirono presto nel porto delle nebbie, anche perché il 'tintinnar di sciabole', origliato da Pietro Nenni, e il coinvolgimento diretto della sinistra nel governo modificarono del tutto le prospettive. 'Le mani sulla città' di Francesco Rosi fu l'atto finale del biennio d'oro, ma sigillò anche la fine di una 'grande consapevolezza' che non sarebbe mai più tornata a primeggiare nella politica nazionale.
E così siamo ancora lì, gli squilibri sono sempre quelli, tra nord e sud, tra ricchi sempre più ricchi, poveri che restan poveri e disoccupati che vanno ad ingrossarne l'esercito. E l'Italia, che una parte cospicua dei costituenti avrebbe voluto essere un luogo dove non tutti sarebbero stati proletari ma tutti sarebbero stati proprietari, ha inverato il paradosso per cui il bene simbolo del focolare domestico riesce con perversa sinergia a isterilire i risparmi, a scoraggiare gli investimenti produttivi (quelli veri non le speculazioni sui terreni) e a minare ancora una volta i bilanci delle banche. Ma 'le banche italiane sono solide', più di quelle tedesche… Abbiamo solo il problema delle sofferenze e dei crediti deteriorati, rispettivamente 200 e 350 miliardi si calcola. Una voragine cui si tenta di rimediare con periodici accantonamenti e svalutazioni. Ma per un Paese fondato sul mattone è molto complicato, tanto più se intende perseverare nel modello. Difficile sapere a quanto ammontano le sofferenze immobiliari, ma sono diversi i modi in cui queste fanno sentire il loro peso sui bilanci delle banche: finanziamenti alle imprese per interventi edilizi, mutui alle famiglie per l'acquisto delle case, valore delle ipoteche degli immobili dati a garanzia. Il calo degli investimenti negli anni della crisi è dovuto per l'80% al crollo degli investimenti in edilizia. Ma è un'inferenza impropria quella secondo cui occorre rilanciare l'edilizia, ancorando ancora di più il Paese a un modello di sviluppo che lo condanna all'arretratezza. La deduzione più razionale sarebbe abbandonare quel modello e riacquistare almeno un po' della consapevolezza che primeggiava nel 'biennio d'oro'
Note
1) G. Di Nardi, Le banche di emissione in Italia nel secolo XIX, Utet, Torino, 1953, pag. 395.
2) Banca d'Italia, Sito ufficiale.
3) Donato Menichella, ex direttore generale dell'IRI, in M. Franzinelli e M. Magnani, Beneduce, 2009, Milano, Mondadori, pag. 189.
4) E. Arbib (a cura di), Sommario degli Atti del Consiglio Comunale di Roma dal 1870 al 1895, cit. in I. Insolera, Roma moderna. Da Napoleone I al XXI secolo, 2011, Torino, Einaudi, pag. 77.
5) Di Nardi, Le banche di emissione in Italia nel secolo XIX, 1953, Torino, UTET, pag. 391.
6) U. La Malfa, Ministro del Bilancio nel IV Governo Fanfani, Nota Aggiuntiva alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese per il 1961, 22 maggio 1962.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 28 GENNAIO 2016 |