Pier Carlo Palermo  
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PER UN'URBANISTICA CHE NON SIA UN SIMULACRO


Commento critico all'ultimo libro di Luigi Mazza



Pier Carlo Palermo


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1. Una voce felicemente inattuale

In un quadro disciplinare che a me pare sempre più desolante, le riflessioni di Luigi Mazza presentano alcuni caratteri peculiari: nel suo libro più recente -  Spazio e cittadinanza. Politica e governo del territorio, Donzelli 2015(1) - come in tanti contributi precedenti. Il tema più importante, a mio avviso, è la tenace volontà di conciliare due istanze diverse: la sensibilità necessaria verso le molteplici dimensioni della "questione urbanistica", che non può essere circoscritta nella sfera delle trasformazioni fisiche del territorio, ma comporta sempre una varietà di relazioni e implicazioni - giuridiche, economiche, sociali, ambientali e culturali; ma anche l'esigenza di una delimitazione più chiara e specifica dei contenuti tecnici essenziali e delle responsabilità istituzionali e operative che non possono trovare surrogati. Una domanda dunque, al tempo stesso, di apertura riflessiva e di progresso tecnico pertinente ed efficace.

Questo orientamento non è assolutamente ovvio, né condiviso. L'area disciplinare non è coesa, ma si divide fra le schiere dei cultori della tecnica o della visione, della regola o della retorica. Da un lato vi sono ancora urbanisti che credono (o si illudono di credere) che esista un sapere disciplinare codificato che attende solo di essere applicato con rigore da un potere pubblico finalmente in grado di esercitare le sue responsabilità. Come se indici, schemi e modelli sperimentati nella prima modernità garantissero ancora le soluzioni più idonee per intervenire in un mondo che è radicalmente cambiato. Come se non sorgesse più di un problema sul senso, i modi e le possibilità dell'azione urbanistica contemporanea, ma fosse sufficiente affidarsi a poteri pubblici più forti e a regole prestabilite, vincolanti e possibilmente inflessibili. Posso capire la tendenza come reazione, difensiva e semplificante, a una serie di fallimenti senza fine, ma come è possibile immaginare che le ricette del passato possano improvvisamente funzionare? Su un altro fronte, un gruppo (più esiguo) di planning theorists continua a dedicarsi a libere esercitazioni retoriche. Vi sono buone ragioni per provare a misurarsi con i problemi di diverse e fondamentali sfere della vita collettiva, ma queste riflessioni non possono ridursi a un chiacchiericcio arbitrario e irresponsabile dove l'urbanista tende a diventare quasi-sociologo, pseudo-metodologo o altro, inseguendo gli eventi, invece di provare a anticiparli e orientarli, e cercando sempre di ritagliarsi il ruolo più adatto alle contingenze: così ha provato ad assumere di volta in volta le vesti del tecnocrate, dell'interprete autentico dello spirito comunitario, del facilitatore di relazioni cooperative e persino del creativo che fa leva su suggestioni emotive più che sulla forza della ragione(2). Ne segue un'estesa produzione retorica, che ha un impatto pratico generalmente modesto, ma si accontenta di confluire nel groviglio della comunicazione contemporanea. Rispetto alle sicurezze presunte della tecnica e al travaglio apparente della teoria, società e politica restano ampiamente indifferenti. L'urbanistica sembra destinata a rimanere un progetto sempre incompiuto, ma le sue pretese e debolezze possono essere facilmente utilizzate a sostegno di diversi concreti interessi: tale opportunità sembra sufficiente per placare ogni eventuale disagio (questi giudizi possono sembrare sommari, ma sono stati argomentati in altre sedi)(3). Sono queste le condizioni generali per le quali da tempo l'urbanistica è attività poco attraente e alquanto screditata (impopolare, confusa e inefficace), che tuttavia continua a svolgere una funzione regolativa e procedurale formalmente indispensabile. L'orientamento resta essenzialmente strumentale, ma i problemi di coerenza fra intenzioni ed effetti, principi ed esiti, apparentemente possono essere considerati secondari.

Luigi Mazza, a mio avviso, è uno dei pochi urbanisti italiani che da tempo ha provato ad affrontare queste contraddizioni. Non elude la complessità dei temi, si preoccupa di esplorare le loro implicazioni (questo libro ne è una testimonianza ulteriore), ma non dimentica che la responsabilità cruciale concerne una rielaborazione tecnica pertinente del profilo disciplinare e professionale. In questo senso, il suo stile può apparire inattuale, ma questo scarto è potenzialmente fertile: come ogni tentativo, motivato e plausibile, di mettere in discussione le posizioni più conformiste e superficiali che sono tanto diffuse quanto improduttive. Non dubito che le responsabilità degli insuccessi siano, per una parte rilevante, interne alla disciplina. Senza una riflessione critica e una reale tensione verso il rinnovamento di idee, strumenti e azioni mi sembra difficile sperare in esiti migliori.

 

2. Temi, dialoghi e riflessività

Il libro affronta alcuni problemi tradizionali della disciplina urbanistica secondo una prospettiva originale. La questione principale è come i processi politici di governo del territorio e le elaborazioni tecniche e amministrative della pianificazione dello spazio possono influire sull'interpretazione e l'evoluzione dell'idea di cittadinanza. Nel corso del tempo, questa nozione ha assunto una varietà di significati. L'interesse per il tema sembra crescere negli ultimi decenni, ma la riflessione rischia di diventare dispersiva o poco determinata a causa dell'estensione eccessiva e della vaghezza dei quadri di riferimento. Infatti, la cittadinanza può essere intesa come un complesso di diritti fondamentali della persona, a partire dalle solenni "Dichiarazioni" nella fase insorgente della modernità. Questa sfera appare sovra-ordinata rispetto alle pratiche urbanistiche. Sembra necessaria solo una certa cautela affinché le azioni disciplinari, per via diretta o indiretta, non interferiscano negativamente con l'esercizio di alcuni diritti civili. Il rischio è che regole, vincoli e interventi di settore possano condizionare alcune libertà essenziali: come può accadere nelle città dove crescono sperequazione, segregazione e difficoltà di accesso a beni e servizi primari. Il controllo di alcuni diritti individuali d'uso e trasformazione dello spazio, invece, è certamente materia del governo del territorio; sarebbe però riduttivo fondare la nozione di cittadinanza soltanto su questo requisito. Non è dunque questa la via più significativa tramite la quale l'urbanistica può incidere sul senso e sul valore della cittadinanza. Più interessante e verosimilmente più influente è l'idea di appartenenza a una comunità politica che condivide valori, diritti e doveri. Questo è il caso del cittadino di una nazione (il cui status è diverso da quello dello straniero), ma la stessa idea è stata ripresa in relazione a minoranze etniche e culturali di una società. Da un punto di vista urbanistico, lo sguardo può essere rivolto a situazioni ancora più specifiche come la formazione, a scala infra-urbana, di comunità locali, non sempre di pubblico interesse (infatti si moltiplicano progetti e insediamenti d'iniziativa privata). Se riteniamo pertinente l'uso, estensivo, della nozione di cittadinanza in simili contesti, non vi è dubbio: l'azione urbanistica può modificare le condizioni di appartenenza a un gruppo e a un luogo urbano per molti soggetti. Ancora più significativa è un'altra famiglia di interpretazioni. Grazie a una varietà di politiche e strumenti, l'urbanistica è in grado di aumentare l'offerta di valori d'uso in parti diverse della città, producendo, con la mano pubblica o tramite operatori privati, beni e servizi in grado di migliorare le potenzialità e la qualità della vita urbana nel contesto. Si tratta dunque di prestazioni affini ai cosiddetti "diritti sociali", generati dalle politiche per il welfare, che possono incidere positivamente sulla qualità sociale e ambientale del contesto. Il ricorso alla nozione di diritto in questo caso è opinabile perché in sostanza si tratta di prestazioni di servizio, promosse con relativa discrezionalità da un'autorità purché siano disponibili le risorse necessarie. Tuttavia, se accettiamo l'idea che la cittadinanza si nutre anche di questi fenomeni, non vi è dubbio: questa è una delle strategie più importanti tramite le quali l'urbanistica può esercitare la sua influenza rispetto al tema. La varietà dei riferimenti richiederebbe probabilmente qualche orientamento. Luigi Mazza ne propone una rappresentazione esauriente selezionando un certo numero di situazioni che possono essere considerate idealtipiche e generalmente appartengono a epoche lontane. In particolare egli discute un ventaglio di posizioni in due fasi storiche: la stagione nella quale ha preso forma la modernità urbano-industriale e, in modo più sommario, il tempo della crisi della modernità, ormai palese nel secondo '900. Il libro non prende in considerazione sviluppi più recenti della questione (riprenderò l'osservazione nel par.3).

Il metodo di lavoro si basa sulla scelta di poche questioni cruciali e sul dialogo, rispetto a questi temi, con una selezione di fonti possibili, da non intendere come fondamenti costituiti (come accade all'ortodossia modernista), bensì come tracce fertili a partire dalle quali innovazioni significative possono essere sviluppate secondo il contesto (come le "rovine" di Benjamin, che alludono a un'idea più problematica e fertile del progetto moderno)(4). Tre sono, a mio avviso, le questioni più importanti: come una società concepisce le forme spaziali più idonee per ospitare e sostenere pratiche correnti e dinamiche future; come queste forme, e le tecniche adottate per la loro creazione e gestione, incidono sulle relazioni sociali nei contesti d'influenza; come le trasformazioni e la gestione degli spazi urbani influiscono sui diritti d'uso della città e sulla qualità della vita urbana, consentono cioè di creare nuovi valori di cittadinanza. Per ogni tema Mazza sceglie alcuni interlocutori privilegiati.

Per riflettere sulla genesi delle forme spaziali, l'attenzione è rivolta verso tre precursori che raramente sono stati considerati insieme - Cerdà, Howard e Geddes - e poi verso un artefice della "pianificazione totale" come Abercrombie. Ogni autore diventa il riferimento per ragionare su una diversa concettualizzazione delle forme: come schemi di equilibrio o di sviluppo, come modelli di assetto consolidato o di trasformazione innovativa. Il filo comune è un'idea di organizzazione spaziale non formalistica, ma sempre correlata a una visione e strategia di sviluppo, che ogni volta è declinata in forme diverse. In questo senso, il contributo appare indubbiamente inattuale. In molte esperienze recenti l'urbanistica appare priva di visione o riduce questo impegno alla formulazione di valori e obiettivi edificanti, ma generici e privi di un vero radicamento territoriale. Oppure la concezione dell'organizzazione spaziale è meramente fisico-formale, perché affrontare i problemi dello sviluppo urbano a medio-lungo termine sarebbe un impegno troppo oneroso e scoraggiante per la politica. Gli stessi riferimenti disciplinari suggeriti da Mazza risultano inattuali: perché Cerdà riesce a coniugare l'indubbia capacità tecnica con un'autentica tensione riformista,, mentre l'urbanistica tecnica del '900 tende a lasciare sullo sfondo i valori(5); Geddes, nelle ultime esperienze indiane, è giunto a mettere radicalmente in discussione il profilo tecnocratico della pianificazione che egli stesso aveva contribuito a creare(6); Howard è stato davvero un "creativo" capace di riformulare radicalmente i problemi apparentemente intrattabili della città del suo tempo, ma il suo destino è stato una diffusa e banale imitazione, purtroppo priva di capacità innovative (è il caso dei movimenti per la città giardino e le unità di vicinato)(7); né è plausibile l'attualità del metodo e della visione di Abercrombie, cinquant'anni dopo che il nostro paese ha sperimentato gli sforzi affini, tanto generosi quanto vani, di Giovanni Astengo.

Per indagare sulle implicazioni sociali della regolazione urbanistica, valgono i riferimenti ad alcune esperienze esemplari, nel lungo periodo. Lo stesso Mazza ha indicato da tempo questa via, con risultati originali e ineccepibili. La sua discussione di casi idealtipici, situati in California, Oregon e New England, è esauriente, efficace e ricca di ammaestramenti(8). Peccato che in Italia, da tempo, questi temi siano largamente ignorati. La funzione regolativa si riduce spesso alla distribuzione a pioggia di promesse insostenibili: come concessione generalizzata di diritti edificatori che nessun mercato sarebbe in grado realmente di assorbire. Queste scelte si rivelano irresponsabili perché creano vane aspettative ed effetti di distorsione delle possibilità di sviluppo urbano. Nello stesso tempo, la riflessione disciplinare sembra paralizzata fra opposte esigenze e aspirazioni divergenti. Da un lato, un orientamento liberale dovrebbe indurre a privilegiare regole semplici, uniformi e possibilmente invariabili. D'altra parte, regole indifferenti ai caratteri morfologici e ambientali del contesto possono determinare effetti perversi; pertanto, periodicamente riemerge la volontà dell'urban design di costruire codici regolativi più sofisticati. Sembra impossibile uscire da questo dilemma, anche perché molti urbanisti non sono disposti a riconoscere il conflitto sostanziale fra le due visioni, che sono ispirate da diverse priorità. Pertanto, continuano ad affrontare il problema come se fosse soltanto una questione di tecnica, mentre in gioco è il senso e la legittimazione dell'azione disciplinare(9). In pratica, la prima via appare alla politica meno costosa e problematica della seconda. Per questa ragione, anche in Italia, da tempo, è questa la prospettiva più comune. E' chiaro però che la distanza dalle questioni critiche sollevate da Mazza resta notevole.

Il terzo tema - creare nuovi valori di cittadinanza, cioè la sfida primaria del libro - può sembrare oggi più attuale, ma forse la considerazione vale solo se si guarda alle retoriche di moda. Non vi è manifesto ideologico e politico che non dia enfasi a questi valori-obiettivo, così come sembra dilagare la visione della "città come bene comune". Altrove ho sostenuto(10) che si tratta di un'espressione tecnicamente priva di senso. La sfida sarebbe, semmai, generare luoghi urbani che meglio corrispondano ai requisiti dei "beni comuni", cioè non-esclusione dei cittadini e possibilità di cura, pubblica e collettiva, dei rischi e del degrado che possono derivare dal loro libero uso; ma tutto questo non accade se si analizzano le principali trasformazioni in atto nelle nostre città. In effetti, l'idea che l'urbanistica possa incidere sulle condizioni materiali e sulla qualità della vita urbana può sembrare ovvia e virtuosa. La fonte scelta da Mazza rispetto a questi temi, Henry Lefebvre, riconosce nella condizione urbana le possibilità d'accesso a un complesso di valori d'uso e concepisce queste opportunità come un diritto peculiare: "alla città". La libertà d'uso consente esperienze innovative rispetto alla prassi più comune; pertanto, l'ambiente urbano può favorire le spinte al cambiamento se il "diritto alla città" è garantito. Questa prospettiva ci può aiutare a capire se e come l'urbanistica può creare effetti di cittadinanza? L'ipotesi che l'azione urbanistica incida sui valori d'uso a disposizione è plausibile, ma resta piuttosto vaga. La possibilità di influire sul loro grado di accessibilità è ancora più incerta. Credo che la questione richieda qualche approfondimento e il riferimento a Lefebvre mi pare meno fertile di altre possibili fonti(11). Potrebbe essere utile, infatti, provare a definire meglio l'idea di cittadinanza, indagando almeno in tre direzioni(12). Sappiamo che la nozione può essere fondata sul riconoscimento di nuovi e specifici diritti - meno vaghi della nozione che Lefevbre ha introdotto senza chiarire le condizioni e risorse necessarie, e neppure le regole costituenti. Questa linea di riflessione, però, non può portare a sviluppi significativi se l'azione urbanistica (come sovente accade) è intesa solo come l'assegnazione formale di diritti edificatori, spesso insostenibili. In secondo luogo, la cittadinanza può implicare condivisione e rispetto di un'identità comunitaria. In questo senso, è giusto chiedersi se e come l'urbanistica contemporanea sia in grado di sostenere nuove forme di comunità. Talora e forse: purché non si intenda fare riferimento soltanto a esperienze di gated community, e le pratiche di street community non si riducano alla condivisione di musica commerciale a tutto volume, come è accaduto nel cuore di Milano in prossimità delle feste(13). Infine, l'urbanistica potrebbe favorire prese di responsabilità "repubblicane", cioè lo sviluppo di senso civico e l'impegno verso la partecipazione politica, da intendere non solo come opzioni soggettive, bensì come un dovere per i cittadini(14). Che ciò realmente accada è assai dubbio se si osservano le esperienze più recenti. E' più facile trovarsi di fronte a un generico rilancio dell'ideologia della partecipazione, già ampiamente evocata in passato, quando il tema della cittadinanza sembrava più marginale nei discorsi urbanistici. In conclusione, neppure da questo punto di vista l'attualità del tema proposto da Mazza appare evidente. E' chiaro però che queste considerazioni non segnalano un limite, bensì dei potenziali punti di forza.

In effetti, non credo che possa essere in discussione il senso e il valore del contributo. Un primo ordine di risultati riguarda la capacità di chiarificazione intellettuale in un quadro nel quale leggi, regolamenti, principi, concetti e strumenti sembrano destinati a rimanere confusi e precari, per ragioni spesso opportunistiche. Fondata, acuta e precisa, l'argomentazione di Luigi Mazza consente di ridefinire in modo rigoroso e convincente le principali categorie disciplinari: governo del territorio, pianificazione spaziale, sistema di pianificazione, pianificazione strategica, griglia urbana e così via(15). Non si tratta di un lavoro meramente accademico, perché queste nozioni condizionano le pratiche. Possibilità di comprensione e capacità di giudizio, anche da parte dell'opinione pubblica, sono requisiti importanti per poter tendere verso forme di cittadinanza più evolute.

In questo libro, l'autore riesce anche a delineare un sapere tecnico più maturo (la sfida per la quale sempre si è impegnato)? Non ne sono sicuro, ma forse è tempo di ripensare la questione e questo contributo ci può aiutare. La concezione più tradizionale della riflessività è stata a lungo positiva e, in fondo, tecnocratica o quantomeno illuministica. L'idea sottesa era che il progresso della tecnica prima o poi avrebbe offerto alla politica gli strumenti necessari per agire legittimamente in modi lungimiranti e ben giustificati. Oggi forse è più chiaro che questa visione è semplificante o radicalmente illusoria. Esistono questioni etiche e sociali rispetto alle quali non vi è sapere tecnico che possa esprimere la parola decisiva. Sarà sempre responsabilità costitutiva della politica tentare una sintesi in un quadro di rischi e incertezze destinati a permanere. La riflessività, disciplinare e sociale, non può risolvere ogni problema, ma può portare la consapevolezza tecnica al limite oltre il quale è necessario fare appello a decisioni responsabili (questa è l'idea di riflessività che contraddistingue la seconda modernità, o "modernità riflessiva", nella quale probabilmente viviamo)(16).

Un terzo criterio di valutazione merita qualche considerazione. Dalle riflessioni di Mazza emergono nuove proposte d'azione? Mi sembra di poter rispondere: sicuramente alcune tracce, sulle quali vale la pena di ragionare.

 

3. Dalla riflessione all'esperienza

Sebbene questo lavoro, a differenza di altre opere, non sia espressamente dedicato ai problemi della pratica urbanistica, dal complesso della documentazione e delle analisi emergono alcune indicazioni tutt'altro che ovvie per l'ortodossia disciplinare, che a mio avviso potrebbero essere utili per ripensare il contributo urbanistico ai temi della cittadinanza, non solo in epoche lontane, ma nella congiuntura più attuale. Poiché questi contributi sono approfonditi in altri scritti recenti di Luigi Mazza, mi permetto di suggerire una riflessione integrata sul libro e su una selezione di testi complementari. Da questo complesso di riferimenti, due temi emergono, mi sembra, con chiara rilevanza strategica.

L'idea di piano resta un pilastro per la cultura urbanistica, nonostante la varietà delle interpretazioni tecniche e la crescente debolezza delle prescrizioni, di fatto ampiamente disattese. Mazza non rifiuta questo principio (altri autori sono più eterodossi, ma si tratta di eccezioni), ma ne propone una rielaborazione sostanziale. I modelli tradizionali di pianificazione urbanistica possono essere applicati solo a forme insediative limitate e specifiche (piccoli centri o quartieri relativamente autonomi e consolidati); certamente non ad aree metropolitane complesse ed in intensa trasformazione(17). I contenuti tecnici di questi piani non riguardano solo le tradizionali norme funzionali (da tempo in declino, in verità) e i diritti edificatori (tema dominante, come ho ricordato). L'autore, giustamente a mio avviso, riconosce la centralità della "griglia di organizzazione spaziale", le cui tracce sono indagate nel mondo classico. Io auspico che questa ipotesi sia intesa come una domanda imprescindibile di "disegno urbano" e di "progetto di suolo", nel senso bene illustrato da Gregotti, Secchi e altri(18). Questo è un modo per ribadire la funzione cruciale del disegno di forme spaziali, anche per insediamenti consolidati, ai fini dei valori d'uso e della qualità delle condizioni urbane. La prospettiva non è sviluppata tecnicamente, ma l'indicazione mi sembra condivisibile e rilevante. Purtroppo appare ancora inattuale, se è vero che la regolazione oggi consiste principalmente nell'assegnazione di diritti di edificazione (esemplare il caso di Milano).

Laddove sono in atto o sono attese trasformazioni radicali, lo strumento privilegiato non è il piano, ma il progetto urbano. Questa distinzione non è originale. Architetti e urbanisti eminenti, anche in Italia, hanno anticipato fin dagli anni '60 l'esigenza di differenziare e articolare gli strumenti secondo i caratteri del contesto: aree-tessuto o nodi urbani complessi in trasformazione(19). Tuttavia, questa suggestione non ha mai trovato forme tecniche e riconoscimenti istituzionali compiuti. Generalmente è rimasta in un limbo: come scarto, inevitabile, dalle buone intenzioni di controllo pubblico delle trasformazioni oppure astuto cavallo di Troia per la soddisfazione di determinati interessi privati. Lo stesso Mazza ha provato a dare un'interpretazione più dignitosa del tema nell'interessante esperienza del Documento di inquadramento per Milano (2001). Un esperimento poco compreso (né dalla politica, né da larga parte della disciplina; tanto meno, ovviamente, dall'opinione pubblica)(20), che ha dato risultati limitati, ma degni di riflessione: un certo numero di progetti urbani (in particolare i cosiddetti Programmi di riqualificazione) di medio livello per dimensioni, interesse strategico e qualità dell'intervento; il cui limite principale è stato la ripetitività e la debolezza in termini di innovazione urbana (le stesse funzioni, banali, ovunque)(21). In ogni caso, le tendenze più recenti hanno confermato che le grandi trasformazioni urbane e metropolitane avvengono per progetto; anche Milano, con grande fatica e in modi ancora parziali, finalmente è riuscita a realizzare alcune opere. La prospettiva che Mazza suggerisce ci può aiutare a comprendere e a valutare la qualità di questi processi? Non ho dubbi sul fatto che questa famiglia di interventi potrebbe svolgere un ruolo determinante per la generazione di beni e servizi innovativi, in grado di creare senso e valori di cittadinanza.

In verità, per verificare quest'ipotesi non sarebbe necessario un sapere tecnico inedito, ma solo porre semplici domande sui valori d'uso che un grande intervento dovrebbe generare. A Milano, per esempio, sarebbe ragionevole sottoporre progetti di moda come City Life e Porta Nuova a una semplice checklist. Disegno urbano e progetto di suolo: impercettibili. Spazi aperti: abitabilità condizionata da qualche scelta di organizzazione e d'arredo, ma anche da criticità elementari come l'esposizione a sole e venti, nelle stagioni calde o fredde. Aree verdi: residuali, nonostante l'apparente centralità nei programmi iniziali, e ancora incompiute (purtroppo non basta seminare frumento in città, come operazione di camouflage che a Porta Nuova ha prodotto soprattutto gramigna). Mobilità: non sempre efficiente su ferro (imbarazzante il caso City Life, dove i rimedi sono stati tardivi e parziali); congestionata su gomma (con effetti a catena sulla qualità urbana e ambientale: è il caso di Porta Nuova, progetto incardinato su un pesante canale di traffico, a vista). Architetture: ordinarie, se pur firmate, e casualmente accostate; sul "bosco verticale" potrei dire, per rispetto verso le piante: felice la città che non ha bisogno di alberi sui tetti o, peggio, sui balconi; mi sembra però paradossale lodare il valore ecologico di un intervento che non compensa gli ettari di aree verdi annunciati dal programma iniziale, ma smarriti nel corso del processo. Densità: molto elevate. Funzionalità: precaria - quante previsioni sono state modificate alla ricerca di utenza disponibile, che ancora manca; e quale sarebbe il bilancio di Porta Nuova senza gli investimenti sopraggiunti dal Qatar? Effetti esterni: rilevanti, ma sottovalutati ex ante - inclusi i rischi di tendenziale saturazione o devalorizzazione di alcuni segmenti del mercato urbano. Impatto visuale: spesso imbarazzante; pessimo secondo alcune prospettive. Coerenza con gli obiettivi dichiarati: parziale. È possibile mirare alla formazione di nuovi valori di cittadinanza se si trascurano fattori semplici (e obiettivi, io credo) come questi? Eppure, non mi pare che a Milano oggi esista alcuna riflessione su questi temi, forse sull'onda dell'emozione Expo che peraltro sembra rapidamente declinare, a distanza di pochi mesi. Forse pesa il sollievo per il parziale compimento di operazioni in corso da tempi lunghi, dopo ritardi gravissimi che altrove sarebbero parsi inaccettabili. Ma l'ambiziosa Milano è diventata così provinciale da compiacersi per interventi che in una città globale non figurerebbero nella Top-50? Non si tratta di dare voce a quel "pensiero negativo" che rappresenta una delle tradizioni pervasive del nostro paese. Vorrei soltanto che una pacata riflessione su queste esperienze fosse di aiuto, in futuro, per conseguire risultati migliori(22). Qualunque celebrazione emotiva e superficiale, o peggio strumentale, di quanto accaduto sarebbe solo l'altra faccia dell'immobilismo che a lungo ha paralizzato la città, e dei pregiudizi negativi che tendono a bloccare qualunque possibilità di sviluppo. Non credo che sia possibile condividere gli orientamenti - per me convincenti - di Luigi Mazza senza mettere in discussione i limiti di queste esperienze. Chi potrebbe negare il valore edificante di un'urbanistica che vuole creare cittadinanza e bene comune? Si dovrebbe notare, però, che la presa di posizione diventa irrilevante e contraddittoria se non è accompagnata da volontà e capacità di giudizio sui fatti urbanistici già disponibili, tanto più se recenti e cospicui. 

 

4. Ragionevoli speranze?

Le riflessioni di Mazza hanno il merito di rilanciare una prospettiva culturale purtroppo largamente minoritaria. Appartengono, a mio avviso, alla migliore tradizione del pragmatismo critico e riformista(23) che nel paese è stata quasi sempre sopraffatta da tendenze più forti: come la mobilitazione individualistica che ha portato alla formazione di mercati intolleranti verso ogni regola, ma spesso assistiti; e l'ideologia del controllo pubblico come forma dominante (auto-sufficiente?) di governo, che la sinistra tradizionale continua a riproporre come valore in sé, senza neppure discuterne i limiti intrinseci, già diffusamente documentati dal corso delle esperienze. Mi sembra ragionevole auspicare che le posizioni dell'autore ricevano maggiori attenzioni, ma in gioco non è soltanto la circolazione e il confronto delle idee. È difficile che qualcosa cambi se l'innovazione non assume forme istituzionali. Il problema cruciale che il libro di Mazza esplora in situazioni idealtipiche, senza insistere su ulteriori denunce, è la crisi radicale dell'urbanistica (non solo in Italia). Intenzioni nobili, ma efficacia modesta. Effetti collaterali (non previsti, non voluti) che diventano spesso preponderanti. Resta un simulacro del buongoverno come valore guida, e la leva concreta che consente agli interessi più forti di conseguire obiettivi conformi. Eppure la disciplina non sente il bisogno di mettersi in discussione: le responsabilità sarebbero sempre "di altri". In massima parte, gli urbanisti si limitano a reiterare vecchi modelli; mentre, dietro alle forme stesse della pianificazione, interessi di parte, non sempre ragionevoli, continuano a trovare compimento senza troppe difficoltà.

Il caso di Milano ancora una volta è emblematico. Il Documento di inquadramento del 2001 ha cercato almeno di delineare un quadro di riferimento spaziale e strategico e di introdurre il principio della valutazione dei progetti urbani emergenti. Il sindaco Moratti ha abbandonato ogni tentativo in quella direzione. All'apparenza, si è affidata nuovamente alla logica del piano, interpretata a mio avviso in modi tecnicamente e socialmente irresponsabili: come mera distribuzione a pioggia di diritti edificatori che il mercato stesso non avrebbe potuto assorbire. Eppure la critica, in quella fase, non ha messo in discussione l'impostazione (salvo poche eccezioni)(24): come se il problema fosse solo il livello di qualche indice edificatorio, e non l'idea stessa di "piano per Milano". Il sindaco Pisapia si è trovato di fronte a un'eredità pesantissima, che ha gestito con misura e sensibilità civile, ma senza affrontare molti nodi radicali, forse perché l'impegno è parso insostenibile. Larga parte degli interventi appartiene a quello che nel mondo si chiama "tactical urbanism": azioni parziali, locali e di settore, spesso micro-interventi, che mirano a creare ambienti urbani più gentili, giusti e forse coesi(25). Non sottovaluto la significatività di queste azioni. Tuttavia, mi pare che sia mancato da parte del sindaco (nonostante l'impegno dell'assessore De Cesaris, che ho apprezzato) un vero impulso politico, strategico e operativo, sulle grandi criticità urbane e metropolitane: inquinamento ambientale, congestione da traffico, squilibri funzionali e territoriali, spreco di suolo e di edificazioni, costruzione di una visione al futuro incardinata su progetti cruciali sostenibili. È vero: si tratta di questioni di enorme complessità, tanto più nelle condizioni attuali di bilancio; i tempi richiesti sarebbero comunque lunghissimi e le responsabilità non sono soltanto locali. Ma se la politica non intraprende nessuno sforzo in queste direzioni, come è possibile sperare che, fra venti o trent'anni, i cittadini potranno fruire di un ambiente urbano migliore, e quindi anche più competitivo? Una politica e un'urbanistica che non costruiscono futuro non rispondono al loro mandato. Se manca un progetto politico lungimirante e condiviso, viene meno l'impulso più radicale alla creazione di nuova cittadinanza: questo è il monito che discende da una visione "repubblicana".

Nel prossimo futuro, Milano avrà modo di verificare che cosa la politica è in grado di produrre. I programmi degli aspiranti-sindaco e il confronto elettorale dovrebbero offrire indizi importanti. Al momento, peraltro, alcune premesse possono sembrare poco confortanti. Un ex-ministro vorrebbe moltiplicare progetti come Porta Nuova: senza riflessioni e correzioni nel merito? Esponenti del centro-sinistra mostrano imbarazzo di fronte all'obiezione: "voi eravate contrari alla creazione dei nuovi grattacieli", invece di articolare i giudizi secondo la varietà dei problemi emergenti. Per il centro-destra non vi sono dubbi: il merito della rinascita annunciata della città deve essere attribuito alle politiche intraprese dal sindaco Moratti. Nel frattempo, per inquinamento e congestione la città è sempre in balia del clima e del traffico: non resta che ricorrere, ancora una volta, al blocco della circolazione privata - attivato, con qualche ipocrisia, solo dopo che il Natale è passato. Rilanciare i temi del decentramento municipale e della partecipazione popolare non è sufficiente per mitigare gli squilibri spaziali e funzionali accumulati da decenni, mentre resta in ombra l'eccesso d'offerta in diversi segmenti del mercato urbano, che pure è un fattore di rischio o di crisi da tempo incombente. E la motivazione per congelare i progetti per le aree degli scali ferroviari in disuso sarebbe ancora la mancanza di una strategia d'insieme: dunque è vero, il piano urbanistico approvato a Milano è privo di visione!

Da parte degli urbanisti, spero vivamente in qualche capacità di innovazione di un repertorio ormai obsoleto. Mazza ci offre più di uno spunto: la centralità del disegno urbano nei piani d'area e il rilancio della funzione strategica e territoriale dei grandi progetti urbani sono due tracce significative che personalmente condivido. Questi potrebbero essere due strumenti cruciali per sviluppare relazioni più fertili fra urbanistica e cittadinanza nel nostro tempo. Tanto più se fossero sviluppati in modi ancora più incisivi: perché sarebbe utile prendere posizione, tecnica e culturale, rispetto ad alcuni dilemmi fondamentali della regolazione urbanistica (solo funzionale o morfologica? uniforme o differenziata? ex ante o, se necessario, in parte discrezionale, purché le modalità delle scelte siano sempre trasparenti e responsabili?); ma anche superare la genericità e vaghezza delle cosiddette visioni a medio-lungo termine (tema ambiguo e irrisolto nella prassi corrente), sostituendo gli attuali piani strategici e d'area vasta, largamente inutili, con forme più mirate e concrete di coordinamento verticale, fra diversi livelli di governo, sui grandi progetti di trasformazione che possono avere effetti cruciali per il cambiamento(26). Molto meno interessante mi pare la prospettiva di un educato consenso verso i buoni principi e le dotte argomentazioni che il libro di Mazza ci propone, se non diventa un impulso ad apprendere dalle esperienze e a sostenere il cambiamento che è necessario e possibile. 

In effetti, il libro si chiude con notazioni non ottimistiche. L'autore rileva nel corso del tempo un declino progressivo della capacità di governo politico e tecnico del territorio in relazione al venir meno di una comunità politica capace di esprimere un progetto condiviso e mobilitante, e quindi alla crisi conseguente di cittadinanza. Una deriva senza speranze? Sarei cauto per due ragioni: non è forse il caso di celebrare la forza e coerenza presunta dei progetti del passato (uno sguardo ironico potrebbe svelare debolezze e incoerenze non dissimili da quelle attuali); ma soprattutto lo stesso Mazza, in altre opere recenti che mi è parso giusto qui richiamare, ha dimostrato che non mancano ipotesi e strumenti nuovi con i quali tentare qualche passo verso il rinnovamento. Naturalmente, non è solo questione di tecniche; l'innovazione è possibile solo se l'esigenza di cambiamento investe sfere diverse: la politica, il sociale, l'ambiente, le istituzioni, la disciplina. Se almeno gli urbanisti provassero ad assumere le loro responsabilità...

 

Pier Carlo Palermo

 

Note 

1. Questo libro è oggetto e pretesto delle mie considerazioni.

2. Ho illustrato le tendenze in Palermo, P.C. e Ponzini, D. (2010) Spatial Planning and Urban Development. Critical Perspectives, Springer Verlag, Heidelberg, Berlin, New York. 

3. Palermo, P.C. (2009) I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo, Donzelli, Roma; Palermo e Ponzini (2010), cit.

4. Mi riferisco alla nota immagine di Walter Benjamin: le rovine del passato come ambiti che è necessario attraversare per poter individuare vie nuove verso il cambiamento.

5. Le differenze sono evidenti se si confronta un manuale canonico dell'urbanistica moderna (in Italia, per esempio, quello di Luigi Piccinato: La progettazione urbanistica, Marsilio, Padova, 1988; ed. or. Napoli, 1946) con la "Teoria general de la urbanization" di Ildefonso Cerdà, ed. or. Barcelona, 1867. 

6. Ferraro, G. (1998) Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India. 1914-1924, Jaca Book, Milano.

7. Si veda per esempio: Hardy, D. (1991) From Garden Cities to New Towns. Spon Press, London; Gillette, H. (2010) Civitas by Design. Building Better Communities, from the Garden City to the New Urbanism, University of Pennsylvania Press, Philadelphia; e in generale la letteratura sul "new urbanism".

8. Gaeta, L., Janin, U. e Mazza, L. (2013), Governo del territorio e pianificazione spaziale. Utet, Torino. Sulla centralità della questione della "regolazione sociale" per l'urbanistica contemporanea, rinvio a: Bolocan Goldstein, M. (1997) Urbanistica come regolazione locale, Masson, Milano.

9. In gioco è la contrapposizione fra gli urbanisti che propongono una concezione "nomocratica" della pianificazione, di ispirazione liberale (regole semplici, rigide e uniformi), e gli specialisti di urban design che tentano di costruire codici regolativi sempre più differenziati e articolati perché place-oriented. Una sintesi della questione si può trovare in Palermo, P.C. (2016) "L'urbanistica può essere moderna solo se si mette in discussione", in Clementi, A. (a cura) Forme imminenti. Prove d'innovazione urbana, LISt Lab, Trento-Barcelona.

10. Palermo, P.C e Ponzini, D. (2015) Place-Making and Urban Development. New Challenges for Planning and Design, Routledge, London, New York.

11. Trovo suggestive le argomentazioni di Henry Lefebvre (2014) Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona (ed. or. Paris, 1968), ma più solide le posizioni esposte, fra gli altri, da Danilo Zolo (a cura, 1994) La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari. Per approfondire alcune implicazioni territoriali della questione, si può consultare: Parker, G. (2002) Citizenship, Contingency and the Countryside, Routledge, London, New York.

12. Delanty, G. (2000) Citizenship in a Global Age. Society, Culture, Politics, Open University Press, Buckingham; Lister, M. e Pia, E. (2008) Citizenship in Contemporary Europe, Edinburgh University Press, Edinburgh.

13. L'ironia sembra facile di fronte a certe iniziative - come obbligare visitatori e passanti ad ascoltare non solo i canti di Natale lungo via della Spiga, ma radio Montecarlo in tutta la via Sant'Andrea; le questioni, però, sono complesse; ho tentato di discuterle in Palermo e Ponzini, 2015, cit.

14. Pettit, P. (2000) Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo. Feltrinelli, Milano (ed. or. Oxford, 1997).

15. Questi temi sono stati preparati o approfonditi da una fitta serie di contributi specifici. Tra gli altri, rinvio ai saggi: Mazza, L.(2000) "Strategie e strategie spaziali", Territorio, 13; (2003) "Appunti sul disegno di un sistema di pianificazione", CRU, 14; (2009) "Pianificazione strategica e prospettiva repubblicana", Territorio, 48; (2010) "Limiti e capacità della pianificazione dello spazio", Territorio, 52;  (2011) "Governo del territorio e pianificazione spaziale", in Dematteis, G. (a cura) Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre, Marsilio, Venezia; (2012) "Finalità e sapere della pianificazione spaziale. Appunti per la ricostruzione di uno statuto disciplinare", Territorio, 62.

16. Beck, U., Giddens, A. e Lash, S. (1999), Modernizzazione riflessiva, Asterios, Trieste.

17. Mazza, L. (2011) "Dimensione urbana e strumenti di governo del territorio", in Arcidiacono, A. e Pogliani, L. (a cura) Milano al futuro. Riforma o crisi del governo urbano, Et Al, Milano.

18. Gregotti, V. (1986) Questioni di architettura, Einaudi, Torino, e (1993) La città visibile, Einaudi, Torino; Secchi, B. (1989) Un progetto per l'urbanistica, Einaudi, Torino.

19. Tra gli altri spiccano i contributi, non equivalenti, di Ludovico Quaroni (La Torre di Babele, Marsilio, Padova, 1967), e Giancarlo De Carlo (Questioni di architettura e di urbanistica, Argalìa, Urbino, 1964; si consideri anche il suo sguardo retrospettivo in Gli spiriti dell'architettura, Editori Riuniti, Roma, 1992). Sugli stessi temi sono utili le riflessioni di Bernardo Secchi (1989), cit.

20. Mazza, L. (2001) "Verso una trasformazione della pianificazione urbana", in Comune di Milano, Ricostruire la grande Milano. Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Il Sole24Ore, Milano.

21. Bolocan Goldstein, M. e Bonfantini, B. (a cura, 2007) Milano incompiuta. Interpretazioni urbanistiche del mutamento, Angeli, Milano; Bricocoli, M. e Savoldi, P. (2010) Milano Downtown. Azione pubblica e luoghi dell'abitare, Et Al, Milano. 

22. Ho sviluppato questi temi in Palermo e Ponzini, 2015; Palermo, 2016, cit.

23. Spero che la recente traduzione di Richard Bernstein, Sul pragmatismo (Saggiatore, Milano, 2015, ed. or. Cambridge Uk, 2010) possa contribuire in Italia a una ripresa di interesse per il tema.

24. Arcidiacono, A. e Pogliani, L. (a cura, 2011), cit.

25. Palermo e Ponzini, 2015, cit.

26. Un possibile quadro di rinnovate ipotesi disciplinari è delineato, in sintesi, in Palermo, 2016, cit.

 

 

Pier Carlo Palermo, professore ordinario di Urbanistica, ha fondato e diretto il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano. Nello stesso ateneo è stato preside della Facoltà di Architettura e Società. Tra le sue pubblicazioni: Trasformazioni e governo del territorio: introduzione critica  (Franco Angeli, Milano 2004); Innovation in Planning: Italian Experiences (APROpress, Barcellona 2006); con G. Pasqui, Ripensando sviluppo e governo del territorio: critiche e proposte (Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2008); I limiti del possibile: governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, Roma 2009); con D. Ponzini, Spatial planning and urban development: critical perspectives (Springer, New York etc. 2010); con D. Ponzini, Place-making and urban development: new challenges for contemporary planning and design (Routledge, Abingdon - New York 2015).

 

Sul libro di Luigi Mazza oggetto di questo contributo - Spazio e cittadinanza. Politica e governo del territorio (Donzelli, Roma 2015) - si vedano anche i commenti di Vittorio Gregotti - Città/cittadinanza binomio inscindibile - e di Stefano Moroni - Governo del territorio e cittadinanza - .

RR

 

 

 

 


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05 FEBBRAIO 2016

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale

a cura di Renzo Riboldazzi cittabenecomune@casadellacultura.it

 

 

Gli incontri 

- 2016: programma /presentazione

- 2015: programma /presentazione

- 2014: programma /presentazione

- 2013: programma /presentazione

 

Interventi, commenti, letture

 - S.Moroni, Governo del territorio e cittadinanza, commento a L.Mazza, Spazio e cittadinanza.(Donzelli, 2015) 

 - P.Berdini, Quali regole per la bellezza della città?, commento a S.Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)  

 - R.Riboldazzi, Perchè essere 'pro' e non 'contro' l'Urbanistica, commento a F.La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

 - P. Maddalena, Addio regole. E addio diritti e bellezza delle città, prefazione a: P. Berdini, Le città fallite (Donzelli, 2014)

- S. Settis, Beni comuni fra diritto alla città e azione popolare, introduzione a: P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)

- L. Meneghetti, Casa, lavoro cittadinanza. Il nodo irrisolto dell'immigrazione nelle città italiane

- M. Romano, Urbanistica: 'ingiustificata protervia', recensione a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)

- P. Pileri, Laudato si': una sfida (anche) per l'urbanistica, commento all'enciclica di Papa Francesco (2015)

- P. Maddalena, La bellezza della casa comune, bene supremo. Commento alla Laudato si' di Papa Francesco (2015)

- S. Settis, Cieca invettiva o manifesto per una nuova urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- V. Gregotti, Città/cittadinanza: binomio inscindibile, Recensione a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

- F. Indovina, Si può essere 'contro' l'urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- R. Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall'uomo (e dai suoi rifiuti)? Recensione a: R. Pavia, Il passo della città (Donzelli 2015)

- R. Riboldazzi, Suolo: tanti buoni motivi per preservarlo, recensione a: P. Pileri, Che cosa c'è sotto (Altreconomia, 2015)

- L. Mazza, intervento all'incontro con P. Maddalena su Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)

- L. Meneghetti, Dov'è la bellezza di Milano? , commento sui temi dell'incontro con P. Berdini su Le città fallite(Donzelli, 2014)

- J. Muzio, intervento all'incontro con T. Montanari su Le pietre e il popolo(mimum fax, 2013)

- P. Panza, segnalazione (sul Corriere della Sera dell'11.05.2014)